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Monday, April 28, 2025
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Fascisti? No, molto peggio

Giorni fa, dopo aver scritto questo articolo – originalmente pubblicato da StrisciaRossa – mi ero chiesto se, spinto dalla passione, non avessi esagerato nel definire l’attuale presidente di El Salvador un “aguzzino”. O, più precisamente – usando l’arte della parafrasi – “l’aguzzino più cool, figo, del pianeta Terra” (lo stesso Bukele, infatti, ama definire sé stesso, burlandosi di quanti lo accusano di aver creato, in barba alla democrazia, un’autocrazia basata sul culto della sua persona, “el dictador más cool del planeta”.

Adesso, dopo quanto visto ed ascoltato durante la molto pubblicizzata visita di Nayib Bukele alla Casa Bianca, so di essermi effettivamente sbagliato. Non per eccesso, tuttavia, bensì per difetto.

Più in basso, molto più in basso della peggior politica

Non è facile, infatti, trovare le parole adeguate a definire una tanto ostentata, ridanciana infamia. Anche termini come “fascista” – tanto spesso, a torto o a ragione, usati in direzione di Donald Trump e del medesimo Bukele – appaiono a questo punto in difetto perché a loro modo ancorati, sia pur col peso d’una storica e definitiva condanna, all’ambito delle idee, a qualcosa che, pur nell’orrore, mantiene alcunché di umano. Qui siamo invece al di la – al di la nel senso di più in basso, molto più in basso – anche della più turpe politica e della più spregevole delle ideologie. Il tono sprezzante con cui Bukele – presentatosi alla conferenza stampa nella più “cool” delle sue versioni, ovvero ostentando una perfetta sincronia cromatica tra il fazzolettino che spuntava dalla taschino della giacca ed i calzini – ha risposto ieri a una delle domande, la più ovvia possibile, rivoltagli da uno dei giornalisti, emana un profumo (o, meglio, un tanfo) per la cui pestilenza non esistono, in realta, umani aggettivi.

La domanda era: “Avete intenzione di riportare negli Usa Kilmar Abrego, detenuto nelle carceri di El Salvador?”. “Of course not”. Ovviamente no. Così ha risposto Bukele, mentre, al suo lato, Donald Trump annuiva mostrando il più canzonatorio dei suoi sorrisi. “Come posso io contrabbandare un terrorista negli Stati Uniti?”, ha detto Bukele. E – ancora una volta sostenuto dal più sardonico degli sguardi trumpiani – ha subito aggiunto, con i piu sprezzanti accenti, che tale domanda era “absolutely preposterous”, semplicemente ridicola.

Non solo innocente, vittima

Ridicola? Per conoscere la storia completa si può leggere l’articolo linkato sopra (o altre centinaia di articoli al tema dedicati). Qui basti, in estrema sintesi, sapere questo. Kilmar Abrego è, o meglio era, un rifugiato salvadoregno, legalmente negli USA in attesa che, come impone la legge, un giudice valutasse la sua richiesta di asilo. Anonimamente denunciato come membro del MS13, una banda criminale nata a Los Angeles e poi “deportata” nel Salvador, Kilmar – sposato con una cittadina americana e padre di un bambino di 5 anni con handicap – già era stato una prima volta vagliato da un tribunale. Ed inequivocabile era stato il verdetto: non solo Kilmar non era membro del MS13, ma del MS13 era una vittima. Proprio per questo, per sfuggire a minacce e violenze, s’era rifugiato negli Usa. E proprio per questo in nessun caso poteva essere deportato.

Per ragioni che non si conoscono – trattandosi di una “guerra”, tutte le operazioni di espulsione dal paese vengono dal Department of Justice condotte nel massimo della segretezza per motivi di “sicurezza nazionale” – Kilmar era invece finito nelle liste di deportazione di Trump come membro del Tren de Aragua (altra gang criminale) insieme a 280 venezuelani. Ed era stato spedito in Salvador per essere internato nel CECOT, una carcere dove si entra senza previo o posteriore processo. E che, per come è stata concepita è – parole dello stesso Bukele – “peggio della morte”.

Il caso di Kilmar è finito (e lí ancora si trova) di fronte ad un giudice federale, davanti al quale i medesimi rappresentanti del governo – del Dipartimento alla Giustizia, per l’appunto – altro non avevano potuto fare che riconoscere l’assoluta arbitrarietà della sua deportazione da loro eufemisticamente definita un “errore amministrativo”. Ed il giudice altro non aveva potuto, sottolineata la “assoluta illegalita della deportazione, che ordinare l’immediato ritorno negli Usa di Kilmar Abrego.

Il piacere di distruggere la “vita degli altri”

Dunque, di nuovo: che cosa c’è, di “preposterous”, di ridicolo in una sentenza che, rimediando a un “errore amministrativo”, punta a salvare la vittima innocente di tale errore. Piu specificamente: a riportare a casa Kilmar sottraendolo – lui, non solo del tutto innocente, ma addirittura vittima della violenza delle gang – da qualcosa che è “peggio della morte? Né Trump, né Bukele si sono presi la briga di spiegarlo. Ma così – e soltanto così – si può ragionevolmente intendere il loro rifiuto (avanzando con un ghigno beffardo ragioni di competenza territoriale, queste sì davvero ridicole) di compiere quello che, a questo punto appare come il più semplice, ovvio atto d’umana giustizia, un assoluto imperativo etico, senza colore politico. Evidentemente, abbandonando con una risata di scherno Kilmar nell’inferno del CECOT, il dinamico duo Trump-Bukele ha voluto mostrare al mondo la realtà d’un potere assoluto che puo, se lo desidera, superare i confini  dei più elementari, “neutri” codici morali o, se si preferrisce, di quella cosa (roba da “gente qualunque”) che va sotto il nome di “umanita”. Un potere assoluto proprio perche immorale, anzi, amorale. Un potere la cui “assolutezza” si misura nel ipiacere di distruggere senza freni – come recitava anni fa il titolo di uno splendido film di Florian Henkel von Donnersmarcks – la “vita degli altri”

Il che ci riporta alla domanda iniziale. Bastano i termini “aguzzino” e “fascista” per descrivere tutto questo? La mia risposta è un secco “no”.

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