Con la riforma della Costituzione del ’99 – 33 nuovi articoli su un totale di 350 – il presidente bolivariano punta a definire una “nuova geometria del potere”. E, soprattutto, a perpetuare se stesso come “grande geometra” d’un progetto sociale dai molto fumosi contorni “socialisti” – Aprendo la campagna per il “si” nel prossimo referendum, Chávez fa sapere di considerare se stesso indispensabile. Come un grande pittore che deve finire il suo capolavoro…
27 giugno 2007
di Massimo Cavallini
Cominciamo dai numeri. Perché proprio così, “dando i numeri”, ha in effetti esordito il presidente bolivariano, Hugo Chávez Frías, quando, lo scorso 15 di agosto, con loquace solennità ha presentato, di fronte all’Assemblea Nazionale, il suo nuovo progetto di riforma della Costituzione (la stessa che, da lui fortemente voluta, era stata approvata, via referendum, nel 1999). Riassumendo: 33, 350, 10, 5. Va le dire: 33, come il numero dei nuovi articoli che incarnano la riforma; 350 come il numero totale degli articoli della riformanda Costituzione (da Chávez definita “la più bella del mondo, perché perfetta”); 10 (o qualcosa di meno) come la quantità percentuale dei cambiamenti proposti; e, infine 5 (o qualcosa di più), come le ore che il presidente ha impiegato per illustrare cambiamenti destinati a portare la legge fondamentale della Repubblica Bolivariana oltre la “perfezione” già raggiunta otto anni or sono. O meglio: oltre i limiti d’un vecchio ordine sociale che – come ha rimarcato Chávez citando a tutto spiano Antonio Gramsci – s’ostina a non voler morire. “Abbiamo l’obbligo – ha detto il presidente ancora una volta riecheggiando, piuttosto a vanvera, uno dei più noti concetti gramsciani – di continuare ad indebolire il vecchio blocco storico”. Per riassumere: la “riforma” consiste in pochi cambiamenti, ma assai mirati e, nel loro complesso, destinati a definire una “nuova geometria del potere” in direzione della costruzione di una “società socialista”. Questo è ciò che la proposta di Chávez ha – secondo Chávez – offerto “de cara al pueblo y rumbo al pueblo”, di fronte al popolo e verso il popolo, mantenendo la promessa fatta nel corso della sua ultima campagna e vittoriosa campagna elettorale: la pratica edificazione del “socialismo del XXI secolo”. Ma è davvero questo il senso del cambiamento?
Chiunque lo desideri può, a questo punto, abbeverarsi direttamente alla fonte. Ovvero: andarsi a leggere direttamente (questo il link) le 135 pagine del discorso del presidente seguito dal testo dei 33 nuovi articoli. Noi lo abbiamo fatto riportandone l’impressione che la ricetta di Chávez consista nel proverbiale poco arrosto e molto fumo. Laddove l’arrosto (poco, per l’appunto, ma assai concentrato) sta in un’enorme estensione dei poteri presidenziali. Ed il fumo sta nella succitata “nuova geometria”. Volendo parafrasare il (piuttosto improvvisato ed, anch’esso, fumosissimo) gergo gramsciano e marxiano di cui Chávez ha fatto pomposo sfoggio, potremmo dire che la “struttura” della riforma appena lanciata è molto chiaramente identificabile nelle parti che estendono da sei a sette anni il mandato presidenziale, privandolo del fardello della non rieleggibilità, mentre la “sovrastruttura” sono tutte le alchimie istituzionali e, persino, geografiche, che sulla carta dovrebbero dar corpo ad un “nuovo potere popolare”. Nonché a nuovi momenti di democrazia “protagonica y partecipativa”.
Gran parte del dibattito seguito alla presentazione della proposta di riforma, si è concentrato (e continua a concentrarsi, soprattutto in Italia) attorno a due punti contrapposti: quello, per l’appunto, della rieleggibilità permanente – interpretato come ultimo passo in direzione d’una dittatura a tutto tondo o, se si preferisce, d’una dittatura a vita – e quello della permanenza, anche nel testo “riformato”, di gran parte dei meccanismi di “controllo popolare” definiti nella Costituzione del 1999. Su tutti la possibilità – già utilizzata contro Chávez senza successo dall’opposizione nel 2004 – d’indire un referendum revocativo contro il presidente in carica. Che senso ha – affermano i sostenitori di questa seconda tesi – parlare di “dittatura” quando: 1) la riforma dovrà essere democraticamente approvata da un referendum; 2) il presidente in carica potrà esser rieletto a vita, sì, ma solo continuando a vincere democratiche elezioni con tanto d’opposizione: e 3) quando, anche qualora vincente, il medesimo presidente potrà essere democraticamente deposto in qualunque momento del suo mandato? Questo – giusto per citare un esempio di piuttosto infima qualità, ma di grande visibilità – è quel che, in un infuriato e piuttosto sconnesso articolo sul Manifesto, (“Quante menzogne sul Venezuela di Chávez”) Gianni Minà ha scritto replicando ad un commento – anch’esso piuttosto infuriato, approssimativo e sconnesso – pubblicato, a firma del vicedirettore, Pierluigi Battista, dal Corriere della Sera (“Chávez, il buon dittatore “socialista”).
Per cercare di uscire dalla gabbia di questa contrapposizione, occorre, come sempre, partire dai fatti. Ovvero: dal testo della riforma di Chávez (valutato nella sua totalità) e dal contesto politico nel quale quest’ultima viene presentata (le due cose che tanto Battisti, quanto Minà scelgono di ignorare o, più spesso, di deformare). Ed il primo fatto è questo: la nuova “geometria del potere” delineata da Chávez è, nella sua quasi millenaristica ambizione, una realtà intricata, a tratti persino criptica o, addirittura, cervellotica. Ma inequivocabilmente chiaro è, al contrario, chi sia il geometra chiamato a tracciare gli angoli del teorema. O, fuor fi metafora, a gestire (ed a gestire vita natural durante) una nuova realtà istituzionale tanto sperimentalmente indefinita e complessa (o del tutto evanescente). Più esattamente: Chàvez propone una riorganizzazione territorial- istuzionale che parte dalla “città comunale”. O meglio: dalla “comune” intesa come “cellula geo-umana del territorio” e come base d’una nuova forma di democrazia diretta, nonché come “nucleo spaziale basico ed indivisibile dello Stato Socialista Venezuelano”. Testualmente: “A partire dalla comunità e dalla comune, il Potere Popolare svilupperà forme di aggregazione comunitarie politico-territoriali, le quali saranno regolate per legge e costituiranno forme di autogoverno e qualunque altra espressione di democrazia diretta”.
Concetti, come si vede, piuttosto oscuri, magmatici, in divenire, che qualcuno sembra, tuttavia, voler considerare come l’inevitabile portato d’una “rivoluzione permanente”, il riflesso d’una società che fa del cambiamento radicale, geografico e politico, la sua vera ragion d’essere. E che, proprio per questo, rifiuta d’imbalsamare se stessa in una definita realtà istituzionale. Panta rei, insomma, tutto scorre. Come nella teoria filosofica di Eraclito, nella nuova Costituzione chavista, l’essere si identifica con il divenire, lasciando nelle mani del popolo le chiavi di questa permanente trasformazione.
Nelle mani del popolo? O nelle mani del “grande geometra”? Questa è la vera domanda. E la risposta viene quasi da sé allorché si contrappone l’eterea vaghezza del nuovo “panta rei” istituzionale, con l’assoluta – “geometrica” per l’appunto – precisione dei nuovi poteri presidenziali, definiti non solo dall’estensione da sei a sette anni d’ogni mandato e dalla caduta d’ogni limite d’eleggibilità, ma anche dalla concretissima facoltà d’agire pressoché indisturbato, attraverso la creazione di nuovi distretti federali, distretti funzionali e città federali, nella alterazione della realtà territoriale e politica. Che cosa siano i “nuclei spaziali, basici ed indivisibili, del nuovo Stato Socialista Venezuelano” non è, insomma, affatto chiaro. Ma chiarissimo è il fatto che, pur nella loro assoluta fumosità, queste “cellule geo-umane” (Chávez dixit) svuotano, in pratica, tutta la vecchia struttura decentrata e rappresentativa della Repubblica Venezuelana nata nel 1958 (dopo la caduta della dittatura di Marcos Pérez Jiménez) e confermata (rafforzata, per molti aspetti) dalla costituzione del ‘99. Ovvero: eliminano, rendendolo del tutto superfluo, ogni tipo di contrappeso territoriale (Stati, municipi) al potere centrale del presidente. Chávez e le comuni. Vale a dire: tutto ed il nulla d’un fittizio divenire. Questo è quello che, a conti fatti, prospetta la nuova riforma costituzionale. Non un passo verso forme inedite e partecipative di democrazia, ma una scivolata verso l’ingessatura caudillista del chavismo. Non un modo per valorizzare gli elementi nuovi e positivi, le speranze suscitate dalla discesa in campo di nuove forze sociali (merito originario dell’ascesa al potere di Chávez), ma un modo per ucciderle. Non il socialismo, ma – in un dejá vu insieme tragico e farsesco – il potere d’un solo uomo, un classico “uomo della Provvidenza”, che identifica se stesso con il socialismo. L’ultima cosa di cui la sinistra ha bisogno.
Proprio perché, ormai senza ritegno, identifica se stesso con i destini della Nazione, del resto, Hugo Chávez Frías (il “nostro comandante en jefe”, come l’ha ossequiosamente definito la presidente dell’Assemblea Nazionale, Cilia Flores) non ha fatto nessuno sforzo per mascherare la natura estremamente “personalizzata” d’una riforma per elaborare la quale – in un diretto e molto caudillistico rapporto con “il popolo” – non ha convocato alcuna assemblea costituente o cercato ampli consensi d’alcun tipo. E, per discutere la quale ha, con molta perentorietà, dettato tempi e condizioni precise: un paio di mesi di dibattito parlamentare e poi, prima della fine dell’anno, il referendum popolare, indetto – con la formula del “prendere o lasciare”, nonostante la Costituzione preveda la possibilità d’un voto articolo per articolo – da poteri elettorali da tempo sotto il completo controllo del governo. Il tutto mentre, ormai da mesi, procede in tutto il paese, a colpi di “oceaniche” riunioni finanziate con fondi pubblici, la creazione del PSUV, il partito unico della rivoluzione. Ovvero: d’un nuovo partito-stato, il partito di Hugo Chávez. Dello stesso Hugo Chávez che controlla la magistratura. Lo stesso Hugo Chávez che ha trasformato le Forze Armate in parte della “sua” rivoluzione. Lo stesso Chávez che, attraverso PDVSA, gestisce in toto, e senza controlli contabili di sorta, le enormi risorse della “bonanza petrolera”. Lo stesso Chávez che, nel 2012, quando scadrà il mandato in corso, avrà già governato il Venezuela per 14 anni. Troppi, anche per un uomo della Provvidenza. Anzi: troppi soprattutto per un uomo della Provvidenza…
Certo i partiti d’opposizione – un’opposizione eterogenea e divisa, in gran parte prodotto dell’irreversibile crisi dell’inamidata e corrotta democrazia del “Punto Fijo” – continuano ad essere parte di questo panorama. E certo continua esistere – seppur sempre più condizionata – la libertà d’espressione. Ma il quadro d’assieme appare ormai inequivocabile. Come ben rivelano anche i più infimi dettagli di cronaca. Un esempio. Qualche giorno dopo la presentazione della riforma di fronte all’Assemblea Nazionale, durante uno dei suoi maratonici “Aló Presidente”, Chávez s’è trovato di fronte ad un inatteso contrattempo: la domanda – del tutto impertinente nell’osannante contesto di quella trasmissione – d’un giornalista di The Guardian, Rory Carrol, Il quale voleva sapere per quale motivo la sua proposta concedeva al presidente, cioè a Chávez medesimo, il privilegio della rieleggibilità permanente, mentre con forza lo negava ai poteri locali. Per quale motivo – aveva chiesto Carrol, evidentemente ignaro del carattere liturgico della manifestazione – la nuova costituzione vede il pericolo della nascita di piccoli caudillos locali, ma non quello d’un grande caudillo nazionale seduto in permanenza a Palazzo Miraflores? Visibilmente seccato, il presidente s’era, da par suo, lanciato in un attacco contro “il cinismo dell’Europa” che, mentre attacca Chávez e le sue riforme, continua, in non piccola parte, ad esser governata da re e regine che nessuno ha mai eletto. E, dopo una lunga “descarga” nel corso della quale aveva chiamato il giornalista in questione – irlandese e repubblicano – a rispondere di tutti i crimini della corona britannica (a cominciare dal “furto” delle Malvine), s’era infine degnato di spiegare per quali ragioni a lui – e soltanto a lui – tocca continuare a posare in permanenza le terga sul proverbiale cadreghino (o, nel caso specifico, sul più alto trono). La rivoluzione – ha detto in sostanza il presidente bolivariano – è come un grande quadro, un’opera d’arte firmata che un solo artista deve dipingere dall’inizio alla fine. Insomma: le comuni, la democrazia diretta, le nuove “cellule geo-umane”, tutto il confuso bla-bla-bla che impregna di sé i 33 nuovi articoli della nuova Costituzione, altro non sono che tocchi del suo pennello, lampi di geniale bellezza non trasferibili ad altre mani. Altro che “volontà del popolo”. Avrebbe potuto Michelangelo cedere ad altri – magari ad istituzione democratiche – la tavolozza quando la Cappelle Sistina ancora non era terminata?
Bellissima metafora. Bella e capace – per tornare a bomba – di porre nei giusti termini la domanda di fondo posta dalla riforma costituzionale di Chávez. È davvero di questo – di un grande ed insostituibile pittore (o di un altrettanto grande ed altrettanto insostituibile geometra) – che ha bisogno il Venezuela?
Destino ha voluto che, nell’inaugurare il congresso del PT, il presidente brasiliano Lula così spiegasse ai media la sua decisione di non cercare, nel 2009, un terzo mandato. “Quando qualcuno comincia a sentirsi indispensabile – ha detto – comincia a nascere un ‘dictartozinho’ (un dittatorucolo o, come più opportunamente si direbbe in Italia, un ducetto). Nessun riferimento esplicito a Chávez ed alla sua nuova Costituzione, ovviamente. Ma difficile è immaginare una più appropriata, pertinente e diretta risposta alla questione di cui sopra.