L’americano pazzoide rimbambito (“the mentally deranged U.S. dotard”, ovvero il presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump) ed il “piccolo uomo-razzo” (“the little rocket-man”, ovvero Kim Jong Un, il despota per diritto dinastico che da sei anni governa la Corea del Nord) – hanno quanto pare deciso, messi da parte gli insulti di cui sopra, d’incontrarsi “entro maggio”. Ed assai difficile è a questo punto, capire se, nell’inattesa imminenza dell’evento, è il caso di gioire o, piuttosto, di rabbrividire per la notizia. Difficile per tutti, anche – direi, anzi, soprattutto – per coloro che, come il sottoscritto e come, credo, tutte le persone raziocinanti, tra il negoziato e la guerra (quella di parole o, ancor più, quella, non solo “vera”, ma veramente “nucleare”, che di quegli insulti e di quelle minacce sempre è stata il macabro presupposto) senza la minima esitazione sceglierebbero, in normali circostanze, la prima delle due ipotesi.
Perché, dunque, tanta incertezza? Perché un annuncio che, a prima vista, ha tutta la parvenza d’un inaspettato trionfo della diplomazia sulla logica del confronto militare, suscitata oggi tanti dubbi – e persino tanti timori – proprio tra i più ferventi fautori d’una soluzione diplomatica? Perché, evidentemente, nient’affatto “normali” sono le circostanze di questa iniziativa diplomatica. E perché molti di questi “perché?”, com’è ovvio dipendono dalle dimensioni di un “bottone”. Ricordate? Solo un paio di mesi fa, al termine d’un fitto scambio di improperi, il “piccolo uomo-razzo” aveva, in un’intervista televisiva, sottolineato come, sulla sua scrivania, sempre avesse, a portata di dito, un “bottone nucleare”. E così l’ “americano rimbambito” gli aveva d’acchito risposto via Twitter: “Non c’è nessuno in Nord Corea in grado d’informarlo (a Kim Jong Un n.d.r.) che anch’io ho un bottone nucleare e che il mio è molto più grande e potente del suo?”. Quale “soluzione diplomatica”, si sono chiesti in molti, può sorgere, nel breve spazio di meno d’ina dozzina di settimane, su tali fondamenta? Di che cosa discuteranno, “entro maggio” – cioè praticamente domani – il “vecchio rimbambito” ed il piccolo uomo-razzo”? Cercheranno – come non pochi comici e “cartoonist” hanno in queste ore suggerito – di risolvere una volta per tutte, centimetro alla mano, la questione del “chi ce l’ha più grande”?
Il punto vero è tuttavia – al di là d’ogni facile battuta – che anche questa “sorprendente” mossa del presidente USA sembra, da qualunque lato la si guardi, avere la medesima origine del “fuoco e della furia (“fire a fury like the world has never seen”) che, con i consueti bulleschi accenti, il medesimo Trump promise alla Corea del Nord lo scorso agosto, di fronte alla Assemblea Generale dell’Onu. Ovvero, sono il prodotto di quelle che risaltano come le due forse più preminenti doti del trumpismo: l’improvvisazione e l’ignoranza, frutto, entrambe, d’un incontenibile, narcisistico bisogno di “apparire”. Nel caso specifico, d’apparire come quello che Trump neppure lontanamente è e che, fin troppo facile è prevederlo, mai sarà: uno statista. Il neo-eletto inquilino della Casa Bianca – la cui contorta personalità è notoriamente, in parte rilevante, prodotto dei reality show di cui è stato protagonista – si è evidentemente innamorato dell’idea d’essere il protagonista d’una “grande ed epocale svolta” – o, per dirla più trumpianamente: della “più grande svolta che mai il mondo abbia visto” – saltando quelle che, in politica internazionale, d’ogni grande (o anche piccola) svolta sono da sempre l’indispensabile premessa: la conoscenza del problema, la comprensione della complessità del medesimo e, data tale complessità, la pazienza necessaria per realizzarla senza ferali contraccolpi.
Le cronache raccontano come il medesimo Chung Eui Jong, il consigliere per la sicurezza nazionale Sudcoreano che giorni fa, in un meeting alla Casa Bianca, s’era fatto latore della volontà d’incontro di Kim Jong Un, fosse rimasto esterrefatto di fronte alla immediatezza, anzi, alla fretta con cui Trump aveva – pare zittendo il suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale H.R. McMaster – accolto la proposta. Non per nulla. Appena dodici ore prima, il segretario di Stato Rex Tillerson – che Trump, evidentemente, neppure s’era sognato di interpellare – andava tranquillamente sottolineando come non s’intravvedesse, all’orizzonte, alcuna possibilità di colloqui diretti, non solo tra presidente e presidente, ma tra le reciproche diplomazie….Per la cronaca: appena due giorni più tardi, Rex Tillerson vrebbe rassegnato le sue dimissioni, rimpiazzato dal capo della Cia, Mike Pompeo. Tillerson lascia un Dipartimento di Stato decimato ed un solo buon ricordo: il momento nel quale, nel corso di una riunione al Pentagono avrebbe – stando alle solite “fonti ben informate” – definito “a moron”, un idiota, l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America.
Una cosa del resto era, fino a ieri, assolutamente chiara. Al di là degli insulti e delle dispute sulla grandezza dei rispettivi “bottoni”, Trump nulla ha mai saputo e nulla ha mai voluto sapere – in termini di conoscenza storico-politica, o geo-strategica – della questione coreana. Solo tre settimane or sono, Joseph Yu, da molti anni alla testa del gruppo che, per il Dipartimento di Stato, segue le sorti di quel lembo di mondo, aveva rassegnato le sue dimissioni, ufficialmente per “ragioni personali”, ma notoriamente per la frustrazione provocata dal rapporto con una presidenza capricciosa e palesemente allergica ad ogni forma di apprendimento sui temi di cui Yu era il primo esperto. Ed a gennaio Victor D. Cha, il diplomatico originalmente designato come nuovo ambasciatore in Sud Corea era stato malamente messo da parte (senza esser rimpiazzato da alcun altro candidato) perché s’era permesso di criticare il molto belligerante e dilettantesco approccio – quello del cosiddetto “bloody nose”, o del pugno (nucleare) sul naso – al problema nordcoreano.
Altra e fondamentale fonte di perplessità (e di timore). La richiesta, da parte nordcoreana, di un incontro diretto con il “grande nemico” è tutt’altro che una novità. Incontrarsi faccia a faccia con il Presidente della più grande potenza di mondo è anzi sempre stata – fin dagli anni di Kim Il Sung, il deificato capostipite del regime – la più grande ambizione della Corea del Nord, l’agognato punto d’arrivo d’un processo di legittimazione internazionale, il “premio finale” o, se vogliamo, un’ultima e definitiva garanzia di sopravvivenza. Che senso ha – e che senso ha soprattutto per un presidente che, sia pur con la ciarlataneria tipica del personaggio, sempre ha presentato se stesso come un “master of the art of the deal”, maestro nell’arte della trattativa – avviare un negoziato concedendo alla controparte, senza preparazione e senza contropartite, quel “premio finale”?
Domande senza risposta. La “grande svolta coreana” di Donald Trump, figlia dell’incompetenza e del caos, pericolosamente assomiglia ad un salto nel buio. O, ancor meglio, ad un salto in acque inesplorate, perché proprio questo sembra essere quel summit improvvisato e frettoloso: lo specchio nel quale, come Narciso, Donald Trump – il più improbabile, borioso ed impreparato presidente della storia degli Stati Uniti d’America – ha visto riflessa la propria illusoria immagine di grande uomo di Stato, capace di fare quello che nessuno dei suoi predecessori ha potuto fare. Cadrà anche lui, come Narciso, nel torrente trascinando con sé il mondo intero? Molti lo temono, ricordando come la cattiva diplomazia possa, a conti fatti, aver conseguenze peggiori d’una guerra. Altri pensano che, al contrario, non accadrà un bel niente e che, alla fine, verbalmente saziata l’immediata vanità del presidente in carica, non vi sarà incontro alcuno, per la semplice ragione che, allo stato delle cose, Trump e Kim non hanno – insulti a parte – nulla di serio da dirsi.
Non mancano, in questa confusione, gli ottimisti che rammentano come, in effetti, non sarebbe la prima volta che proprio dal caos nascono le più imprevedibili e positive soluzioni di annosi problemi. In quanti, si chiedono, agli inizi degli anni ’70 avrebbero immaginato che proprio a Richard Nixon, campione di anticomunismo, toccasse ristabilire le relazioni con la Cina di Mao?
Tutto può essere, naturalmente. E non costa niente sperare che davvero abbia ragione chi ricorda come proprio la “improbabilità” sia spesso risultata, nel corso della Storia, una fonte di forza e di sorprese. In sostanza: solo “l’insultatore” Trump – quello del “il mio bottone è più grande del tuo” – potrà alla fine, perché tra pazzi ci si intende, disinnescare la bomba a tempo nordcoreana. Così come, a suo tempo, solo l’anticomunista Nixon avrebbe potuto avere, come ebbe, la capacità di riaprire le porte dell’Occidente alla Cina comunista. Anche se, in verità, questo è quel che ci dice la Storia: l’ “imprevedibile” viaggio in Cina di Nixon (compiuto, peraltro, non in nome della pace, ma della guerra fredda antisovietica) fu preceduto, lungo un arco d’almeno due anni, dall’intenso ed assai sofisticato lavoro diplomatico – ricordate la cosiddetta “ping-pong diplomacy”? – dell’allora National Security Advisor Henry Kissinger (il quale, prima della visita di Nixon, s’incontrò in segreto, almeno un paio di volte, con il presidente Mao).
Altri tempi, altre circostanze, altri personaggi. Per il momento, la “storica” svolta coreana non fa che ricordare quella che resta, a mio avviso, la più sintetica ed efficace metafora della presidenza di Donald Trump. La si deve, non a un politico o ad un filosofo, ma ad un musicista: il grande Stevie Wonder (notoriamente non-vedente). Il quale, nel novembre dello scorso anno, conosciuti i risultati elettorali, semplicemente disse: “affidare la presidenza a Trump è come affidare a me la guida di uno scuola-bus”. Su quell’autobus, da oltre un anno, ci siano tutti. Finisca come finisca la “svolta coreana”, non è stato è non sarà un bel viaggiare.