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Sunday, December 22, 2024
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Clap o muerte, vencerán

“La storia del passato già ce l’ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion”. Questo recitava la canzone – il molto qualunquista e, a suo tempo, molto popolare inno alla “pappa con il pomodoro” – che, in anni lontani, cantata da Rita Pavone, faceva da colonna sonora allo sceneggiato televisivo “Il giornalino di Gian Burrasca”. E proprio questo è, rivoltato come un guanto, quel che ci racconta il Venezuela di oggi.

Perché “rivoltato come un guanto”? Perché proprio questo è quel che si vede oggi in Venezuela: un paese dove la fame, lungi dall’essere la molla d’una rivoluzione (o d’una controrivoluzione o d’un qualsivoglia radicale cambiamento) è al contrario il primo e più essenziale strumento di conservazione del potere costituito. E perché proprio questo – a dispetto della filosofia pavon-gianburraschiana – è quel che la “storia del passato” ci ha a suo tempo insegnato; e che il presente, imperterrito, continua a confermare: la fame è paura. La fame è ricatto, estorsione. La fame è dignità distrutta. La fame è la più sicura alleata dello status quo, laddove lo status quo è, come nel Venezuela chavista, in grado di mantenere il controllo dei suoi strumenti di repressione, dei suoi giudici, delle sue forze armate, dei suoi servizi segreti e di tutti i suoi aguzzini.

Come la fame abbia trionfato in Venezuela è, ovviamente, una storia lunga (lunga, per certi aspetti, anche più del quasi ventennio di governo chavista). Ed impossibile è raccontarla in un post. Quello che si può in estrema sintesi dire è però questo: che è, la fame, il punto d’arrivo d’un lungo processo che si è autodefinito “rivoluzione bolivariana” pur non avendo  “rivoluzionato” assolutamente nulla. Meglio ancora: di un processo che – pur non privo di positivi risvolti nei sui primissimi anni di vita – non solo non ha cambiato nulla (e tantomeno in senso “socialista”, come proclamato), ma ha finito per distruggere quel poco di buono che c’era.

Prima della “rivoluzione”, il Venezuela era un paese afflitto da una malattia, o da una maledizione – la dipendenza del petrolio – che lo rendeva ricchissimo e, al tempo stesso, molto povero. Oggi è un paese che, rimasto dipendente dal petrolio – anzi, che restando ancor più che in passato dipendente dal petrolio – è riuscito, in un sinistro miscuglio di demagogia populista, inettitudine e pura e semplice corruzione, a distruggere la fonte di quella dipendenza. L’ente petrolifera di Stato (Pdvsa), che un tempo era considerata la più grande ed efficiente impresa latinoamericana, si è trasfigurato nella generosa mammella dalla quale la propaganda chavista ha, in tutte le sue forme, “poppato” denari. O, più concretamente: in un indebitatissimo ed inefficiente carrozzone clientelare, un relitto alla deriva che, quadruplicato il numero dei dipendenti, produce poco più della metà di quel che produceva un tempo.

Oggi il Venezuela è un paese immerso nella più grave crisi economica della sua storia. Ed è, a tutti gli effetti, un paese alla fame. Quanto alla fame? Per farsene un’idea, chiunque può consultare qui i risultati de “l’inchiesta nazionale sulle condizioni di vita” condotta dalla Università Cattolica Andrés Bello e pubblicata lo scorso febbraio: l’87% dei nuclei familiari in stato di povertà, il 61,2% in una situazione di “povertà estrema”. Negozi vuoti, inflazione ormai in viaggio verso le cinque cifre, ospedali senza medicine. Città al buio. Il Venezuela è alla fame, semplicemente perché il modello economico che il regime chavista ha creato non ha mai funzionato. O meglio: perché la catastrofica inefficienza di quel modello è, nel contempo, stata anche la prima fonte della corruzione che del regime è, da ormai molto tempo, il vero mastice, il cemento che, al di là della sempre più bolsa retorica “rivoluzionaria”, ne tiene insieme i vari pezzi (basta per questo analizzare – cosa che non è possibile fare in questo post – chi s’avvantaggia dell’attuale demenziale ed immutabile sistema di cambio).

Non è affatto un paradosso affermare che il regime chavista si alimenta oggi dei propri fallimenti. E che si sostiene proprio grazie alla fame che lui stesso ha generato. I negozi sono vuoti perché il governo ha – in un paese che deve in pratica importare ogni cosa – drasticamente ridotto le importazioni. Ed ha ridotto le importazioni perché per salvare se stesso ha – come a suo tempo i tanto giustamente vituperati governi neoliberali – scelto, al prezzo della fame del popolo, di pagare i propri debiti con Wall Street e con l’altrettanto giustamente vituperato sistema finanziario internazionale. I negozi sono vuoti e una parte crescente della popolazione – quell’87% di cui scrive l’inchiesta della Università Cattolica – dipende oggi dal sistema di razionamento alimentare creati dal governo: i cosiddetti Comité Local de Abastecimiento y Producción (Clap).

Il sistema è, nella sua infamia, molto semplice. Se vuoi i Clap – la “pappa col pomodoro” di cui alla Pavone – devi prima conseguire il cosiddetto “carnet de la Patria”. E se vuoi il “carnet de la Patria” devi compiere – altro che “rivoluzione” – un vero e proprio atto di sottomissione al governo. A meno che tu non scelga – come centinaia di migliaia di venezuelani stanno effettivamente scegliendo in quella che si configura come una vera e propria diaspora – la via dell’esilio.

Il prossimo 20 maggio si terranno in Venezuela – convocate da una Asamblea nacional costituente eletta in modo fraudolento – le elezioni presidenziali. Ma molti venezuelani già hanno cominciato a votare. Con i piedi, come si diceva un tempo. Per quelli che restano è invece soltanto: Clap o muerte, vencerán.

 

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