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Folle Trump, o folli tutti?

 

C’era una volta…no, non un “pezzo di legno”, come nel celeberrimo inizio del Pinocchio collodiano, ma stavolta davvero un re. Ed un re autentico, di quelli le cui imprese riempiono, non i libri di fiabe, ma quelli di storia. Quel re – re della Gran Bretagna e d’Irlanda – si chiamava George III, regnò per sessanta lunghissimi anni, dal 1760 al 1820, e dai libri di storia viene perlopiù ricordato come “il re pazzo” che perse l’America.

Il tema della follia di Giorgio III ha affascinato – e continua ad affascinare – storici ed artisti (vedi il bellissimo film, “the Madness of King George”, con Nigel Hawthorne e Helen Mirren, uscito nel 1994). E sebbene gli studi più approfonditi tendano a circoscrivere temporalmente gli effetti della sua infermità mentale (divenuta evidente, in effetti, solo nell’ultimo decennio del suo pluridecennale regno), due cose sono più che certe. La prima: George William Frederick (questo il suo nome completo) soffriva d’una malattia che, oggi nota come “disturbo bipolare”, è caratterizzata da un patologico alternarsi di depressione e d’euforia. La seconda: provocata o meno dal suo bipolarismo, fu proprio la sua tenace e per molti versi illogica difesa del “privilegio reale” ad accelerare, tra il 1765 ed il 1783, la rivoluzione americana ed il distacco dall’impero di quelle che erano, allora, le 13 colonie d’oltreoceano.

C’era una volta un re, dunque. E, corsi e ricorsi della Storia, c’era, anzi, c’è oggi (e si tratta d’una trama il cui finale appare tragicamente aperto) un “presidente pazzo” che sta riperdendo l’America – ovvero: il Paese che dell’evoluzione di quelle 13 colonie è il poderoso frutto – a suo tempo perduta da King George. Con una piccola ma sostanziale differenza: il verbo “perdere” non sta in questo caso, come alla fine del diciottesimo secolo, per “perdita” (dallo Zingarelli: “atto, effetto del perdere”), bensì per “perdizione” (“rovina, perlopiù di ordine morale, dannazione dell’anima”). Quel presidente si chiama – è appena il caso di ricordarlo – Donald J. Trump. E la sua “follia” s’è consumata – altra differenza con il precedente di re Giorgio – non nell’arco di sei decenni, ma con più che quotidiana frenesia e con ineludibile evidenza, in molto meno d’un anno. Il tutto prevalentemente via Twitter, in quello che è stato correttamente definito un esempio di “follia in 140 battute”. Vedasi – e non si tratta che d’un esempio tra i mille disponibili, scelto al solo scopo di dare un’idea delle dimensioni del problema – il modo puerilmente piccato (davvero da “asilo mariuccia”, si sarebbe detto un tempo) col quale Trump ha recentissimamente risposto ad un comunicato nel quale Kim Jong-Un (un altro interessante caso di follia al potere) aveva definito Trump un “old lunatic”, un vecchio balordo. “Why would Kim Jong-un insult me by calling me ‘old’ when I would NEVER call him ‘short and fat?’, perché Kim Jong-un mi insulta chiamandomi ‘vecchio’ (evidentemente Trump considera insultante l’aggettivo “vecchio”, ma non il “balordo” n.d.r.), quando io MAI lo chiamerei ‘basso e grasso’?…”.

Non è ovviamente la prima volta che la salute mentale d’un presidente (o di un presidenziabile) viene messa in discussione. Lincoln notoriamente soffriva di depressione. Ulysses Grant era, altrettanto notoriamente, un alcolizzato iracondo. E nel 1964 un folto gruppo (1.189, per la precisione) di psichiatri di chiara fama aveva reso pubblico un molto preoccupante profilo psichico del candidato repubblicano Barry Goldwater. Altri tempi. Goldwater – che, se paragonato a Trump, appare oggi come un luminoso esempio di saggezza, moderazione, equilibrio, savoire faire e profondità intellettuale – perse poi rovinosamente la corsa contro Lyndon Johnson, soprattutto a causa del timore che il suo estremismo potesse provocare una guerra nucleare. E fu proprio partendo da quel molto controverso caso – controverso anche alla luce del sinistro ruolo che la psichiatria ha avuto, in molte parti del mondo, nella repressione del dissenso – che l’American Psychiatric Association stabilì quella che ancor oggi va, per l’appunto, sotto il nome di “Goldwater Rule”. Vale a dire: la proibizione, per i suoi associati, di definire diagnosi di personaggi pubblici senza un previo e diretto esame clinico dei medesimi. Una regola d’etica professionale, questa, che era stata, da allora, sempre rispettata. Sempre, fino all’evento di Donald Trump. O, più esattamente, fino al momento in cui la questione della salute mentale dell’uomo che siede dietro la scrivania dell’Ufficio Ovale (ed il cui dito incombe sul bottone che può scatenare una guerra nucleare) è tornata ad imporsi in non più eludibili termini.

Quanto è sano di mente, Donald Trump? E se davvero – come molti dei suoi comportamenti sembrano suggerire – gli manca qualche rotella, qual è il senso, l’origine della sua follia? Ma soprattutto: come è possibile che un uomo le cui rotelle girano come girano quelle di Trump sia giunto alla Casa Bianca? Tre libri, tutti divenuti best-seller, cercano di rispondere a queste domande offrendo tre diverse risposte. Diverse, ma paradossalmente tutt’altro che tra loro in contraddizione.

Il primo libro è “The Dangerous Case of Donald Trump”. Lo ha scritto il professor Bandy X. Lee, docente di Psichiatria della Yale School of Medicine, raccogliendo oltre all’opinione propria, contenuta nel preambolo, quella di altri 27 illustri colleghi. E la risposta alle questioni di cui sopra – una risposta unanime – già appare, di fatto, molto ben riassunta nel titolo. Semplicemente: Donald Trump, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, è un chiaro ed imminente pericolo per il Paese che governa e per il mondo. Perché? Perché dai suoi comportamenti e dalle sue parole emergono, o meglio eruttano da ogni poro, ovvi sintomi di “edonismo estremo” – la tendenza a vivere il momento in termini di soddisfazione presente, senza minimamente valutare le conseguenze del proprio agire – che combinati con un patologico e spesso caricaturale narcisismo definiscono (il giudizio è del professor Philip Zimbardo, docente dell’Università di Stanford) “un individuo impulsivo, immaturo, potenzialmente violento che, se collocato in una posizione di potere, automaticamente tende a trasformare se stesso in un tiranno”. Trump è, in breve, un soggetto “sociopatico” i cui sintomi, la paranoia in particolare, vengono aggravati da ormai evidenti segnali di demenza senile. Ed è proprio per questo, per l’ovvia pericolosità sociale del caso, che i 27 psichiatri hanno deciso di contravvenire alla “Goldwater rule”. Lo hanno fatto, sostengono, per adempiere all’obbligo – sottolineato anche nella sentenza Tarasoff vs. Regents Of the University of California del 1976 – di segnalare pubblicamente situazioni che possono sfociare in episodi di violenza.

Donald Trump è dunque – se non in termini clinici quantomeno in senso lato – un “pazzo”? Può essere, risponde Allen Frances, autore del secondo libro in questione, ”Twilight of American Sanity: A Psychiatrist Analyzes the Age of Trump”. Ma concentrare l’analisi sulla sua follia non è, tutto sommato, che un alibi per non andare alle radici del problema o, più specificamente, per evitare di diagnosticare lo stato di salute mentale dell’intero paese. Come spiegare altrimenti, si chiede l’autore, il fatto che Trump sia arrivato – regolarmente eletto, pur perdendo ampiamente il voto popolare – fino alla Casa Bianca? Trump, sostiene in sostanza Frances, è un pericolo per l’America e per il mondo (un “aspirante Mussolini da due soldi”, lo definisce), non tanto perché pazzo, quanto perché la sua imbarazzante ascesa alla presidenza riflette una follia che oggi appartiene per intero al Paese che lo ha votato. Più ancora – e questo è quello che, in modo ancor più radicale, sostiene Kurt Andersen in “Fantasyland: How America Went Haywire”, il terzo libro – perché l’America è da sempre, da quando i primi pellegrini puritani sbarcarono a Plymouth, nel 1620, afflitta da un molto problematico rapporto con la razionalità dei fatti. Non è forse l’America il l’unico paese sviluppato nel quale una rilevantissima parte della popolazione (oltre il 40 per cento) ancora si rifiuta di riconoscere la realtà della evoluzione darwiniana?

Trump è “pazzo”. Trump è “pazzo” perché è l’America ad essere oggi percorsa da una crescente corrente di follia. Trump è “pazzo” perché l’America è, in effetti, sempre stata percorsa, mutatis mutandis, da questa corrente. Tre teorie che non si escludono a vicenda e che, insieme, sottolineano una quarta verità, la più importante. L’avvento di Donald Trump costringe oggi l’America a fare i conti con la fragilità del suo “eccezionalismo” e con la vulnerabilità del suo sistema democratico. O, per tornare a bomba con la realtà della propria “perdizione”. Non per caso, un altro libro è negli ultimi mesi entrato – o, per meglio dire, è prepotentemente tornato – nella lista dei best-seller. E si tratta d’un classico: “It Can’t Happen Here”, qui non può accadere, di Sinclair Lewis.

Scritto nel 1935, nel pieno della consolidazione del regime nazista in Germania, il libro è la semi-satirica cronaca dell’irresistibile ascesa di Berzelius “Buzz” Windrip, un oscuro senatore fascistoide che, infine, riesce a sconfiggere Franklin Delano Roosevelt nella corsa alla Casa Bianca. Doremus Jessup, il giornalista che della storia è il narratore, così descrive quello che, nel libro, sarebbe diventato presidente: “Il senatore era un uomo volgare, pressoché illetterato, un ostentato bugiardo le cui menzogne erano facilmente scoperte e le cui idee erano, perlopiù, delle vere e proprie idiozie…”. Basta elevare questo ritratto al cubo ed il risultato è: Donald Trump. Volgare, illetterato, incompetente, un bugiardo seriale la cui personale indecenza sembra non conoscere limiti, uno sbruffone le cui quotidiane performance sollevano altrettanto quotidiani dubbi sull’effettivo stato della sua salute mentale. Un “pazzo” e, quel che è peggio, un pazzo vincente. Come Windrip. Il Windrip al cubo dei tempi dei reality show.

Non manca, ovviamente, chi vede una logica in questa follia. Trump mente con tanta reiterata sfacciataggine – ben oltre i confini tracciati dal Windrip di “It Can’t Happen Here” – non per stupidità (o per deficienza mentale), ma realizzare in tempi rapidi quello che è il sogno d’ogni despota. Impossessarsi della Verità dopo averla resa irrilevante perché sepolta sotto la valanga delle sue menzogne. Ed il suo, aggiungono altri, non è, oltre le nebbie di questa ciarlatanesca esibizione, che un modo per distrarre il paese da quel che davvero conta. Mentre i media sono ossessivamente impegnati a coprire le stramberie del “presidente pazzo” – fanno notare i più avveduti – il Congresso a maggioranza repubblicana approva, nottetempo, una nuova legge fiscale truffaldina che arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri…

C’è del vero in tutto questo. Ma un fatto resta. Ci sia o ci faccia, pazzo vero o pazzo finto, Donald Trump è oggi seduto con un cerino acceso in una mano (e con nell’altra il cellulare dal quale diffonde i suoi “tweet”) sulla polveriera che siamo soliti chiamare “mondo”. Mala tempora currunt, verrebbe da scrivere. Non fosse per il fatto che presto, grazie a Trump, il presidente “pazzo” che ha perso l’America, anche i tempi cattivi potrebbero cessare di correre….

 

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