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Monday, November 18, 2024
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Biden, la corsa è finita. Si riapre la corsa.

Capolinea, signori si scende. Fine corsa. Ieri, quando a Washington D.C. gli orologi segnavano, volendo parafrasare i più celebri versi di Federico García Lorca, le “fatidiche tre del pomeriggio”, Joe Biden s’è infine fatto da parte, rinunciando ad una battaglia che – combattuta contro un nemico, il tempo, che nessuno, mai, è riuscito a sconfiggere – s’era ormai fatta, per lui e per il Partito Democratico (nonché per tutti quelli che, nel mondo, hanno a cuore la democrazia, verrebbe da aggiungere), disperatamente complicata. Lo ha fatto passando il testimone alla sua vice, Kamala Harris, ed illustrando le ragioni del suo abbandono in una lettera che, con orgoglio e (apparentemente) senza acrimonia, rivendica quel che in quasi quattro anni il suo governo ha realizzato. “Durante gli ultimi tre anni e mezzo – così si apre questo suo “messaggio d’addio” – abbiamo fatto grandi progressi come Nazione”.

L’America, sottolinea il presidente ormai a tutti gli effetti “uscente”, può oggi vantare “la più forte economia del Mondo”. E nel caso dovesse, questa sua affermazione suonare, nella sua enfasi, come vagamente “trumpiana”, Biden immediatamente si premura di darle una fattuale sostanza con un breve elenco delle cose fatte: i pubblici investimenti – particolarmente in energia pulita lungo le linee d’una strategia politica e d’una filosofia che qualcuno ha, con “rooseveltiani” accenti, chiamato “Green New Deal” – l’ampiamento della riforma sanitaria di Barack Obama, il risanamento di infrastrutture ormai obsolete, nuove leggi, dopo trent’anni di silenzio, per il controllo della diffusione delle armi…

“Insieme abbiamo salvato la democrazia”

Queste ed altre cose, Biden rivendica in questi, chiamiamoli così, “titoli di coda” della sua presidenza. E prevedibilmente aggiunge che nulla di quel che ha fatto sarebbe stato possibile senza l’appoggio del “popolo americano”. Insieme, scrive Biden “noi abbiamo protetto e preservato la nostra democrazia”. Ed è qui, in questa frase, che davvero palpita il cuore, il senso ultimo – ultimo perché definisce quella che era e resta la vera posta in palio – del suo finale messaggio. Perché è qui, in questa esistenziale esigenza – proteggere e preservare la democrazia – che traspare anche, con estrema chiarezza, il paradosso che ha marcato tutta la corsa alla rielezione di Joe Biden. E, in qualche misura, anche tutta la sua presidenza.

Ovviamente, molti puntini potrebbero essere messi sulle “i” e molti possono essere i distinguo – sul piano interno e, ancor più, sul piano internazionale – in merito alle rivendicazioni elencate nella sua lettera. Nessuno può però negare che con la sua vittoria nel novembre del 2020, Joe Biden abbia salvato la democrazia. Come, del resto, lo stesso Donald Trump s’è premurato di dimostrare appena due mesi più tardi, di fronte alla cronaca ed alla Storia, convocando ed ispirando l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Così come altrettanto certo è che, durante il suo mandato, gli Stati Uniti abbiano superato la depressione indotta dalla pandemia in termini più solidi e rapidi di tutte le altre economie avanzate del mondo. Il tutto convalidato da cifre che, chiare per gli economisti, vengono certo molto meno nitidamente percepite da chi cammina lungo i corridoi dei supermercati o fa il pieno di benzina. Per quanto sotto controllo – e controllata senza cadere in recessione – l’inflazione è, infatti, ancora al disopra dei livelli pre-pandemia. E questo pesa nelle tasche del famoso “uomo della strada”. Il che attenua, ma non cancella una indiscutibile verità: la gestione dell’economia dell’Amministrazione Biden resta, almeno per gli annali, un deciso “più” nella pagella governativa.

Un’ombra impossibile da dissipare

Il punto è che tutto questo – un tutto che non è affatto poco – è stato oscurato da un tema, quello della veneranda età del presidente, che per le più naturali, biologiche e logiche ragioni non poteva che aggravarsi nel tempo. La popolarità di Biden era entrata in territori negativi già poche settimane dopo la sua Inaugurazione, nella scia della disastrosa ritirata delle forze armate Usa dall’Afghanistan (ritirata peraltro eseguita ricalcando piani a suo tempo elaborati proprio dall’Amministrazione Trump). E lì è da allora rimasta. La ragione? I sondaggi non hanno mai lasciato alcun dubbio in proposito. Ormai sulle soglie degli ottant’anni, Biden veniva percepito da una maggioranza dell’elettorato – quello tradizionalmente democratico incluso – come “troppo vecchio”. E si trattava d’un ombra che impossibile era dissipare, d’una classica macchia d’olio. Perché è ovvio: se oggi gli elettori ti percepisco come vecchio, domani ti percepiranno inevitabilmente come più vecchio. E questo per la semplicissima, implacabile ragione che sei più vecchio.

È stato in questo contesto che la campagna trumpista – che descrive gli Stati Uniti come un Paese al bordo dell’Apocalisse – ha fatto breccia. Ed e stato di fronte a questa inesorabile verità che Joe Biden ed il Partito Democratico si sono perduti. Lo hanno fatto – volendo restare alla più immediata delle cause – perché prigionieri di immutabili meccanismi politici. Il presidente è anche, notoriamente, il capo del partito. Molto difficile, se non impossibile, è muover foglia che lui non voglia. Biden non voleva. E voluto non ha, nonostante le molte pressioni, fino a, per l’appunto, le “fatidiche tre del pomeriggio” di ieri.

Anche il fondato timore dei pericoli insiti nell’apertura di primarie davvero competitive ha ovviamente  giocato un ruolo. Correre contro Joe Biden avrebbe significato, per qualsivoglia aspirante democratico in qualche modo, ripudiare i successi del governo Biden e rifare il verso alla propaganda repubblicana che della senile fragilità di Joe Biden – pur nel contempo descritto come una diabolica creatura intenta a distruggere la Nazione – aveva fatto la sua bandiera. E nessuno se l’è sentita.

Il punto di non ritorno di un punto di non ritorno

Questo fino al primo dibattito presidenziale, lo scorso 28 giugno, ed alla disastrosa performance del presidente in carica. È stato quel giorno, anzi, quella notte che, negli studi televisivi della CNN, l’incantesimo s’è d’acchito e definitivamente spezzato. O meglio: s’è spezzato l’autoinganno che aveva, fino a quel giorno, o fino a quella notte, guidato la politica del Partito Democratico. L’esito del dibattito – come molto efficacemente lo definì quella stessa notte James Carville, la vecchia volpe aveva, nel lontano ’92, guidato alla vittoria la campagna di un semi-sconosciuto governatore dell’Arkansas di nome Bill Clinton – era stato ”the tipping point of a tipping point”, il punto di non ritorno di un punto di non ritorno. Se prima del dibattito era chiaro che la questione dell’età di Biden era un problema insormontabile, quella insormontabilità era stata, dagli esiti del dibattito, tragicamente posta di fronte a sé stessa ed alla asfissiante realtà del tempo che correva. Ora o mai più. O Joe Biden si ritirava adesso, sperando che il tempo massimo per una possibile svolta già non fosse scaduto, o il partito democratico andava incontro ad elezioni il cui risultato era già scritto. Non c’era modo che, chiunque fosse il suo rivale, un candidato considerato troppo vecchio (e questo prima del dibattito) da quasi l’ottanta per cento dell’elettorato potesse vincere la corsa alla Casa Bianca.

Dopo la catastrofe, Biden aveva – e non poteva essere altrimenti – riconosciuto la debacle, attribuendola però ad una “giornata storta”. Ed aveva sottolineato come soltanto ad una condizione avrebbe accettato di abbandonare la corsa: venir messo di fronte – cosa che ancora non riusciva a percepire – alla definitiva impossibilità di battere Donald Trump. Che cosa, dunque, l’ha infine convinto a lasciare?

Non i sondaggi nazionali, presumibilmente, rimasti sostanzialmente invariati – ovvero: tutti ancora all’interno dello statistico “margine di errore”, non solo dopo il disastroso dibattito, ma anche dopo l’attentato a Trump e la sua beatificazione nella Convention di Milwaukee. Secondo “538”, una delle più rispettate tra le organizzazioni che pronosticano i risultati delle elezioni in base a complicati modelli statistici basati su una ponderata media di tutti i sondaggi, Biden non ha, in questo per lui apocalittico lasso di tempo, perso che due o tre punti in percentuale. E la previsione resta, nell’avvicinarsi del voto di novembre, quella d’un virtuale pareggio. Cinquanta per cento di possibilità di vittoria per Biden, cinquanta per cento per Trump. Pari e patta, o quasi. Con 487 simulazioni di voto su mille a favore di Biden e 507 a favore di Trump.

Elezioni nient’affatto “normali”

 Il problema, tuttavia, è che quelle degli Stati Uniti non sono elezioni “normali”. Non vince, notoriamente, chi prende più voti. Vince – in una balcanizzata, obsoleta ed ormai ridicola aritmetica elettorale – chi guadagna più delegati nel conteggio dei collegi elettorali. E in caso di pareggio decide, a maggioranza semplice, la House of Representatives. Fu proprio nel contesto di questa decrepita organizzazione del voto, che – come molti certo ricorderanno – nel 2020 Trump tentò di ribaltare, fraudolentemente e violentemente, l’esito del voto. In sostanza (una sostanza che si è consolidata nell’ultimo quarto di secolo): negli Stati Uniti vince chi riesce a prevalere, fuori da ogni logica democratica, in un sempre più ristretto numero di Stati, i cosiddetti “swing States”, gli Stati in bilico (sette su cinquanta, secondo gli ultimi calcoli).

Uno i questi Stati è il Michigan. E, giusto dal Michigan – uno Stato senza il quale virtualmente impossibile diventa la corsa democratica – sono giunte due giorni fa pessime notizie. Cinque punti persi, sette punti di svantaggio su Trump. Questo in uno Stato che Biden aveva agevolmente vinto nel 2020 e che ha, con altrettanta ampiezza, eletto una governatrice democratica, Gretchen Whitmer, da molti considerata una possibile alternativa a Biden. È probabilmente di fronte a questi numeri che il presidente in carica si è infine arreso. “È stato per me il più grande degli onori servire come vostro presidente – ha scritto nella sua lettera – e sebbene fosse mia intenzione cercare la rielezione, credo sia oggi nel miglior interesse del mio partito e del Paese ch’io mi faccia da parte e mi concentri esclusivamente, per quel che resta del mio mandato, sui miei doveri di presidente.

Verso la Convention democratica di Chicago

 Che accadrà ora? Difficile dirlo. Kamala Harris è per molti versi un’incognita – la sua campagna nelle primarie democratiche del 2020 fu piuttosto disastrosa – ed ha già dichiarato, appresa la notizia del ritiro di Biden, che non considera affatto scontata la sua nomina. Vale a dire: che desidera meritare e conquistare la “nomination” nella prossima Convention democratica, programmata in quel di Chicago, tra il 19 ed il 22 del prossimo mese d’agosto, in un clima che politicamente, storicamente e logisticamente, richiama, almeno in senso lato, il precedente del 1968, altro anno cruciale nella storia, non solo elettorale, degli Stati Uniti d’America.

Fu proprio a Chicago, infatti, che, nel ’68 – nei più ribollenti anni della guerra in Vietnam – il Partito Democratico affrontò la sua Convention dopo che il presidente in carica, Lyndon Johnson, aveva annunciato, in un drammatico messaggio televisivo, che non avrebbe “né cercato, né accettato” la nomination del suo partito. Ed anche in quell’occasione che a sostituirlo era stato il suo vice, Huber Humphrey, vittoriosamente prescelto al termine di quella che fu, sicuramente, una delle più violente stagioni elettorali della storia americana. In aprile, a Memphis, era stato assassinato Martin Luther King e la sua morte aveva acceso, in ogni città d’America, la furia dei ghetti neri. Sul campo era caduto, appena due mesi più tardi, in quel di Los Angeles, anche Bob Kennedy, che, sotto le bandiere della pace, era il più serio e visibile (anche se probabilmente non vincente nel finale conteggio dei delegati) rivale di Huber Humphrey. Il quale, come ricordano gli annali, venne infine nominato mentre fuori dalla Convenzione, nei verdi prati del Grant Park, la polizia del sindaco Richard J. Daley, il democratico padre-padrone della “Windy City”, la città del vento, massacrava di botte le migliaia di giovani che manifestavano contro la guerra.

Alla fine, indebolito dalle divisioni interne, dalla crescente impopolarità della guerra in Vietnam, pesantissima eredità lasciatagli da Johnson, nonché dalla implacabile contestazione pacifista guidata da Eugene McCarthy, Huber Humphrey perse – sia per solo per un risicato punto – la corsa alla Casa Bianca. Ed a vincere fu un redento Richard Nixon. Il “Tricky Ricky”, Riccardo l’imbroglione, che nel ’60 aveva perduto contro John Kennedy, il Nixon della “maggioranza silenziosa” e della “Southern strategy”. Ovvero: della riconquista repubblicana degli Stati del Sud, un’ammiccante mano tesa, nel pieno delle turbolenze razziali, verso le mai tramontate ambizioni revansciste della “supremazia bianca”. Una strategia, questa, che in non piccola parte storicamente spiega l’attuale degenerazione trumpista di quello che fu il Partito di Abraham Lincoln.

Ci sarà battaglia – non ovviamente nei prati del Grant Park, ma all’interno del United Center, glorioso stadio dei Chicago Bulls, prescelto, molto lontano dai parchi del lungolago – anche in questa Convenzione di Chicago? Difficile al momento immaginarlo, considerato che, con la sola e probabilmente temporanea eccezione di Nancy Pelosi, un buon numero dei democratici che contano – dai due Clinton, Bill e Hillary, a Obama a buona parte dei leader in quel di Capitol Hill e a tutti i 50 segretari statali del Partito – già hanno dichiarato il loro pieno ed incondizionato appoggio alla vicepresidente. Si vedrà.

Quella che non è affatto un’incognita è, invece, quella che sarà – anzi, già è – la reazione del MAGA Party di fronte al cambiamento. Per Trump e per i trumpisti Kamala Harris – la già super-demonizzata Kamala Harris – non è che una mini-Biden, un’erede a tutto tondo di quello che chiamano il “disastro” dell’ultima amministrazione, con una (per loro) ripugnante aggiunta di “wokeism”. Vale a dire: con una blasfema riverniciatura di politiche D.E.I. – come Diversity, Equity and Inclusion – che il culto a Trump identifica come una forma di luciferina degenerazione spirituale, inevitabilmente destinata a sfociare nel più abbietto dei peccati: la pedofilia.

Repubblicani inquieti

Gli attacchi sono già cominciati. E rivelano, nella loro isteria, una certa inquietudine, il timore che l’uscita di scena di Biden e l’ascesa d’un nuovo candidato – si tratti della Harris o di chiunque altro – si riveli, quantomeno, un sassolino negli stivali che già i membri del culto hanno indossato per quella che considerano – come la coreografia della Convenzione ha ampiamente dimostrato – una trionfale e da Dio benedetta marcia verso la Casa Bianca.

Di certo non c’è al momento che questo. L’America è a un bivio. Ed il prossimo novembre possono accadere due cose ormai anni luce lontane, entrambe, dalla vecchia logica bipartitico-centrista che, per 250 anni, è stata l’architrave della democrazia americana. O vincono i Democratici portando alla presidenza – se davvero, come probabilissimo, sarà Kamala Harri la prescelta – non solo la prima donna, ma anche una donna “non bianca” (e in questo caso si può dare per scontato che il culto a Trump non accetterà, resterà da vedere con quanta violenza, la sconfitta). O alla Casa Bianca tornerà, accompagnato dal fanatismo para-religioso che lo circonda, il presidente che, da sempre organicamente estraneo ad ogni principio democratico, quattro anni fa ha terminato il suo mandato dando l’assalto al Congresso dopo esser stato sconfitto nelle urne.

La corsa continua. E chi ancora non l’ha fatto, farà bene ad allacciare le cinture di sicurezza.

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