Quando non mancano che due settimane all’inappellabile prova delle urne, i sondaggi all’unisono pronosticano uno spettacolare testa a testa: 46 per cento d’intenzione di voto per Aécio Neves, il candidato socialdemocratico repentinamente riemerso, la scorsa settimana, dagli inferi nei quali era precipitato; ed il 44 per cento per Dilma Rousseff, presidente uscente e candidata del PT (Partido dos Trabalhadores). Il vento – confermano in perfetta sintonia tutte le inchieste – sta ora soffiando, con prevedibile impeto, a favore del ‘miracolato’ Aécio che, dato per morto e come Lazzaro resuscitato, ha in pochi giorni visto il suo potenziale bottino elettorale aumentare di quasi 13 punti (da 33 a 46), contrapposti ai poco più di due (da 41,6, al 44) accumulati da Dilma. Per raggiungere la fatidica soglia del 50 più uno dei voti, ci racconta l’aritmetica elettorale, Aécio dovrà ora riuscire a portare dalla sua – cosa tutt’altro che impossibile, ma anche tutt’altro che facile, nonostante i molti appoggi ufficiali già intascati – almeno il 72-73 per cento dei consensi andati, nella prima ronda, all’ascetica ecologista Marina Silva (poco più del 21 per cento). Dilma – che pure qualcosa spera di poter raccogliere anche nell’orto di Marina – dovrà invece, per evitare il trasloco dal Palácio do Planalto, convincere ad andare alle urne (ed ovviamente a votare per lei) almeno il 19-20 per cento di quanti al primo turno si sono astenuti.
Le due settimane che ci separano dal voto – due settimane nel corso delle quali si consumeranno ben quattro dibattiti televisivi – saranno dunque marcate da una ‘epica battaglia’ dagli incertissimi esiti. Ed epici sono anche, ovviamente, i toni con i quali i due contendenti si preparano ad uno scontro che non esitano a definire tra due visioni del mondo ‘contrapposte ed inconciliabili’. La luce contro le tenebre, il vecchio contro il nuovo, il passato contro il futuro, la speranza contro la paura. Non è però né a Dilma né ad Aécio, né tantomeno all’epica elettorale (più propriamente chiamata propaganda) della loro campagna che occorre porger l’orecchio se davvero si vogliono comprendere le regole del gioco. Quello che va con molta attenzione considerato– e cercato in una zona dove non s’incontrano né luci né tenebre, ma soltanto un alquanto uniforme grigiore – è, piuttosto, il ‘candidato che non c’è’. O, se si preferisce, il candidato che c’è, ma che nessuno vede. Quello, inesistente eppur decisivo, del Partido do Movimento Democratico, o PMDB…
Ovvia domanda: perché il PMDB? Perché, pur lontano dal cono di luce dei riflettori e dai fragori della retorica elettorale, questo partito merita tanta attenzione? Per molte e molto evidenti ragioni. Intanto perché il PMDB – residuale prodotto della grande coalizione politica che, alla fine degli anni ’80, trattò il ritorno alla democrazia dopo il ventennio della dittatura militare – è ancor oggi il più grande partito brasiliano (vanta 2,3 milioni di iscritti, 700mila e passa più del PT). E poi perché in Parlamento – dove, secondo al solo PT, controlla 18 degli 81 senatori e 66 dei 513 deputati) – il PMDB rappresenta il proverbiale ‘ago della bilancia’. Ma soprattutto perché il PMDB – che dopo il 1985 non ha più presentato candidati presidenziali propri – è, in termini numerici ed in termini politici, lo storico garante d’una continuità senza colore, il ‘contenitore’ d’un potere appiccicoso ed occulto, intrinsecamente conservatore, la cui forza, sempre clientelare e spessissimo corrotta, si misura nei più segreti meandri dei centri di comando locali (fondamentali per capire la politica brasiliana) e delle istituzioni federali. Governare il Brasile senza il PMDB – la cui forza è uscita intatta dalle elezioni della settimana scorsa – è impossibile. Ed è infatti proprio con il PMDB che il PT di Lula, prima, e poi di Dilma ha governato nell’ultimo decennio. Così come con il PMDB aveva, prima del PT, governato il PSDB di Fernando Henrique Cardoso. Ed è con il PMDB che, il PSDB prima ed il PT dopo, hanno sempre governato, quando hanno governato, combattendosi fieramente di parole armati, ma garantendo una sostanziale continuità politica e, soprattutto, evitando di alterare il sistema di potere. Lula, giunto al potere nel 2003, non toccò in alcun modo i piani di stabilità macroeconomica adottati da Cardoso in tempi di vacche magre (anzi, magrissime). Ed anche la sua politica sociale – che, incentrata sul programma ‘Bolsa familia’, ha nell’ultimo decennio ottratto alla povertà decine di milioni di persone – non è stata, a conti fatti, che la rielaborazione e l’estensione di analoghi programmi lanciati da FHC.
E proprio questo è, se vogliamo, il vero, grande paradosso di questo processo elettorale. Tutti sondaggi confermano che un buon 60 per cento del paese reclama un cambiamento politico profondo, convinto che solo un nuovo modo di governare possa dare continuità alla straordinaria crescita economico-sociale dell’ultimo decennio. Ma le urne hanno affidato questo cambiamento radicale alle medesime forze che, negli ultimi vent’anni, hanno, sotto il vigile sguardo del partito del candidato che non c’è, garantito la continuità del sistema politico. Mission impossible, dunque? Vinca Dilma o vinca Aécio, lo sapremo solo dopo il 26 d’ottobre.