“And the winner is… Canada”. Non v’è dubbio alcuno: fosse stato il dibattito presidenziale consumatosi martedì notte in quel di Cleveland, Ohio, regolato dal medesimo “format” dei premi Oscar, proprio così, con questa formula di rito, si sarebbe conclusa la contesa. E sul palco sarebbe salito, per ritirare la mitica statuetta, un molto commosso Justin Trudeau, giovane ed aitante primo ministro del molto pacioso vicino nordico degli Stati Uniti d’America.
O, almeno, questo è quel che lascia intendere il più moderno, universale ed infallibile degli oracoli: il motore di ricerca Google, secondo il quale durante e, soprattutto, dopo il confronto tra i due candidati, le più cliccate richieste hanno per l’appunto riguardato, in un’incontenibile impennata, il paese delle giubbe rosse, con particolare attenzione alle pratiche necessarie per ottenerne la cittadinanza o, in alternativa, la residenza legale.
Piuttosto ovvie, le ragioni d’un tanto improvviso, diffuso ed impellente desiderio d’emigrare in direzione nord. Il dibattito presidenziale tra il presidente in carica Donald J. Trump, e lo sfidante democratico, Joe Biden, non solo non ha avuto alcunché di presidenziale, ma in nessun modo è riuscito ad assomigliare, foss’anche per qualche breve istante, ad un dibattito. È stato invece, a tutti gli effetti, soltanto uno “shit show”, uno spettacolo di m…a, come un’allibita e d’abitudine alquanto paludata anchorwoman televisiva l’ha definito non appena i riflettori si sono spenti sulla cupa e sguaiata esibizione di Cleveland. E subito molto altri commentatori le hanno fatto eco.
Su un punto pressoché tutti si sono trovati, pur con diverse sfumature, d’accordo. La “cosa” vista sabato notte – e originalmente millantata, per l’appunto, come dibattito presidenziale – è stato uno dei più caotici ed avvilenti episodi della storia elettorale degli Stati Uniti d’America. Troppo caotica, troppo imbarazzante anche per un paese che, dopo quasi quattro anni di presidenza Trump, si pensava assuefatto alle volgarità ed alle smargiassate del suo “commander in chief”. Martedì notte Donald Trump è andato oltre Donald Trump. E, raggiunte queste nuove profondità, è stato il vero – per molti aspetti l’unico – protagonista dello (shit) show.
Chris Wallace, il pur molto scafato giornalista di Fox News al quale era stato affidato il compito di moderare l’immoderabile, ha perso quasi subito il controllo della situazione. Joe Biden – che lungo il suo quasi mezzo secolo di carriera politica sempre è stato considerato un molto legnoso e mediocre animale da dibattito – ha avuto la buona sorte, anzi, il privilegio d’esser, da subito, condannato al ruolo di comprimario (o di designato punching ball) d’una rappresentazione destinata a passare alla Storia come un esempio d’assoluta indecenza.
Né solo di questo paradossale vantaggio ha goduto il candidato democratico. Prima di questo dibattito, infatti, Trump ed i trumpisti avevano con tanta proterva insistenza continuato a descriverlo come un povero vecchio rimbambito – “Biden neppure sa d’esser vivo” era lo slogan – che, giunto all’appuntamento di Cleveland, era per lui sufficiente non addormentarsi davanti alle telecamere per uscire vincitore dal confronto.
Non si è addormentato, il candidato democratico. A dispetto delle 22 (qualcuno ne ha contate 27) interruzioni, è anzi riuscito a completare più d’una frase. Ed ha avuto persino qualche buon momento quando, rivolgendosi direttamente alla audience televisiva, ha ricordato quel che, al di là degli egocentrici schiamazzi presidenziali, va accadendo nel Paese reale, nelle famiglie oggi costrette, all’ora di cena, a rimirare il posto a tavola lasciato vuoto da una uno degli oltre 200mila morti da Covid-19, o a vivere nell’umiliante condizione di chi non ha lavoro. “Davvero – si è chiesto ed ha chiesto – c’è qualcuno tra voi che, dopo tante menzogne, crede a quello che dice quest’uomo?”
Joe Biden ha anche, a tratti, replicato agli insulti, chiamando un paio di volte “pagliaccio” il suo debordante rivale, in un’occasione invitandolo a “chiudere la bocca.” Ma non si è trattato che di brevi parentesi, di quasi impercettibili sfavillii nelle tenebre d’una notte totalmente dominata – in una sorta di sgangherata replica dello stile letterario di James Joyce – dallo stream of consciousness, il libero, inarrestabile flusso della coscienza di Donald J. Trump.
Il presidente in carica ha parlato di tutto. E lo ha fatto costantemente sopra le righe, saltabeccando, senza un filo logico, d’argomento in argomento, di menzogna in menzogna. Il tutto in un divagare tanto iracondo e frenetico che, quasi impossibile, era seguirlo. Per gli addetti al fact-checking – ancora una volta costretti agli straordinari da Donald Trump – è stato come cercare di controllare le cascate del Niagara.
Una frase pronunciata da Trump – “This is not going to end well”, questo non finirà bene – è tuttavia emersa, chiarissima, da questo caotico frastuono. È accaduto al finale, quando Chris Wallace ha chiesto a Trump due cose: se è disposto ad accettare un’eventuale sconfitta nelle urne, e se è disposto a condannare i sostenitori della “supremazia bianca” che, nel suo nome, vanno praticando violenze.
La risposta? Qualunque risultato che non sia la sua vittoria – ha ribadito Trump in un collerico fiume di parole e riesumando menzogne più volte smontate sull’inaffidabilità del voto per posta – non può che essere il prodotto d’una frode. E contro questa frode lui non esiterà a mobilitare i suoi manipoli. “Stand back e stand by”, aspettate e tenetevi pronti, ha detto rivolgendosi ad un gruppo chiamato “Proud Boys”, i ragazzi orgogliosi. Orgogliosi, per l’appunto, d’esser razzisti e trumpisti.
Ci si può scommettere: tutto questo non finirà bene. Per una volta Trump ha detto la verità. Una verità che è anche (soprattutto) una profezia e una minaccia. È tempo di partire. Toronto o Vancouver?