Si apre oggi, in quel di Chicago, la Convention del Partito Democratico. E due cose ci raccontano gli annali e le cronache. La prima: come proprio da questa città già sia per ben dieci volte passata – nelle vesti di Democratic Convention – la storia elettorale degli Stati Uniti d’America.
Fu qui infatti che, nel lontano 1864, venne nominato il generale unionista George B. McClellan (poi sconfitto da un tal Abraham Lincoln, presidente repubblicano in carica) dagli storici ricordato per la nefasta riluttanza con cui, durante la Guerra Civile, scendeva in battaglia contro le forze della Confederazione. Fu qui che per due non successive volte – finora unico caso nella Storia degli USA (Trump potrebbe essere il second) – Grover Cleveland lanciò, nel 1884 e nel 1892 la sua vittoriosa corsa verso la Casa Bianca. Fu qui che di fatto – con tre delle quattro plebiscitarie “nomination” di Franklin Delano Roosevelt, nel 1932, 1940 e 1944 – nacque e crebbe il partito del New Deal. Fu qui che, nel 1952 e 1956, quel medesimo partito del New Deal, venne, con Adlai Stevenson, per due volte sconfitto dai repubblicani di Ike Eisenhower. Fu qui che, nel 1968, Hubert Humphrey strappò la sua “nomination” tra i fumogeni le grida e le teste rotte delle proteste contro la guerra in Vietnam, aprendo la strada alla vittoria di Richard Nixon e della sua “maggioranza silenziosa”. E fu qui, infine, che nel 1996, al termine della lunga stagione del neoliberalismo reaganiano, con la seconda nomination del “grande triangolatore” Bill Clinton, il partito del New Deal – “the era of big government is over”, l’era dello statalismo (così si direbbe da noi) è finita, aveva dichiarato due anni prima il rieleggendo presidente – definitivamente rinunciò a se stesso dissolvendosi in un ancor irrisolto processo di “modernizzazione”.
Seconda cosa: quella che si apre oggi, assicurano gli storici, sarà la più “ribaltata” tra le 47 (o giù di lì) convenzioni fin qui svoltesi – sotto questo o altri nomi, considerato che il PD in quanto tale non nasce, che nel 1828, come evoluzione, sotto la molto “populista” egida di Andrew Jackson, del Democratic-Republican Party di Thomas Jefferson e James Madison – nel corso del quarto di millennio trascorso dal fatidico 4 di luglio del 1776. Soltanto tre o poco più settimane or sono doveva infatti essere, quella che oggi comincia, una cerimonia chiamata a celebrare qualcosa che esisteva, ma che era impossibile vendere. Ora, al termine del più repentino e radicale dei cambi di scena, s’appresta, al contrario, a presentare qualcosa che ancora non esiste – e che forse mai davvero esisterà – ma che, in un clima d’inatteso entusiasmo, appare vendibilissimo. O, addirittura, già comprato per prenotazione, se non ancora dalla maggioranza dell’elettorato, quantomeno dalla totalità della base democratica.
Dalla depressione all’euforia
Più in concreto: quella che doveva essere – in un’atmosfera di tenebrosa depressione psichica – la Convention di Joe Biden, chiamata all’impossibile missione di magnificare, dalle più oscure profondità del pessimismo, i brillanti risultati del suo primo mandato, lanciandone su questa base il secondo, s’è quasi fulmineamente trasfigurato nella Convention di Kamala Harris, vicepresidente a Biden subentrata dopo la non del tutto spontanea rinuncia di quest’ultimo – “per il bene del Paese e del partito” – alla corsa per la Casa Bianca. Di quel che Joe Biden aveva fatto tutto, nel bene e nel male, si sapeva. Ed il bene non era, statisticamente parlando, davvero poco. Biden, pur senza l’appoggio d’una definita maggioranza congressuale, ha nei suoi quasi quattro anni di presidenza varato una politica di ricostruzione delle infrastrutture non molto lontana, per dimensioni, dal New Deal rooseveltiano. E del New Deal ha quantomeno abbozzato, in un non facile contesto, una versione “green”, tesa ad esaltare, creando nuovi posti di lavoro, la crescita delle fonti alternative di energia. Nel complesso, tra il 2020 e l’ancora inconcluso 2024, l’America è riuscita, contenendo l’inflazione senza cadere in recessione, a superare il lascito nefasto della pandemia in termini che (sempre statisticamente parlando) sono da almeno un anno e passa l’invidia di tutte le Nazioni ad economia avanzata.
Il tutto, però, a fronte di un paese reale che, per i suoi tre quarti, ancor oggi resta convinto che, negli Usa, le cose stiano andando, in generale, ma soprattutto economicamente, nel peggiore dei modi. Per quanto misurabili e concreti, i successi di Joe Biden erano, fino a ieri – vale a dire: fino a quando era lui il candidato del Partito Democratico – assolutamente invendibili. E questo per due fondamentali ragioni. La prima, perché – per dirla nei termini più terra terra – le statistiche non si mangiano. O, più specificamente, perché quel che riluce nei rapporti sullo stato dell’economia spesso, e certamente in questo caso, appare molto più opaco – e talora invisibile – negli scaffali dei supermercati, nelle stazioni di servizio che vendono carburante, o nei conti domestici di chi va cercando casa. La vita quotidiana resta, anche negli USA, molto più difficile di quel che era, regnante Trump, prima della pandemia. Il che– sorvolando sulla catastrofe che fu la gestione trumpiana del Covid – ha fino a ieri aperto ampi spiragli alla classica retorica del “si stava meglio quando si stava peggio”.
…e d’incanto si diradò la nebbia
Seconda, più importante e da tempo stranota ragione: l’età di Biden. Gli anni che Biden ha e che, ogni giorno più visibili, si porta in spalla quando parla e quando cammina, nella voce e nell’espressione del viso, nello sguardo. Era in questa nebbia – la nebbia implacabile del tempo che passa e che indietro non torna – che s’era irrimediabilmente perduto il suo messaggio ancor prima della sua disastrosa performance nel primo dibattito presidenziale, a fine giugno. E questa è la nebbia che con la sua uscita di scena s’è d’incanto diradata.
Pochi – quasi nessuno per la verità – avevano pronosticato un tanto immediato e radioso ritorno del sole. Molti avevano previsto divisioni e contumelie all’interno del partito. E tutti si erano chiesti se la vicepresidente Kamala Harris, per ovvii motivi la prima in linea per la sostituzione del “nominee” dimissionario, non fosse a conti fatti che una riproposizione, in chiave surrogata, dell’esistente. Nulla, nel curriculum di Kamala – prima come Attorney General e poi come senatrice per la California, quindi come candidata alla nomination democratica nel 2020 e, infine, come vicepresidente di Biden – offriva bagliori di particolare rilievo. E invece, entrata lei in scena, tutto si è, al di là d’ogni più rosea previsione, all’improvviso illuminato. L’entusiasmo è riesploso alla base ed al vertice del partito, i contributi in denaro alla campagna democratica si sono impennati e, quel che più conta, i sondaggi hanno quasi d’acchito cambiato segno. Cifre che prima delle dimissioni di Biden da mesi mostravano – pur in una contesa ancora priva d’un chiaro favorito e tutta ancor dentro il famoso “margine d’errore” – un piano inclinato decisamente (non pochi pensavano irreversibilmente) pendente in direzione di Trump, si sono pressoché diametralmente ed in rapidissima progressione mosse, tanto in generale quanto nei famosi “battleground States” (gli Stati elettoralmente in bilico nei quali si decidono gli esiti della corsa) dal lato della Harris e di Tim Walz, il molto popolare e straordinariamente empatico governatore del Minnesota da lei scelto come running mate.
Tutto, in questa luce, è all’improvviso apparso più chiaro. Tanto che persino il lascito economico di Joe Biden – quello che con lui in corsa non aveva mercato in politica – è infine riemerso luccicante dalle tenebre dell’oblio come una merce preziosa, vendibile e luminosa come quella, se non proprio oscura, ancora alquanto evanescente, che Kamala va presentando di suo in vista del voto di novembre. Lo si è visto giovedì scorso, allorché nell’enorme auditorium del Prince George’s Community College ad Annapolis, nel Maryland, Kamala e Uncle Joe, si sono per la prima volta presentati insieme in quella che di fatto è stata una (almeno in superficie) molto gioiosa cerimonia pre-Convention di passaggio delle consegne.
Una cerimonia d’addio e ringraziamento
In quella che più di un analista ha interpretato come una sotterranea testimonianza di perdurante rancore, Joe Biden non si è – pur in un trionfo di applausi ed abbracci – molto dilungato in complimenti per la sua vice. “Sarà una grandissima presidente”, ha detto e questo è stato quanto. Tutto il resto del suo tempo Biden lo ha dedicato a se stesso, ai suoi disconosciuti successi ora in belle esposizione ed ai pericoli, per la democrazia Usa, d’una seconda presidenza di Donald Trump. Niente di davvero esaltante, ma poco importa. Sessantaquattro anni fa, dopotutto, a Richard Nixon era andata, in circostanza abbastanza analoghe, molto, ma molto peggio. Nel 1960, quando l’allora vicepresidente repubblicano s’apprestava ad iniziare la sua corsa contro il democratico John Fitzgerald Kennedy, un giornalista chiese da Ike Eisenhower, presidente repubblicano in carica, quali, secondo lui, fossero le più spiccate e “presidenziabili” virtù di Nixon. E questa era stata la sua laconica risposta: “Riproponetemi la domanda tra due o tre settimane e vi risponderò con piacere. Al momento non me ne viene in mente alcuna”.
L’occasione immediata, dichiarata ella adunata di Annapolis era, in ogni caso, molto specifica: la presentazione, di fronte ad una platea in visibilio, di quello che si può considerare l’ultimo e più tangibile successo delle politiche economiche di Joe Biden:. Ovvero: la diminuzione negoziata con le grandi imprese farmaceutiche, il cosiddetto Big Pharma, del prezzo di alcuni dei più diffusi e costosi medicamenti destinati al Medicare, il servizio sanitario pubblico per le persone anziane. Ma l’attesa era, in realtà, tutta per il parallelo “piano economico” – il Kamalanomics, come i media già l’avevano ribattezzato – che la Harris aveva con certa solennità preannunciato.
Dunque, come sono andate le cose? Non benissimo, si sarebbe detto in normali circostanze. Gli economisti hanno in genere – sia pur per diverse ragioni a seconda delle tendenze – risposto arricciando il naso di fronte alla approssimazione delle proposte di Kamala. I più generosi analisti politici hanno sottolineato come, seppur economicamente alquanto vaghe o, in qualche caso, palesemente impraticabili – specie laddove sembrano delineare politiche di controllo dei prezzi storicamente risultate fallimentari (vedi Nixon nel 1971) – le proposte avanzate in Maryland non fossero prive di logica ed efficacia politica, specie laddove con studiata evanescenza si proponevano di tradurre in tangibili vantaggi per la famosa “classe media” – perlopiù attraverso interventi di molto vaga natura populista tesi a ridurre i prezzi là dove più dolgono – i risultati di un solido stato dell’economia. “Non più statistiche, ma etichette”, ha scritto qualcuno. Con ovvia allusione alle etichette dei prezzi, quelli, poi pagabili alla cassa, in contanti o con carte di credito, materialmente esposti in negozi e supermercati, Molto più severo, l’Editorial Board del Washington Post – un quotidiano il cui endorsment per la candidata democratica si può dar per scontato – così ha invece, senza riserve, bollato il discorso di Kamala. “I tempi reclamano serie idee economiche. La Harris non ha fornito che gimmiks, pura ginnastiche verbale”. In sostanza: aria fritta.
Il “fattore D”
A mantenere accesa la luce che da giorni illumina la campagna di Kamala Harris, anzi, a farla ancor più rifulgere per contrasto, ha tuttavia contestualmente provveduto “il fattore D”. D naturalmente, come Donald Trump. Le cronache politiche delle ultime tre settimane inequivocabilmente ed in sovrabbondanza testimoniano, infatti, come l’uscita di scena di Joe Biden abbia completamente spiazzato, anzi, decisamente destabilizzato, l’intera campagna elettorale di Donald Trump. E questo giusto nel momento in cui – dopo il “martirio” dell’attentato di Butler, in Pennsylvania e la cerimonia di beatificazione della Convention di Milwaukee –quest’ultima pareva aver raggiunto la sua apoteosi.
Donald Trump – che, peraltro, già aveva concluso la cerimonia di Milwaukee con il più chilometrico, sgangherato e noioso discorso di accettazione della storia delle Convention – appare di questi tempi in un assoluto – e per la Harris, per l’appunto, illuminante – stato di confusione. E, quel che è peggio – o meglio, per la Harris – di una confusione tipicamente senile, propensa alla ripetitiva enfasi di endemici, naturali distorsioni della personalità trumpiana. Per dirla, anzi, per ribadirla nei più semplici dei termini. Adesso che Joe Biden ha abbandonato il palcoscenico elettorale, il vecchio rimbambito della storia è proprio lui: Donald J. Trump. E per cogliere appieno la portata del fenomeno basta percorre le cronache del comizio che – quasi in contemporanea con quello di Annapolis e con il medesimo proposito, quello di delineare la sua contrapposta politica economica – Trump ha tenuto in North Carolina, evidentemente su pressione dei suoi consulenti di campagna, preoccupati dal fatto che il candidato repubblicano non avesse, fino a quel momento offerto, come risposta alla irresistibile ed imprevista ascesa di Kamala Harris, altro che insulti di stantia e controproducente natura misogina e razzista.
Che Donald Trump fosse giunto a questo appuntamento economico controvoglia, perché contro la sua natura ed il suo istinto, è apparso chiaro fin dalle sue squinternate parole introduttive. Parole che vale la pena, per render meglio, l’idea, riportare testualmente: “Stiamo parlando di una cosa chiamata economia. Volevo fare un discorso sull’economia. Un sacco di gente è molto devastata [da] quello che è successo con l’inflazione e tutte le altre cose. Quindi stiamo facendo questo come un discorso intellettuale. Oggi siamo tutti intellettuali. Oggi lo facciamo. E lo stiamo facendo proprio adesso. È molto importante. Dicono che è il soggetto più importante. Penso che la criminalità sia proprio lì. Credo che il confine sia proprio lì, personalmente. Abbiamo un sacco di argomenti importanti… Dicono che è l’argomento più importante. Non sono sicuro che sia… L’inflazione è il più importante. Ma questo fa parte del l’economia…”
Trump, parole in libera uscita
Detto questo Trump ha quindi proceduto alla lettura di un testo carico di numeri e statistiche, evidentemente da altri stilato e da lui scandito, con incomprensibili risultati, con il tono piatto, monotono ed annoiato dello studente che, costretto a leggere in classe un libro al cui contenuto è completamente disinteressato, non vede l’ora che suoni la campanella dell’intervallo per correre in cortile. E così è stato. Quando infine – metaforicamente parlando – è suonata la campanella dell’intervallo, Donald Trump, messi da parte i fogli che gli avevano dato da leggere, è corso in cortile. Ovvero: è tornato il se stesso invecchiato che è oggi, inanellando, per un’ora filata e senza controllo, insulti alla Harris e scempiaggini economiche d’ogni tipo. La più trumpianamente bella di quenste panzane? Non c’è, come si usa dire, che l’imbarazzo della scelta. Ma io senza esitazioni seleziono quella in cui Trump, sfidando impavido le più elementari regole dell’ aritmetica, ha affermato che “più del 100 per cento dei nuovi posti di lavoro creati da Biden, è andato a immigrati illegali” (sí, prioprio loro, quelli che in gran maggioranza assassini, stupratori e malati mentali si appropriano dei lavori – i più umili e servili, ovviamente – per loro natura destinati ai neri. I “black jobs”, per l’appunto, come Trump ama chiamarli).
Bisogna ammetterlo. Di fronte a questo argomentare, non solo il “gimmick” oratorio delle proposte economiche della Harris, ma anche una delle filastrocche numeriche che si insegnano nelle scuole materne potrebbe tranquillamente aspirare ad un Nobel per l’Economia.
Un volo di fantasia
Le ultime tre settimane di Donald Trump sono state, a tutti gli effetti e per la gioia del Partito Democratico, molto trumpianamente intense, piene di significative asserzioni e di emblematici ricordi. Su tutti quello – riportato nel pieno di una conferenza stampa convocata nella reggia di Mar-a-Lago, in Florida all’inizio del mese – nel quale ha narrato d’un drammatico volo in elicottero, sul finire degli anni ‘90 con l’allora sindaco di San Francisco, l’afro-americano Willie Brow, ai tempi sentimentalmente legato a Kamala Harris. Volo a suo dire terminato con un potenzialmente mortale e spaventevole atterraggio di fortuna in California. Fu in quelle drammatiche circostanze che, ha sostenuto Trump, Brown “mi disse cose terribili su Kamala”. Invano i cronisti hanno cercato rovistando archivi elettronici e cartacei, tracce dell’incidente. Ed interpellato in proposito, Willie Brown ha risposto con una fragorosa risata, perentoriamente affermando di non esser mai stato su un elicottero – e tanto meno su un elicottero costretto ad un rischioso atterraggio di fortuna – insieme a Donald Trump. Con quale, è appena il caso di aggiungerlo, mai, in nessuna circostanza ed in alcun termine, ha parlato di Kamala Harris.
A testimonianza di quello che molti osservatori interpretano come uno stato di panico politico esaltato da un ovvio deterioramento mentale dovuto all’avanzata età sono state queste – in termini di sballate memorie, insulti a catena, impresentabili frottole e insensate sbrodolature comiziali – settimane vissute in overdrive da Donald Trump. Giorni di fuoco ha regalato l’ex e forse futuro presidente alle cronache politiche. Giorni dominati – per parafrasare la più citata delle opere di Hannah Arendt – da una moltiplicazione senilmente tediosa della “banalità della menzogna”. O meglio: sono stati giorni – volendo dar loro un titolo – di ordinaria follia e di straordinarie folle. Fuor di metafora: sono giorni marcati dalla folle ossessione – ora risibilmente magnificata dalla vecchiaia – da Trump ostentata, specie in termini comparativi, per le dimensioni (“crowd size”) delle folle che lo accompagnano lungo le vie di un potere da lui, per sua natura, concepito come assoluto.
Una follia che ha una sua logica
Per Trump si tratta, com’è noto di un male antico, anzi, originario. Fu proprio in occasione della sua cerimonia di inaugurazione, nel gennaio del 2017, che, contro ogni evidenza, sostenne come in quella occasione il chilometrico Mall di Washgington D.C, avesse, nel lungo tratto che separa Capitol Hill dal Lincoln Memorial, accolto più del doppio della gente che, otto anni prima, aveva salutato la vittoria di Barack Obama (erano in realtà, le sue folle, molto meno di un terzo di quelle di Obama). E fu in quella occasione che la sua più stretta collaboratrice, l’ineffabile Kellyanne Conway, aveva in sua difesa coniatoun termine poi entrato, tra il serio e il faceto, nel lessico politico globale. Quelle che Trump racconta, aveva sostenuto in quell’occasione la Conway non sono “falsità”, come aveva temerariamente sostenuto un conduttore della CNN, ma “fatti alternativi”.
E fatti alternativi Trump è tornato a raccontare, con sempre più decrepita certezza ed ancora una volta nel corso della conferenza stampa di Mar-o-Lago Trump, rispondendo a chi gli chiedeva che ne pensasse dell’alta ed entusiastica partecipazione ai comizi di Kamala Harris. Mai nessuno nel corso dell’intera storia dell’umanità, era stata la sua risposta, aveva più di lui attratto immense, incontenibili quantità di popolo. Non esitando a comparare – ovviamente a suo vantaggio – le folle che parteciparono alla manifestazione di protesta da lui convocata il 6 gennaio del 2021 – sì, quella che poi si concluse con l’assalto al Congresso – con quelle che, nel 1963, ascoltarono il più famoso discorso, marcato da “I have a dream” – di Martin Luther King. Giusto per la cronaca: stando ai dati ufficiali della polizia di Washington D.C,, il 28 agosto del 1963, almeno 250mila persone si accalcarono nel Mall della capitale. Il 6 gennaio del 2021 furono meno di 10mila.
Altro giro, altra conferenza stampa – martedì scorso, nel suo campo di golf nel New Jersey – altre folle ed altre follie. Altri numeri inventati. Questa volta in un paragone tra zero e 15mila. Secondo Trump le foto che, qua là pubblicate dalla propaganda democratica, mostravano giorni fa un trionfale arrivo – accolto, per l’appunto, da 15mila persone plaudenti – di Kamala Harris e Tim Waltz all’aeroporto di Detroit, non erano che un grossolano fake, un ovvio prodotto dalla Intelligenza artificiale. Perché in realtà all’aeroporto non c’era anima viva, come inequivocabilmente dimostrato dalla assoluta mancanza di riflessi (riflessi, ovviamente, di immagini di folle) su una delle ali dell’aereo. Già. Peccato che la autenticità di quella fotografia fosse dimostrata, al di là d’ogni riflesso – ovviamente dipendente dall’ubicazione del sole, non visibile nell’immagine – non solo dalla testimonianza delle migliaia di persone che materialmente li si trovavano, ma anche dai racconti d’una dozzina di giornalisti di tutte le tendenze e dalle immagini di diverse reti televisive, tra le quali la superneutrale C-Span, niente commenti e solo immagini
Follia? Certo. Follia trumpiana, frutto di un’incontenibile, patologica forma di megalomania narcisistica, ora riciclata, in forma confusionale, dall’ incedere della vecchiaia. Ma anche una follia che – demenza senile a parte – mantiene da ormai otto anni, una sua precisa, ferrea a sovversiva logica. Perché è proprio attraverso questo tipo di sempre più implausibili menzogne che, con tutta evidenza, Trump ed il suo culto – il MAGA Party un tempo conosciuto come Partito Repubblicano – si preparano, come già quattro anni fa, a respingere in caso di sconfitta il risultato delle prossime elezioni.
Ed è qui che – al di là degli esiti della Convention democratica oggi ai suoi esordi, del sempre più accentuato grottesco delle esibizioni trumpiane ed anche, in buona misura degli esiti del voto di novembre- riaffiora il vero problema, la vera sostanza della crisi della democrazia americana. Una democrazia che, “dimezzata” dalla trasfigurazione del Partito Repubblicano, resta comunque – vinca chi vinca la corsa alla Casa Bianca – a rischio di estinzione. Con conseguenze difficili da misurare, ma più che prevedibilmente nefaste, per l’America e per il mondo.