Con il suo “por qué no te callas?”, Juan Carlos di Borbone ha regalato ai nemici di Hugo Chávez una sorta di formula magica, semplice ed efficace come l’uovo di Colombo, da contrapporre all’irrefrenabile logorrea messianica del presidente bolivariano – E, nel contempo, quella stessa logorrea messianica ha alimentato, elevando Chávez a paladino degli oppressi di mezzo millennio di Storia – Il tutto per ribadire un’ormai ovvia verità: Chávez non può essere zittito. Perché, se cessasse di parlare, cesserebbe d’esistere…
di Massimo Cavallini
22 novembre 2007
Il re di Spagna parlò. E subito – a dispetto dell’assoluta brevità del discorso – fu di nuovo “Conquista”. Anzi, furono – quasi d’acchito – due divergenti, ma interconnesse “conquistas”. Tutta vissuta in chiave d’indignata rievocazione dei fatti che seguirono lo sbarco di Cristoforo Colombo, la prima. Tutta consumatasi nei modernissimi territori cyberspaziali, la seconda. Ed entrambi pendenti da quattro semplicissime e non particolarmente regali parole. Il “Por qué no te callas?” (perché non stai zitto?) con il quale, rivolto ad Hugo Chávez, Juan Carlos di Borbone ha acceso una Cumbre Iberoamericana che navigava nella bonaccia della noia più assoluta, è infatti, nel giro di poche ore, diventato il più scaricato degli squilli per telefonino (vedi qui uno dei molti esempi) ed il più cliccato videoclips di YouTube (disponibile anche in forma di paso doble, sulla falsa riga di “Que viva España”, e di rap). Nonché, ovviamente, l’oggetto d’un dibattito politico destinato, difficile dire quanto a lungo, a toccare e simboleggiare, con quasi uguale forza, desideri e pensieri tra loro diversi ed opposti.
I fatti sono ormai, non solo stranoti, ma analizzati, scomposti e ricomposti, misurati emsoppesati sul metro della Storia e su quello – più leggero, ma non meno profondo – della satira politica. Dopo che Hugo Chávez aveva, in un suo intervento, duramente attaccato l’ex presidente spagnolo José María Aznar, definendolo un “vero fascista” (vedi a tal proposito l’articolo proprio a questo dedicato), Zapatero aveva chiesto la parola per sottolineare come, nella sua qualità di rappresentante ufficiale della Spagna alla “Cumbre” non potesse accettare l’uso di termini tanto offensivi nei confronti d’un presidente a suo tempo eletto dal popolo spagnolo. Si può politicamente dissentire, aveva detto (o cercato di dire) Zapatero, senza bisogno di “descalificar”, ingiuriare le persone. Ed era stato a questo punto che Chávez aveva con insistenza interrotto l’oratore, venendo a suo volta zittito – solo per qualche secondo, ma si tratta comunque di un record – dall’ormai celeberrima frase del sovrano. Ovvero: da quel “Por qué no te callas?” che ha, all’istante toccato – e da entrambi i lati della barricata – corde non si sa quanto profonde, ma certo assai fragorose.
Perché le quattro comunissime parole pronunciate dal re (o dal “Borbone” come molti hanno cominciato sprezzantemente a chiamarlo) hanno suscitato queste contrapposte, ma egualmente fervide reazioni? La risposta appare semplicissima e, insieme, terribilmente complessa. Dal lato dei “nemici di Chávez”, o meglio, da lato di quanti chavisti non sono, quel “Por qué no te callas?” ha ovviamente rappresentato, nella sua nitida e brutale essenzialità, la risposta che da tempo andavano cercando di fronte alla sempre più invadente e messianica logorrea del presidente bolivariano. Per loro era, quello uscito sbottando dalle regali labbra di Sua Maestà, un lampo di verità nella notte, un bagliore che, invertendo le parti della celebre favola di Hans Christian Andersen, rivelava finalmente al mondo come il bambino fosse nudo (ammesso, ovviamente, che bambino si possa definire, anche solo per metaforica comodità, un caudillo troppo abituato ad ascoltarsi e, ascoltandosi, ad innamorarsi delle proprie parole). Era, quella frase, l’assoluta, folgorante semplicità di cinque elementi allineati (quattro vocaboli, per l’appunto, più un molto retorico punto di domanda) contrapposta alla marea montante ed apparentemente inarrestabile del perenne sproloquio d’un presidente che, se non è un dittatore, certo come un dittatore (o, comunque, come un narcisistico messia) ama parlare. E parlare, perlopiù, a suon di insulti. Gli striscioni apparsi per le strade (vedi la foto del giorno) di una Caracas sempre più tappezzata dalle gigantografie del “grande leader”, proprio questo hanno – con tutta evidenza – inteso testimoniare: la scoperta d’una sorta di uovo di Colombo verbale, un antidoto al velenoso “rumore di fondo” che, come un’insopportabile ed arrogante cantilena, va da anni accompagnando e tormentando la vita di quanti non amano Hugo Chávez Frías. (Un molto autorevole esempio di questo punto di vista, brillantemente articolato, ma piuttosto ossessivamente e faziosamente anti-chavista ed anti-cubano, è certo l’articolo scritto, sul El Paìs di Madrid, da Mario Vargas Llosa)
Per gli altri – ovvero, per coloro che amano Chávez, e per Chávez stesso, primo e più entusiasta ammiratore di se stesso – la frase del “borbone” ha avuto un’ancor più dirompente forza di emblematico ed universale compendio della storia del continente. Rifiutando (dopo qualche esitazione) il silenzio impostogli da Juan Carlos Alfonso María de Borbón y Borbón-dos Sicilias, Chávez si è riproposto nelle vesti che più si attagliano all’immagine che lui ha di sé medesimo e che di sé medesimo vuol dare ai sudditi: quella d’una reincarnazione del “Libertador” capace, non solo di completare l’opera di Simón Bolivar, ma di ridar voce e dignità ad 500 anni di resistenza all’oppressione. Ed è per questo che, battuto il suo record di silenzio continuato (ovvero: i pochi secondi seguiti al borbonico “por qué no te callas?”), Chávez s’è affrettato a disseppellire, con furia vendicatrice, secoli di storia. “Perché non stai zitto, indio Guaicaipuro? Taci, Tupac Amaru! Perché parli Tiuna, Chacao. Stai zitto! E zitti li fecero stare, perché abbassassero la testa servilmente di fronte all’ordine imperiale. Li fecero tacere quando tagliarono loro la gola, perché solo così li potevano far tacere. Li squartarono, li fecero a pezzi e misero le loro teste in cima a pali lungo il cammino che portava ai villaggi. Questo fu, qui, l’impero spagnolo…”.
E questo – con piccole varianti – è quello che Hugo Chávez è andato instancabilmente dicendo e ridicendo (ogni giorno più volte al giorno) nei giorni che hanno fatto seguito all’ “incidente” di Santiago, mentre, sull’altra sponda, migliaia di telefonini andavano ripetendo, ad ogni chiamata: “Por qué no te callas?, por qué no te callas?…”. E mentre, dal lato amico, con l’esaltato ed untuoso ossequio che è forse il più deteriore dei sottoprodotti del messianesimo chavista, molti, in una piuttosto squallida rincorsa di demagogici accenti, andavano facendo pappagallesca eco alle parole del grande leader (ecco qui un buon esempio di questa eco – Un reyezuelo de pacotilla – tratto da Aporrea, una pubblicazione on line sulla quale, fino a qualche tempo fa, si potevano leggere anche articoli che non fossero di pura propaganda. Altri tempi. Evidentemente, in Venezuela, più la rivoluzione s’approfondisce, più superficiali, tronfie e servili diventano le sue capacità d’analisi. Al lato di questo articolo si possono trovare molti link con altri scritti che ben testimoniano quale sia, tra i seguaci del Nuovo Bolivar, il livello della polemica anti-spagnola).
Molti osservatori – convinti che dietro l’arrembante demagogia di Chávez si celi un animale politico di straordinaria astuzia ed intelligenza, capace (a dispetto dell’apparente ciarlataneria) di calcolare al millimetro ogni sua mossa – si dicono convinti che l’attacco ad Aznar fosse stato preventivamente studiato per “fini interni”. Vale a dire: per esaltare la minaccia d’un nemico esterno” nel momento in cui, dentro il Venezuela, s’infiamma la battaglia per la riforma costituzionale. Ed probabile che così in effetti sia, avendo Chávez dato del “fascista” ad Aznar (vedi, di nuovo, l’articolo “Aznar è un fascista?”) nel quadro d’un discorso, che, ricordando la tragedia di Allende, sottolineava come, nell’aprile del 2002, l’allora primo ministro spagnolo non avesse mancato di testimoniare la sua simpatia per l’assai effimero governo di Pedro Carmona (meglio noto come “Pedro il Breve”) nei giorni del golpe che cercò di abbattere il legittimo governo del Venezuela. Vecchie verità, che lo stesso governo di Zapatero aveva, per bocca del ministro degli esteri, denunciato anni fa. Dunque: che senso aveva rievocarle e rigonfiarle di retorica, quelle verità, nel contesto d’una Cumbre dedicata alla “coesione sociale”? E che senso ha avuto, dopo l’incidente – quasi certamente non previsto, ma da Chávez sfruttato con molto pianificata precisione – scagliarsi contro la monarchia spagnola come se sul trono ci fossero ancora Carlo I o Ferdinando VII, e come se il socialista Zapatero fosse, non già “el caballerito” José Luís Aznar, ma José Tomás Boves, di nuovo impegnato, come nel 1813, a percorrere, nel nome del re, con la sua “Legión Infernal”, la regione de Los Llanos? Che senso ha, oggi, rievocare, contro il re che fu garante della trasformazione democratica della Spagna franchista (tra l’altro confrontandosi, nel 1981, con un altro aggressivo colonnello golpista, il ben noto Antonio Tejero, della Guardia Civil) il proclama di “Guerra a Morte “, lanciato da Simón Bolivar prima della sua “Campaña Admirable” (“Españoles y canarios, contad con la muerte…”)?
Nessun senso e tutto il senso. Nessun senso, perché, ovviamente, essendo la Storia e la cronaca quello che sono, Juan Carlos non è né Carlos I, né Ferdinando VII; e José Luís Rodríguez Zapatero non è il caudillo realista José Tomás Boves (anzi – gran paradosso dell’intera vicenda – l’uno e l’altro sono rappresentanti d’una Spagna che è oggi, contro Aznar e la destra spagnola, la più aperta e disponibile a rapporti positivi con il Venezuela di Chávez e con la Cuba di Castro). Ma, soprattutto, perché, a dispetto della sua molto bolivariana parlantina, Hugo Chávez Frías mostra, quando calza gli stivali del Libertador (cioè, in pratica, sempre), la stessa goffa (e tragica) sbruffoneria di Patroclo nell’armatura di Achille. E nel contempo, per l’appunto, tutto il senso perché, per quanto storicamente e logicamente improponibili – improponibili anche qualora, come più d’uno suggerisce (vedi articolo di Salim Lamrani) vengano collocati nell’ambito d’una più ampia polemica contro il nuovo imperialismo economico delle multinazionali spagnole – le riaccese passioni antimperiali ed antimperialistiche scatenate dal regale “por qué no te callas?” perfettamente s’inquadrano nella visione “eroica” della politica chavista. La stessa visione eroica che – nel suo più ovvio ed inevitabile corollario del “o con me o contro di me” – è oggi alla base della campagna per il “sì” alla riforma costituzionale (vedi nostro articolo “Chávez per sempre”). Aderire o “tradire”. O con la Patria, o con l’ “Impero”. L’Impero di ieri, che calpestava nel sangue la dignità del cacique Guacaipuro e negava l’indipendenza. L’Impero di oggi che, contro Allende o contro Chávez, organizza golpe in combutta con l’oligarchia locale. Questo è il senso che il presidente bolivariano – i cui sostenitori, non per caso, si sono negati ad ogni confronto televisivo – ha dato al referendum del prossimo 2 di dicembre.
E questo è, anche, il senso generale della politica di Hugo Chávez, un leader che, a fronte dello storico fallimento della vecchia classe politica “puntofijista”, ha fatto della polarizzazione politica l’arma d’un processo d’accumulazione di potere che, sotto l’assai spurio nome di “socialismo del XXI secolo”, vede il suo culmine nella prossima riforma costituzionale. Tutto, nella politica del chavismo (vedi anche il nostro articolo “Una mezz’ora segnata dal destino”), deve portare in sé il marchio della Storia, tutto deve essere epocale, epico, leggendario. Ed è per questo che Chávez ha un costante, vitale bisogno della luce dei riflettori, un’ immanente, imprescindibile necessità di parlare, parlare, parlare…
Il ruolo di nuovo Libertador di Hugo Chávez ha trovato, a ridosso del “Por qué no te callas?” del “re borbone” l’imprimatur d’un altro “eroe” al tramonto: Fidel Castro che, dal suo letto di convalescenza, ha scritto, per il Granma, ben tre brevi articoli (El Che era un hombre de ideas, Waterloo ideologica e El diálogo con Chávez) dedicati all’incidente di Santiago. Questi articoli, a tratti piuttosto divaganti, sono tuttavia chiusi da“Viva Hugo Rafael Chávez” che, nella sua perentorietà, può a tutti gli effetti essere interpretato come un definitivo passaggio di consegne. E sono anche, oltre il divagare, con molta chiarezza percorsi da un’idea base: nelle parole “degnissime” di Chávez, ha scritto Fidel, sono racchiuse le “prove irrefutabili” della “politica genocida dell’Impero”. Per questo Zapatero ha pronunciato il suo discorso “invertebrato ed inopportuno” in difesa di Aznar. Per questo il re ha cercato di zittire Chávez. E per questo proprio in Chávez – e di riflesso in Daniel Ortega ed Evo Morales – oggi si reincarnano la secolare lotta per la liberazione del continente e lo stesso spirito del castrismo.
Ma a suo modo ancor più interessante della consacrazione di Fidel è un dettaglio che, in questi giorni – apparentemente marginale, ma in realtà essenziale – è di continuo riaffiorato nei discorsi di Chávez, facendo capolino anche tra le righe degli articoli del “Comandante en jefe”. A più riprese, il presidente bolivariano ci ha tenuto, infatti, a far sapere di non aver sentito quel che tutti avevano ascoltato. Più esattamente: ha ripetuto di non aver percepito, per “ragioni tecniche”, le quattro ed ormai proverbiali parole che il sovrano gli aveva rivolto. Perché questa precisazione? Evidentemente perché Chávez – e con lui il líder máximo del quale ha già di fatto raccolto l’eredità – si sente in dovere di spiegare al mondo non la sua tracotanza (della quale va molto fiero) ma, all’opposto, il brevissimo momento di silenzio, la non sufficientemente “eroica” esitazione con cui ha accolto il rimbrotto del sovrano. Chávez dice di non aver prestato attenzione al “por qué no te callas?” di Juan Carlos, perché nessuna macchia, foss’anche la più impercettibile, può sporcare l’abito del nuovo libertador, nessuna titubanza, nessun silenzio, foss’anche il più sfuggente, può interporsi, come un’infima parentesi di viltà, tra le parole, patria, socialismo o muerte quando, a pronunciarle, è l’uomo della Provvidenza, il nuovo leader della rivoluzione bolivariana e della resistenza all’Impero. Perché l’eroismo della parola è parte fondamentale, vitale, di questa rivoluzione e di questa resistenza.
Così stanno le cose. Chávez – prevedono pressoché tutti gli osservatori – non darà alcun seguito alle reiterate minacce di, come si dice, “fare le pulci” a tutti i sudditi del “re borbone” che oggi fanno affari nella sua Venezuela in marcia verso il “socialismo del XXI secolo” (o, più probabilmente verso l’assai poco socialista dittatura costituzionale delineata nella riforma che il prossimo 2 dicembre verrà votata dai venezuelani). Né, ovviamente, smetterà di vendere il suo petrolio (il 60 per cento del totale delle sue esportazioni) agli USA. Ma continuerà a parlare (e parlare e parlare, prima, durante e dopo il 2 dicembre) della sua instancabile lotta contro le malefatte degli imperi vecchi e nuovi. Perché è di questo che ha bisogno la sua “rivoluzione” fatta di parole. Di questo e d’un immacolato eroe che – a dispetto d’ogni regal rimbrotto – non può in alcun modo essere zittito. Perché se cessasse di parlare, cesserebbe d’esistere.