“Merda” doveva essere. E “merda” (parola che scriviamo tra virgolette perché non è a noi che appartiene) è in effetti stata. Meglio ancora: “merda” tuttora è, e – quando non manca, ormai, che un mesetto scarso allo scadere dei fatidici “primi cento giorni” di questa seconda presidenza di Donald J.
Trump – “merda” continuerà presumibilmente ad essere, con conseguenze ancora tutte da misurare, lungo l’intero percorso del nuovo quadriennio trumpiano. Volendo ricorrere a un paradosso, questo si può infatti dire dei settantatré giorni fin qui trascorsi da quando, lo scorso 20 di gennaio, Trump ha rimesso piede alla Casa Bianca: che sono stati, uno dopo l’altro e senza eccezioni, giorni caratterizzati da una vera e propria maleodorante “piena” di novità ed eventi, giorni frenetici e, nella loro fetida frenesia, mai prima vissuti.
Il nuovo spettacolo che offre l’America
Giorni che, a tutti gli effetti e nonostante il cattivo odore che emanano – anzi giusto in virtù del loro fetore – marcano un cambio d’epoca, la fine ingloriosa di quello che, da un quarto di millennio, va sotto il nome di “esperimento americano”. E, nel contempo, anche giorni scontati, largamente preannunciati e – considerato che molto raramente, in politica, il preannunciato diventa nella sua interezza realtà – proprio per questo a loro modo sorprendenti, inediti, tutti da scoprire, primi nebbiosi passi d’un viaggio in terre inesplorate.
È un vecchio-nuovo spettacolo quello a cui l’America ed il mondo stanno di questi tempi assistendo. Nuovo, perché mai prima d’ora era stato rappresentato con tanto realistica intensità in un teatro di tanta importanza. E vecchio perché pratica applicazione d’un copione che – in chiave tattico-strategica e non di rado ispirandosi, ribaltandone gli obiettivi, al Lenin di “Stato e Rivoluzione” – i più eminenti pensatori della nuova destra antidemocratica internazionale hanno da tempo scritto e da tempo vanno propugnando. Come?
“Flood the zone with shit“, inonda la zona di merda. È con questa nauseabonda, ma assai efficace metafora che già nel 2016, nelle sue vesti di super-assessore della prima campagna presidenziale di Donald Trump, nonché di teorico “pre-marcia” del trumpismo, che Steve Bannon – il “leninista” Steve Bannon, come, tra il serio e il faceto, lui ama definire sé stesso – aveva indicato la via verso il potere al populismo reazionario che, alimentato da xenofobia, razzismo, fanatismo religioso ed oscurantismo culturale, da sempre scorre nelle vene della “più antica democrazia del mondo”, permanente contraltare del luminoso principio – “tutti gli uomini sono stati creati eguali” – che, seppur in una società marcata a fuoco dallo schiavismo, di quel nuovo Stato era il fondamento.
L’inondazione di merda, secondo Bannon
Rompi gli argini, inonda, nella sua interezza e senza soste, il territorio della politica e, soprattutto, quello dell’informazione – il vero nemico non è il Partito Democratico, sosteneva e sostiene Bannon, “il vero nemico sono i media” – con false notizie, teorie cospirative, scandali, grida, accuse e minacce.
Muoviti velocemente, fai rumore e, prima che ogni protesta possa giungere alle orecchie tue e della pubblica opinione, fatti trovare un passo più avanti. Non ti fermare e, soprattutto, fai a pezzi, lungo il cammino, tutto quello che incontri. Crea caos. Costringi i tuoi nemici a seguirti (ed a perdersi) in queste torbide, puzzolenti e permanentemente cangianti acque, nelle cui correnti impossibile diventa distinguere il vero dal falso, il bene dal male. Inonda, rompi, insozza ogni cosa. Perché è in questo caos pestilenziale che il “Deep State“, lo Stato profondo, l’ordine esistente, può esser distrutto e rimpiazzato.
Questo sosteneva Steve Bannon nel 2016. E fu proprio cavalcando l’onda di queste idee che, sullo sfondo d’una sempre più visibile crisi del sistema democratico americano, sospinse Donald Trump verso la sua prima e molto monca vittoria elettorale contro Hillary Clinton. Monca perché dovuta essenzialmente alla stravagante ed obsoleta realtà dei collegi elettorali (Trump, in realtà, perse per tre milioni di voti nel voto popolare).
L’esodo del predicatore

E monca perché, nonostante l’avanzato ed ormai irreversibile stato di genetica mutazione del Partito Repubblicano (da partito di Abraham Lincoln a partito del culto di Trump) ancora era condizionata dalla marcata presenza nei corridoi del potere dei cosiddetti “adults in the room“, gli adulti nella stanza dei bottoni o, più esattamente, gli obsolescenti ma guardinghi esponenti del morente establishment repubblicano, ancora ancorato ad una molto retrograda, ma stabile adesione ai fondamentali principi della democrazia.
Bannon venne quasi subito, in questo contesto, messo da parte, libero di viaggiare per il mondo a predicare urbi et orbi la Buona Novella reazionaria, ovunque a braccia aperte accolto, nel nome del nazionalismo cristiano, nella vecchia Europa, dai vari Le Pen, Salvini, Meloni, Orban (per non dir della Madre Russia, dove Steve ha ripetutamente avuto modo di lustrare le sue affinità elettive con Aleksandr Dugin e con gli altri filosofi che, nel nome di Dio e di Putin, vanno di questi tempi predicando il ritorno della Patria alla sua antica grandezza imperiale).
E libero anche di truffare, lungo la strada, i suoi più fedeli ed ingenui seguaci – cosa per la quale ha subito una condanna penale – usando per fini personali fondi da lui raccolti per costruire privatamente il famoso muro anti-immigrati lungo la frontiera sud (sì quello che Trump aveva solennemente promesso di costruire in tempi record, assicurando i suoi elettori che a pagare le spese della costruzione sarebbe stato il governo messicano).
Largo all’oligarchia tecno-capitalista
Ora Trump è tornato alla Casa Bianca. Ci è tornato, stavolta, senza la diretta compagnia ed i diretti consigli di Bannon, ma ancora sostenuto – lui, la cui unica idea è la sua propria immagine narcisisticamente riflessa nelle acque del torrente – dalle sue “leninistiche” teorie. E, fatto nuovo, anche da quelle (a loro volta supportate da centinaia di milioni di dollari) d’una nuova oligarchia tecno-capitalista (Techno-feudalesimo lo definiscono in molti), la cui avversione per la democrazia si è naturalmente e felicemente incontrata – a dispetto dei bisticci e dei recenti scambi di insulti tra Steve Bannon ed Elon Musk – con il fanatismo religioso, la xenofobia ed il razzismo della vecchia destra sovversiva.
È stata, quella di Donald Trump, una vittoria statisticamente molto striminzita – poco più d’uno per cento di vantaggio su Kamala Harris – ma indiscutibilmente completa (Trump ha vinto tanto nei collegi elettorali, quanto nel voto popolare). E, quel che più conta, resa a tutti gli effetti epocale dalla natura inequivocabilmente antidemocratica del vincitore.

Trump ha – primo caso nella storia degli USA – democraticamente vinto contro la democrazia. E fin dal primo giorno, come da Bannon profetizzato, è stato, per ogni altro santo giorno, diluvio, alluvione. Come da manuale, in questi settantatré giorni di governo Donald Trump ha inondato “the zone” con la “merda” di ben più d’un centinaio di “executive orders“, decreti presidenziali. Tutti ritualmente aperti dalla medesima frase: “By the authority vested in me as president by the Constitution and the laws of the United States of America, it is hereby ordered...”, in virtù dell’autorità conferitami come presidente dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti d’America, viene qui ordinato… E tutte (o quasi tutte) puntualmente tese a violare l’una e le altre (la Costituzione e le leggi) nel nome d’una interpretazione grottescamente estesa d’una teoria giuridico-costituzionale nota come “unitary executive theory“.
Se il presidente viola i principi democratici
Prende le mosse, questa teoria, dal testo dell’articolo II, sezione 3 della Carta Magna, nel quale si afferma che il Presidente “shall take Care that the Laws be faithfully executed…“, dovrà assumere la responsabilità d’una fedele interpretazione ed esecuzione delle leggi vigenti. Il che, per Trump ed i trumpisti questo significa: che il presidente – Trump medesimo – la Costituzione e le leggi, quelle che il Congresso elabora ed approva, le può interpretare come cavolo gli pare ed eseguirle a suo esclusivo piacere.
Le deportazioni di immigrati violano i principi, costituzionalmente sacri, del “giusto processo”? Poco importa. E poco importa che molti di questi immigrati – quasi tutti dall’immacolata fedina penale, ma tutti senza prove accusati d’esser membri di bande criminali – siano stati inviati, contro l’ingiunzione di un giudice, nel Salvador di Nayib Bukele, destinati ad un “carcere modello” – il modello è quello delle peggiori “chicker farms“, gli allevamenti di pollame le cui carni e le cui uova sono destinate alle nostre tavole – dal quale, una volta entrati, si può uscire, volendo usare il gergo dei vecchi film western, soltanto “con i piedi davanti”. La volontà presidenziale, il suo “executive power” viene prima di tutto, anche del diritto alla vita.
Gli arresti, o meglio i sequestri di studenti stranieri, tutti legalissimi residenti, colpevoli di aver partecipato a manifestazioni pro-Palestina, violano “con metodi degni della Gestapo” (parola di giudice) la libertà di pensiero? Preoccupazioni d’altri tempi. Come ad altri tempi appartengono le lamentele a proposito delle vendette, da Trump consumate anch’esse colpi di decreti presidenziali, contro gli studi legali i cui soci, in un modo o nell’altro, hanno in questi anni partecipato alle numerose inchieste giudiziarie contro Trump. Importante e tristissimo dettaglio.
Il flusso degli executive orders inutili o eversivi

A riprova della scarsità di anticorpi democratici, alcuni di questi studi legali hanno contrattato direttamente con Trump il ritiro degli executive orders ai loro danni in cambio di servizi legali gratuiti per valori pari a molti milioni di dollari al servizio del governo. Nell’America di Trump questi sono diventati i diritti: merce che si compra e si vende, a discrezione del re.
L’inondazione di cui sopra ha, notoriamente, rotto gli argini della democrazia americana in due punti. Il primo è, per l’appunto, quello aperto dall’impetuoso flusso degli “executive orders” di Donald Trump. Un flusso nel quale galleggiano detriti d’ogni tipo, alcuni dei quali spiccano per la loro assoluta, generica inutilità, comprensibili solo alla luce della necessità d’alimentare costantemente “the flood“. Vedasi, a tal proposito, il caso del decreto col quale Trump impone – impone di fatto a se stesso – una politica estera che ponga “gli interessi d’America e dei cittadini americani al primo posto”.
Altri – come quello, che, sfidando la storia e la geografia, cambia in Golfo d’America il nome del Golfo del Messico – non sembrano riflettere che i capricci d’un sovrano privo del senso del ridicolo. Un sovrano da operetta. Altri ancora – una buona maggioranza, di fatto – ossessivamente si scagliano contro ogni regolamento teso a difendere l’ambiente o ad affermare, nell’ambito del cosiddetto DEI, il sostegno alla diversità, all’eguaglianza ed alla inclusione. Eppure, se presi nel loro insieme, tutti questi escrementi viaggiano, a dispetto d’una apparente dispersione, in un’unica ed evidentissima direzione: quella di affermare – oltre le barriere della decenza e del ridicolo – la realtà d’un nuovo potere assoluto. La fine della divisione dei poteri e della democrazia.
Mondo, la pacchia è finita. Ecco i dazi
Il più recente capitolo di questa fetida inondazione, l’America lo ha vissuto ieri, mercoledì 2 aprile, in quello che Donald Trump – forse pensando ad un prossimo “executive order” che , a sua eterna gloria, lo proclami festa nazionale – ha pomposamente definito “Liberation Day“. Liberazione da che cosa? Per Trump e per il suo governo – ora finalmente privo della deteriore influenza degli “adulti” del 2016 e abbandonata la zavorra di superate virtù quali l’esperienza e la competenza – trattasi di liberazione dalla logica parassitaria con la quale, in pratica tutte le altre Nazioni del pianeta si sono fin qui, commercialmente parlando, rapportate con gli Stati Uniti d’America.
Pacchia finita, ha detto Trump, ribadendo concetti ripetuti all’infinito durante la campagna elettorale e già oggetto di molti dei decreti presidenziali già emessi in questi settanta e passa giorni. Da ieri gli Stati Uniti applicheranno – in quella che ogni economista serio, poco importa di quale tendenza, considera una sgangherata, improponibile e dannosa riedizione dell’antico mercantilismo – tariffe doganali su, in pratica, ogni prodotto che provenga dall’estero. Dieci per cento per tutti e venti per i più reprobi e cattivi.
Solo qualche giorno fa il Wall Street Journal – fiore all’occhiello dell’impero mediatico dei Murdoch e organo indiscutibilmente amico del trumpismo – aveva definito questo preannunciato assalto alla libera circolazione di merci e capitali la “più stupida guerra commerciale della storia dell’umanità”. Stupida perché inevitabilmente destinata a colpire il consumo e ad alimentare l’inflazione.
Il presidente con il bastone
Stupida perché stupida è l’idea – più volte proclamata dai responsabili della politica economica trumpiana – che le tariffe doganali siano destinate a creare nuove entrate con le quali finanziare il nuovo taglio delle tasse da Trump promesso e ripromesso durante la campagna elettorale. Stupida perché oltretutto applicata in un andirivieni – un giorno Trump impone nuovi dazi ed il giorno dopo li ritira, come più volte avvenuto con Messico e Canada – che ai danni del protezionismo aggiunge quelli, da sempre dal mercato aborrita, dell’incertezza.
E tuttavia anche in questo caso la stupidità trumpiana mostra una sua ferrea logica. Per Donald Trump la guerra commerciale non è, in ultima analisi, che una testimonianza di potere. In pratica una riedizione dimezzata e mutilata del vecchio principio enunciato, agli albori del XX secolo, da Theodore Roosevelt: “Speak softly and carry a big stick”, parla con dolcezza ma porta con te un grande bastone. Donald Trump è, come tutti bulli per natura, organicamente incapace di parlare con dolcezza. Ma – a conferma del suo potere – porta sempre con sé, a chiunque si rivolga nel mondo, il grosso bastone dei dazi. O fai come dico io…
Musk e le fake news del Doge
Il secondo punto dove “the flood” ha rotto gli argini è notoriamente quello del DOGE, il del tutto informale ma potentissimo, anzi onnipotente Department of Government Efficiency , affidato alle cure di Elon Musk. Di fatto: un monumento alla arbitrarietà istituzionale ed al conflitto d’interessi che, in questo due mesi, ignorando leggi e decenza, ha percorso ogni anfratto degli apparati di Stato licenziando gente, eliminando interi pezzi della struttura burocratica ed appropriandosi, alla faccia della privacy, di dati personali – tasse, pensioni, sussidi – di mezza America.
Ed è stato ad ogni tappa di questo viaggio che Elon Musk ha da par suo provveduto ad inondare “the zone” con enfatiche dichiarazioni in merito non solo a giganteschi sprechi da lui individuati e, in molti casi, eliminati, ma anche a veri e propri casi di corruzione. Tutte balle. Balle nella più pura tradizione trumpiana. “Shit” d’origine non controllata, come pretende la teoria di Bannon. O, più propriamente, “bullshit“, come recita una molto diffusa espressione popolare.
Otto miliardi che sono milioni, e in più i topi transgender
Un esempio? Concluso il suo esame d’uno dei dipartimenti statali sottoposti alla sua trumpiana inquisizione, Musk ha trionfalmente dichiarato – attraverso X il social di sua proprietà – d’avere eliminato contratti fittizi per un valore di otto miliardi di dollari. Ad un’attenta verifica è risultato che quei contratti non erano affatto fittizi e che il loro valore era non di otto miliardi, ma di otto milioni. Una differenza di uno a mille. Così, tanto per gradire.
Agli inizi del mese di marzo, in ogni caso, le due correnti di “the flood” sono impetuosamente confluite nel chilometrico discorso che Donald Trump ha tenuto di fronte al Congresso, in gran parte dedicandolo proprio alle “indignanti” scoperte dell’amico Elon. Indignanti e senza eccezioni clamorosamente, anzi, normalmente false. Perché proprio questo – normalità, regola, non eccezione – è oggi, nella MAGA-America, la menzogna.
Vedasi, a scopo verifica, la storia, da Musk dissotterrata e da Trump raccontata in un misto d’ilarità e sdegno, dei milioni di dollari, otto anche in questo caso, che – evidentemente nel nome della molto vituperata e molto “woke” ideologia di genere – il National Institute of Health avrebbe a spese dei contribuenti dissipato per creare topi “transgender”. Si trattava, in realtà, fatte le dovute verifiche di serissimi studi “transgenici”, destinati alla cura, via trasformazioni ormonali, di alcuni molto diffusi tipi di cancro.
Ci fu un tempo in cui, in America, una menzogna pubblicamente raccontata inevitabilmente stroncava anche la più collaudata carriera politica. Come nell’agosto del 1974 accadde a Richard Nixon, costretto alle dimensioni non tanto per aver commissionato il furto di documenti negli uffici del Partito Democratico nel Watergate, quanto per aver cercato di nascondere i fatti a colpi di bugie ed abusi di potere.
Il dittatore dello stato libero di Bananas
Oggi, nell’America di Trump la menzogna è diventata, non solo una regola, ma una testimonianza di potere, un vanto. Volendo parafrasare René Descartes: mento impunemente, dunque comando.
Come finirà tutto questo non si sa. Una cosa però già si può dire. Dovesse Woody Allen, per qualche ragione, decidere per un remake del suo primo ed esilarante film di successo, “Bananas (“Il dittatore dello stato libero di Bananas“, in italiano), potrebbe tranquillamente risparmiarsi, alla ricerca di adeguate ubicazioni, costosi viaggi in Centroamerica o in altre esotiche realtà tropicali. Gli basterebbe fare la spola, magari viaggiando con una Tesla, tra il 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington D.C. e la reggia di Mar-a-Lago, in quel di Palm Beach, Florida.
Scenari perfetti. Grandi interpreti. Ed effetti comici – o meglio, tragicomici – assolutamente garantiti.