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Monday, December 30, 2024
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I love you, Vlad

Più la campagna presidenziale in corso negli Stati Uniti va avvicinandosi alla meta, e più impellente va per tutti facendosi, minuto dopo minuto, la classica e alquanto retorica domanda: sogno o son desto? Son, anzi, siam desti, ovviamente. Desti e attoniti di fronte a un processo politico che ogni giorno di più assomiglia, se non proprio a un incubo, quantomeno ad una commedia dell’assurdo – o, ancor peggio, ad uno squinternato reality show – le cui conclusioni appaiono, allo stato delle cose, assolutamente imprevedibili e il cui svolgimento già ha presentato, come in un classico romanzo poliziesco, il conto d’un nient’affatto virtuale cadavere: quello del Partito Repubblicano, noto come Gop (Grand old party), la molto “reaganianamente” degenerata (ma fino a poco fa ancor ben viva) creatura di Abraham Lincoln.

Di che cosa è morto il Gop? Una risposta approfondita richiederebbe, come minimo, un paio di dozzine di post. Ma volendo scegliere la più diretta delle scorciatoie, si può tranquillamente affermare che si è trattato di un suicidio. Per l’esattezza: di un suicidio indotto provocato da Donald J. Trump, l’improbabile eppur realissimo becchino che può oggi a suo piacere disporre di quel che resta d’un partito oggi da lui trasformato in semplice cassa di risonanza del culto della sua personalità o, fuor di metafora: il pittoresco e sinistro personaggio che, vinte ampiamente e contro ogni pronostico le elezioni primarie, è oggi, del Gop, il candidato ufficialmente nominato.

Le prove dell’avvenuta morte del Gop sono, prevedibilmente, assai numerose. Vale però la pena – per cogliere fino in fondo il senso dell’incubo a occhi aperti che gli Usa stanno vivendo – partire proprio dall’ultima e più strabiliante. Quella (ancora sotto esame) che, sullo sfondo del reality show, vede l’emergere d’un nuovo personaggio: the Siberian Candidate, il candidato siberiano, come sul New York Times lo ha chiamato, parafrasando il titolo d’un famoso film degli anni ’50, il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Ovvero: l’emergere sempre più allucinante e chiaro dell’ipotesi che Donald J. Trump – l’uomo che oggi i repubblicani chiamano “il prossimo presidente degli Stati Uniti” – possa essere non solo un simpatizzante di Vladimir Putin (cosa da lui apertamente e ripetutamente ammessa), ma addirittura un vero e proprio agente del presidente russo, un burattino i cui fili vengono manovrati direttamente da Mosca. Una follia? Una ennesima, grottesca teoria cospirativa?

I fatti, per meglio capire. Domenica scorsa, alla viglia dell’inizio della Convention democratica di Filadelfia, WikiLeaks (il sempre più ambiguo e tenebroso strumento di diffusione di “segreti di Stato”) ha rivelato il contenuto di alcune migliaia di email scambiate tra dirigenti del Dnc (Democratic national committee) nel corso della campagna delle primarie. Nessun vero scheletro nell’armadio, nessuna prova di irregolarità in grado di minare la credibilità del processo elettorale, ma molte imbarazzanti conferme della (peraltro scontata) avversione dei vertici democratici nei confronti di Bernie Sanders, il senatore che da sinistra – e con imprevisto seguito – ha sfidato la candidatura di Hillary Clinton. Su un punto, in ogni caso, tutti gli esperti di cybersecurity hanno d’acchito concordato. L’attacco è venuto – volendo ricorrere al titolo del più celebre dei romanzi di John le Carré – “dal freddo”. Vale a dire, dalla Russia, con una molto probabile diretta partecipazione delle agenzie di spionaggio della nazione che Vladimir Putin dirige con assai fermo polso.

Tutto resta in attesa di risposte che vadano al di là del semplice sospetto (il Fbi sta indagando). Ma intanto, richiamati alla superficie dall’esplodere dello scandalo, alcuni dettagli sono ora tornati sotto gli occhi di tutti. Tra Donald Trump e Vladimir Putin corre, in realtà, qualcosa di più d’una semplice simpatia tra “uomini forti” (aspirante il primo, già affermato il secondo). In primo luogo perché Trump – il bancarottiere seriale Donald Trump – è notoriamente ricorso a crediti russi quando gli accessi al sistema bancario Usa si sono per lui inevitabilmente ristretti (cifre esatte non ce ne sono, dato che Trump si è fin qui rifiutato, fatto anche questo inedito nella storia delle elezioni Usa, di rilasciare la sua dichiarazione dei redditi). In secondo luogo perché Trump ha, nel suo confuso e quasi sempre goffo deambulare in politica internazionale, apertamente appoggiato politiche favorevoli alle ambizioni espansionistiche della Russia.

E, infine, perché basta un’occhiata al management della campagna elettorale di Trump per trovare, in molti posti di comando, personaggi che hanno, direttamente o indirettamente, lavorato per Putin. Non siete convinti? E allora sentite l’ultima. Giusto ieri – quasi a collocare la proverbiale ciliegina sulla torta – Donald Trump ha risposto alla sua maniera a chi gli chiedeva delle sue relazioni con i russi.  Vale a dire: rilanciando. O, più esattamente: chiedendo ai russi di rendere pubbliche tutte le altre email (le 30.000 che, a suo dire, avrebbero hackerato a Hillary Clinton quando era segretaria di Stato). Solo qualche mese fa – come fa notare sul Washington Post Jennifer Rubin, columnist di sicura fede conservatrice – i repubblicani avrebbero chiesto la messa sotto accusa per “alto tradimento” di chiunque avesse detto qualcosa di anche solo lontanamente simile. Oggi quel “chiunque” è il loro candidato alla presidenza

Chissà: forse ha ragione l’ultraconservatore Holman W. Jenkins quando, sul Wall Street Journal fa con malcelata disperazione notare come le relazioni tra Trump e Putin siano in effetti troppo evidenti per fare del primo un “agente segreto” del secondo. Tra i due, sostiene Jenkins, non vi è (a parte più o meno loschi interessi economici a parte) probabilmente che la relazione d’amorosi sensi tra un demagogo e il (semi) dittatore da lui scelto come role model.

Ma la domanda – una enorme domanda – resta. Come è potuto accadere che questo demagogo, definito in un editoriale del Washington Post una “straordinaria minaccia per la democrazia americana”, sia arrivato oggi (con i sondaggi che rivelano come abbia serie possibilità di vittoria) sulle soglie della Casa bianca? Non posso, dato il mio personale stato di confusione, garantire sui risultati. Ma proverò a rispondere in un prossimo post.

 

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