Una grande tenda. Grande quanto basta per dare rifugio, conforto e speranza a tutti coloro che -“progressisti, moderati o conservatori”, come ha sottolineato il senatore Bernie Sanders – si riconoscono oggi nella necessità d’impedire altri quattro anni di Donald Trump. Ovvero: un evento che – citiamo da un editoriale del Washington Post – arrecherebbe “un irreparabile danno all’esperimento democratico americano”. Più ancora: una tenda aperta a tutti coloro che, provenienti dai più diversi angoli dello spettro ideologico-politico – e per molti aspetti prescindendo dall’ideologia e dalla politica – avvertono, dopo un angustiante, intossicante quadriennio di trumpismo, un disperato bisogno d’aria fresca, di verità, di giustizia e di umana decenza. “Joe’s Fearsome weapon Against Trump: simple decency” – la spaventosa arma di Joe contro Trump: semplice decenza – recitava, due giorni fa, sul New York Times, con inusitata dolcezza, il titolo d’un commento firmato da Maureen Dowd, penna di norma piuttosto velenosa nei confronti dei politici di qualsivoglia colore…
E proprio questa – decenza, semplice, umana decenza – è stata forse la parola che più ha scandito i tempi della Convention democratica “virtualmente” consumatasi, tra lunedì e giovedì scorso, nel segno della pandemia, in quel di Milwaukee. Decenza come primo, indispensabile strumento per difendere la democrazia da un presidente che – ha detto e ripetuto Joe Biden giovedì notte nel suo discorso di accettazione – è venuto clamorosamente meno al dovere di proteggere i cittadini e la Costituzione del paese che governa. Un presidente che “non si assume alcuna responsabilità”, “incapace di guidare il paese” e perennemente “in cerca di capi espiatori”. Un presidente che “flirta con dittatori” e che, con ogni sua parola e con ogni suo gesto “alimenta le fiamme dell’odio e della divisione”. Un presidente che per troppo tempo “has cloaked America in darkness”, ha avvolto l’America nelle tenebre. Troppa rabbia, troppa paura, troppe menzogne, troppa ignoranza, troppa inettitudine e dabbenaggine, troppa trionfalistica ed egocentrica indifferenza di fronte al dolore di un paese precipitato, non solo per colpa della pandemia, in una delle più profonde crisi della sua storia.
Luce. Questo è quel che l’America va cercando, ha detto Biden, usando una metafora che, in tempi meno trumpiani – e se pronunciata da un candidato con diversa personalità – sarebbe stata dai più giudicata una molto demagogica, messianica scivolata. E, se eletto, proprio questo è quel che Biden ha promesso d’essere: “Qui ed ora, vi do la mia parola: se mi eleggerete, io sarò un alleato della luce, non delle tenebre…Governerò nel nome della speranza, non della paura, dei fatti non delle fandonie, della giustizia, non dei privilegi…”.
Decenza, del resto, sempre è stata, anche, la parola-chiave per capire le vere ragioni per le quali Joe Biden – “Uncle Joe”, lo zio Joe, come lo chiamano gli amici, o “Sleepy Joe”, Joe il sonnolento, come ama sarcasticamente chiamarlo Donald Trump – è oggi il candidato democratico, l’uomo che da quelle tenebre deve salvare l’America. Tra tutti gli aspiranti alla nomination – più di trenta quando, un anno fa, la campagna delle primarie è cominciata – Biden è stato quello che con più chiarezza e costanza ha definito in termini di valori di fondo (“a battle for the soul of America”, una battaglia per l’anima dell’America, decenza contro indecenza) la corsa per la presidenza.
Tutti gli altri candidati – con l’eccezione del “socialista” Bernie Sanders – erano di lui molto più giovani. Tutti avevano programmi più dettagliati ed interessanti. Tutti erano di lui più eloquenti e rappresentativi. Tutti erano più “leggeri”, nel senso che tutti portavano sulle spalle un fardello molto meno greve del suo, carico d’ogni errore, d’ogni sbandata, d’ogni caduta e, persino, d’ogni bruttura di quattro decenni di politica democratica. Con, in aggiunta, l’amara appendice di ben due precedenti corse alla presidenza finite malissimo. Tutti erano di lui più ricchi (la campagna di Biden era, in un sistema politico dove il danaro è da sempre il vero re-tiranno, una delle più poveramente finanziata). E se proprio lui è – dopo un disastroso avvio – riuscito a prevalere, è stato precisamente per questo: perché, meglio d’ogni altro (paradossalmente anche in virtù di quei limiti e di quel fardello, indossato senza alcuna gloria o vanagloria, ma, per l’appunto, con riconosciuta decenza) ha saputo interpretare il bisogno di unità, il senso di urgenza che, ben al di là della base democratica, oggi percorre il paese.
Joe Biden ha chiuso la Convention con un discorso energico ed efficace. O meglio: con un discorso la cui energia ed efficacia è stata moltiplicata proprio dalla sistematica (oltreché miserabile, controproducente e, in ultima analisi, alquanto ridicola) campagna di denigrazione con la quale, per mesi, Trump ed affini sono andati sardonicamente descrivendolo come un povero vecchio rimbambito, una sorta di decrepito nonnetto che, nel pieno della pandemia, il partito democratico teneva richiuso in qualche cantina per evitare brutte figure. Le attese erano, grazie a questa campagna, assai basse. E “Uncle Joe” le ha più che brillantemente superate, non solo con un implacabile j’accuse, ma anche molto vigorosamente proiettando, contrapposta ai grotteschi e tronfi accenti dell’imperante culto della personalità trumpiana, un’immagine di uomo qualunque. Laddove “qualunque” sta, ancora una volta, per umanamente decente, per capace di comprendere e di vivere come propri i problemi, le passioni ed i dolori degli altri.
Non per caso, uno dei momenti più alti della Convention è stato – a detta di pressoché tutti gli analisti -quello che, in altri tempi ed in altre convention, sarebbe subito finito nel dimenticatoio dei soliti, melensi e “toccanti” filmini “personal-umani” dedicati al candidato di turno: la testimonianza di Brayden Harrington, un adolescente, che affetto da balbuzie, ha faticosamente raccontato come proprio “Uncle Joe”, incontrato per caso, lo avesse consolato spiegandogli – “welcome to the club”, benvenuto nel club dei balbuzienti – come lui stesso, da ragazzo, avesse dovuto lottare con quel problema. “Biden wants the world to feel better”, Biden vuole un mondo che si senta meglio con se stesso, ha detto Brayden. “Tutti vogliamo un mondo che si senta meglio. Tutti ne abbiamo bisogno”. Parole da nulla. Parole qualunque, ingigantite – e a loro modo diventate il vero slogan della Convention – nel silenzioso ma ovvio raffronto con un presidente che, in più occasioni, non ha esitato a farsi beffe di persone disabili. Un presidente il cui narcisismo da baraccone, notoriamente, si esalta nell’umiliazione del prossimo.
Inevitabile domanda: in quanti sono entrati nella “grande tenda della decenza” di Joe Biden? In tanti. In qualche misura tutti. Tutti quelli che Trump non sono: dalla sinistra socialista di Bernie Sanders, ad una significativa fetta di quella destra ex-repubblicana, i cosiddetti “neocons”, che, in tempi tutt’altro che lontani, furono la base intellettuale della campagna d’Irak e della “guerra infinita” di George W. Bush. E proprio questo è, per molti aspetti, il grande paradosso di questa “virtuale” convention democratica senza palloncini colorati, cotillon e folle plaudenti. Mai prima d’ora il Partito Democratico aveva raccolto una tanto ampia coalizione di forze. E mai (con forse la sola eccezione della fallimentare corsa di George McGovern, nel 1972) aveva presentato una piattaforma politica tanto progressista, tanto ricca di “accenti rooseveltiani”: green new deal, lotta al global warming, nuove energie, rinnovamento di tutte le infrastrutture…
Funzionerà? Riuscirà questa grande, inedita tenda – riuscirà la decenza – ad impedire “l’irreparabile danno” d’un secondo mandato di Donald J.Trump? Rispondere non è facile. Perché Donald J. Trump – il presidente che si fa burla dei deboli e che flirta con i dittatori, il presidente-buffone che, come ha ricordato Barak Obama nel suo intervento, mai ha trattato la sua presidenza come qualcosa di diverso da “un realty show allestito per regalargli l’attenzione della quale sente il bisogno” – non è affatto una aberrazione. È il sintomo, non la causa, d’una malattia che già ha corroso parti essenziali della democrazia americana. E che di corrodere la democrazia ha, più che mai, un vitale bisogno oggi per sopravvivere. Quattro anni fa Donald Trump è diventato presidente, pur perdendo ampiamente nel voto popolare, perché ha conquistato e rimodellato a sua immagine il Partito Repubblicano. O meglio: perché un Partito Repubblicano giunto al termine d’una involuzione cominciata molti anni fa, alla fine degli anni ’60, a ridosso della battaglia per i diritti civili e della “southern strategy” di Richard Nixon, si è riconosciuto in lui, nei suoi atteggiamenti, nella sua istintiva ciarlataneria, nella sua indifferenza, o nel suo disprezzo, verso quei “valori compartiti” sui quali, da sempre, si regge ogni democrazia.
Trump è di gran lunga, rivelano i sondaggi, il più impopolare presidente da quando i sondaggi sono diventati parte della vita politica. Ma la sua impopolarità – oscillante tra un 40 ed un 44 per cento contrapposto a un 52, 55 per cento – è, per così dire, straordinariamente stabile. Di fatto è la stessa – dopo essere passata per tutte le menzogne, tutte le fregnacce, tutte le indecenze consumatesi in questo quadriennio – che Trump registrava durante le presidenziali del 2016. Il tutto con livelli di accettazione che, dentro il partito repubblicano (la cui Convention comincia oggi), permanentemente si sono mantenute non troppo lontane dal 100 per cento. Donald Trump sta, da par suo e con il pieno consenso del partito che fu di Abraham Lincoln, andando incontro alle elezioni sabotandole, denunciando frodi (quelle relative al voto per posta) che lui stesso va preparando tagliando i fondi della USPS, seminando sfiducia, a suon di menzogne, nella democrazia. E contro di lui – e di quel che lui rappresenta – non c’è che un’arma: il voto.
Nel corso della Convention democratica nessuno meglio di Barack Obama – in quello che è probabilmente stato il più bello ed il più drammatico dei suoi discorsi, in qualche misura il più lontano dal “yes we can” che 12 anni fa lo portò alla presidenza – ha sottolineato la necessità di votare per salvare i valori sanciti dalla Costituzione. Più ancora la necessità che a votare, ed a votare in massa, siano proprio quelli che da quella Costituzione – che predicando eguaglianza è nata all’ombra della schiavitù – sono stati i peggio serviti. Gli ultimi, i più diseredati, i più vilipesi, gli stessi che in anni lontani – lontani ma ancora ben presenti – furono protagonisti della battaglia per i diritti civili: “…i neri d’America Incatenati, frustati, linciati, sputacchiati per sedersi ad un tavolo di ristorante o su un autobus, bastonati per cercare di esercitare il proprio diritto al voto…se qualcuno aveva, allora, il diritto di credere che la democrazia non funziona, e non può funzionare, era quella parte d’America, erano i nostri antenati, punto d’arrivo d’una democrazia che sempre, lungo tutta la loro vita, aveva tradito ogni loro attesa. Nessuno meglio di loro sapeva quanto, nella vita quotidiana, quella democrazia fosse lontana dalle sue promesse e dal suo mito. E tuttavia, anziché arrendersi, si sono uniti e si sono detti che, in qualche modo, per qualche via, avrebbero fatto in modo che quella tanto imperfetta democrazia cominciasse a funzionare…Fate come loro, andate a votare, votate come non mai, non lasciate che vi tolgano l’unica arma che avete…”.
Così stanno le cose. Questa è la contraddizione che oggi attraversa l’America (e non solo l’America). La democrazia è malata. E, tuttavia, solo la democrazia, solo la decenza del voto, può guarirla. Non è detto che ci riesca, il prossimo 3 di novembre.