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America al voto. La posta in palio? Tutto

Covid, Covid, Covid…solo Covid, nient’altro che Covid…Comizio dopo comizio, bagno di folla dopo bagno di folla, sale alto e forte – anche se non propriamente solenne – il lamento di Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America. Alto, forte e rancorosamente diretto in svariate direzioni. Contro i “fake news media”, tutti ovviamente protesi a sottolineare con enfasi maligna – e con l’unico, perfido obiettivo di danneggiare il grande leader – gli effetti d’una pandemia ormai in piena ritirata. O meglio: da sempre in ritirata, considerato che Trump già ne aveva annunciato la definitiva sconfitta – “il virus sarà ridotto a zero in un paio di settimane” – quando, ai primi di febbraio, i contagiati non erano, negli USA, che una miseranda quindicina. E ancora: contro medici, ospedali e laboratori scientifici vari che, per pura venalità – “più contagiati dichiarano e più soldi guadagnano” – vanno commettendo, contro il presidente in carica, il medesimo e mortalissimo peccato. Nonché, naturalmente, contro Joe Biden, il vecchio e alquanto rincitrullito democratico – “il peggior candidato della storia americana, una vera pena dover competere con lui” – che, rinchiuso nel suo “basement” (lo scantinato nel quale s’è pavidamente rifugiato per evitare ogni contatto con il virus che, al contrario, Trump ha affrontato e battuto) nel sottosuolo di un generalizzato lockdown si propone di trascinare l’intera nazione, con l’ovvio obiettivo di trasformare – peggio, di sfigurare – gli Stati Uniti in “un paese socialista”. O, ancor più apocalitticamente, in un “non paese”. “Se Biden entra alla Casa Bianca – va ripetendo Trump – non ci saranno più confini, non ci sarà più proprietà, non ci sarà più classe media, non ci sarà più America”…(nota per i lettori perplessi: sì, il Biden in questione è, a dispetto delle sue luciferine sembianze, la medesima sonnacchiosa e pusillanime creatura che, ignara persino della propria esistenza – “he doesn’t know if he’s alive”, neppure sa se è vivo – Trump ama descrivere rinchiusa tra le quattro pareti d’un seminterrato, stordita dalla paura e dal peso degli anni).

Non mancano, ormai, che poche ore al voto. Anzi: il voto è ormai da giorni quasi ovunque ampiamente e freneticamente in corso, visto che, nel prologo di quella che si preannuncia come un’affluenza senza precedenti, quasi 80 milioni di americani – ovvero, il 60 per cento di quello che, nel 2016, fu il totale dei votanti – già hanno depositato la propria scheda nei centri del cosiddetto “early voting”, il voto anticipato, o nelle urne postali (i cosiddetti “ballot-box”). Sette mesi abbondanti dopo quello che fu il primo proclama di vittoria emesso dalla Casa Bianca – “it’s going to disappear, like a miracle” – gli Stati Uniti d’America hanno in realtà conosciuto un solo e non propriamente rincuorante miracolo: quello della moltiplicazione dei contagi e dei morti. Più di nove milioni i primi, più di 230.000 i secondi. Il Covid-19, la cui ritirata e “prossima scomparsa” Donald J. Trump già ha annunciato decine e decine di volte (47 secondo alcuni calcoli, più di 50 secondo altri) sta in realtà impetuosamente avanzando su tutti i fronti, regalando ogni santo giorno – e con tendenza ad una rapida crescita – oltre 90.000 nuovi contagi ed almeno 1.000 morti. Cifre orrende. Cifre che – volendo ricorrere a paragoni per molti aspetti forzati, ma che servono a rendere l’idea della tragedia – sono l’equivalente di tre 11 settembre (la data dell’attacco alle Torri Gemelle, nel 2001) ogni settimana, e ad un Vietnam (calcolando solo le vittime americane di quella guerra) ogni due mesi scarsi.

People voting in polling place

È su questo sfondo che Donald Trump va senza sosta denunciando, di piazza in piazza, la perfidia di chi questo sfondo va contro di lui narrando. E lo fa ovviamente da par suo, mai avaro in materia di menzogne – “We’re rounding the corner”, stiamo svoltando l’angolo, è la più replicata ed applaudita – e senza risparmiarsi, nel mentire, vere e proprie infamie (perché solo così, un’infamia, si può definire la sua accusa contro medici, ospedali e scienziati). Il tutto in un autoesaltante spettacolo consumato di fronte a folle che, seguendo l’esempio del gran capo, ostentatamente violano tutte le norme di distanziamento sociale.

E Biden? Che sta facendo, nel frattempo Joe Biden? Non v’è dubbio alcuno: “Sleepy Joe”, Joe il sonnolento, come Trump ama chiamarlo, si è infine svegliato dal sono nel quale mai era in realtà caduto, ed è uscito dallo scantinato nel quale mai, in effetti, aveva soggiornato. Ed in tutte le sue versioni –  quella del nonnetto dormiente e rincretinito, quella del “socialista” diabolicamente intento a “distruggere il sogno americano” e quella, l’unica che conta, del Biden vero, umanamente e politicamente imperfetto, ma lontanissimo dalle contrapposte caricature contro cui Trump dirige i suoi smodati strali – va conducendo la sua campagna sospinto dai venti di molto favorevoli sondaggi elettorali e d’una raccolta di fondi senza precedenti (167 milioni di dollari solo nella prima metà d’ottobre, oltre un miliardo e mezzo in tutto). Anche lui va, come Trump, saltando di comizio in comizio, sia pur molto meno freneticamente del rivale e, contrariamente a Trump , sempre con ostentato rispetto delle regole di sicurezza anti-virus. Una cosa però è certa: in quell’ipotetico, virtualissimo “basement”, Biden avrebbe potuto davvero restare e tranquillamente assopirsi, chiedendo ai suoi manager di campagna d’esser svegliato a scrutini iniziati. Questo per una semplicissima ragione: perché, a conti fatti, lo stesso Trump è a tutti gli effetti stato, in questi mesi, il suo più efficace propagandista.

È stato Trump, infatti che – sistematicamente descrivendolo come un povero demente – ha per lui sostanzialmente abbassato l’asticella in materia di qualità della performance politica. In questi mesi è stato sufficiente, per l’ex vicepresidente di Obama, non addormentarsi durante un discorso o un dibattito per meritarsi una promozione con lode. E nel corso del primo, indecoroso dibattito elettorale – quello passato alla storia come “the shitshow”, uno spettacolo di merda come, a caldo, lo definì una solitamente assai paludata anchorwoman televisiva – è stato ancora una volta Trump a regalargli, con la sua indecente e sguaiata aggressività, un incondizionato trionfo. Sleepy Joe non ha, in pratica, potuto parlare. E non ne ha, in effetti, avuto bisogno alcuno. Perché per lui ha parlato, o meglio, ha urlato, con straordinaria efficacia, Donald Trump. E perché per lui Donald Trump continua a urlare, ogni volta che, negando la realtà della pandemia ed insultando chi ne parla – “Covid, Covid, Covid…” – altro non fa che sottolineare la pantagruelica, arrogante inettitudine della sua risposta (o non risposta) alla sfida del virus che dice di aver sbaragliato prima come presidente e poi come paziente.

“I’m a perfect physical specimen”, io sono un perfetto esemplare umano. Questo, nei suoi quotidiani ritornelli comiziali, Trump dice (e ridice) di se stesso. Lo fa ignorando i morti e pavoneggiandosi per una guarigione ottenuta grazie a farmaci ed a livelli di assistenza medica ovviamente non disponibili per l’uomo qualunque. Fate come me, è il suo motto: affrontate il virus a viso aperto, senza paura. E molti, con più d’una buona ragione, hanno creduto di riascoltare, in questo suo autoglorificante citarsi ad universale esempio, echi della celeberrima frase – “Al popolo manca il pane? Che mangi brioche” – con la quale, in altri tempi ed in altre latitudini, Maria Antonietta si dice abbia commentato le sofferenze dei suoi sudditi. La giovanissima regina di Francia, in realtà, quelle parole – che pure molto fedelmente riflettevano il senso del rapporto tra l’ancien régime e la plebe affamata – non le pronunciò mai. Trump, invece, le ripete, instancabile, ad ogni pubblica apparizione. Saranno queste sue vanterie, come fu per Maria Antonietta, il preludio della ghigliottina? Fuor d’ogni macabra metafora: saranno queste sue smargiassate il preludio d’una sconfitta elettorale?

Impossibile dirlo. I più accreditati indici elettorali – quelli che elaborano modelli che calcolano la media dei più diversi sondaggi – continuano ad assegnare a Joe Biden un significativo vantaggio tra i 7 ed i 9 punti. Ed in vantaggio – spesso al di sopra del “margine d’errore” e con una media intorno ai 4 punti – Biden appare anche in tutti i cosiddetti “battleground state”. Vale a dire: negli stati (otto in tutto) nei quali, in virtù della molto obsoleta e stravagante aritmetica dei collegi elettorali, si deciderà la partita. La cosa è stranota, ma vale la pena ripeterla: dovessero le elezioni americane essere elezioni “normali” – di quelle dove, semplicemente, vince chi prende più voti – Sleepy Joe potrebbe tranquillamente cominciare a scrivere il suo discorso inaugurale. Ma di normale – e non solo per la stagionata bizzarria dei collegi elettorali, o per l’incombere d’una pandemia che della normalità ha alterato ogni parametro in ogni angolo del pianeta – non vi è assolutamente nulla in queste elezioni. E proprio questo – la fine della vecchia normalità – avevano del resto sancito quattro anni fa, a fronte di sondaggi non troppo diversi da quelli attuali, i risultati delle presidenziali. Il fatto stesso che un ciarlatano come Donald Trump sia potuto ascendere alla presidenza – ed alla presidenza restare per quattro anni, a dispetto delle prove di inettitudine che ha fornito con quotidiana ed incorreggibile continuità – è, in sé, l’inequivocabile testimonianza d’una anormalità, o peggio, d’una nuova normalità destinata a durare nel tempo, perché sintomo d’una crisi della democrazia cominciata ben prima di Trump ed oltre Trump destinata ad andare.

Donald Trump è, di gran lunga, il più impopolare presidente della storia Usa, l’unico i cui indici di gradimento mai abbiano raggiunto il 50 per cento. Ed è l’unico presidente che si sia sistematicamente rifiutato di rispondere positivamente a chi gli chiedeva se fosse disposto ad accettare un’eventuale sconfitta nelle urne con un conseguente, pacifico passaggio dei poteri. Anzi: è l’unico presidente al quale sia stato necessario – in virtù di atteggiamenti caricaturalmente simili a quelli dei più vieti dittatorelli da repubblica delle banane – rivolgere una simile domanda. Di più e di peggio: Donald Trump – questo Trump impopolare ed impresentabile, un personaggio da rotocalco le cui ambizioni politiche erano, fino a ieri, oggetto di scherno – è oggi un imprescindibile pezzo d’America. Il suo indice di approvazione all’interno della base repubblicana non è mai sceso, in questi quattro anni, al di sotto del 95 per cento. Trump può perdere le elezioni. Il trumpismo resta.

Di certo c’è questo. Gli americani stanno, in questi giorni, votando come mai hanno fatto nella loro storia. E in questa nuova normalità tutto – davvero tutto – può succedere. Tutto potrebbe esser deciso (o non deciso) da una manciata di voti in un singolo Stato (gli occhi sono puntati, in particolare, su Pennsylvania e Florida). Biden – dovessero i sondaggi rivelarsi corretti – potrebbe non solo vincere, ma vincere alla grande (per “landslide”, come si usa dire) cambiando per molti anni a venire l’intera mappa politica, con i democratici di nuovo al comando non solo alla Camera, ma anche al Senato. E, per contro, tutto potrebbe, alla fine – come già nel 2000 – esser deciso da una Corte Suprema all’interno della quale, con losche manovre (vedi la recentissima, frettolosa e scandalosa nomina del giudice Amy Coney Barrett) i repubblicani si sono assicurati una solida maggioranza. Tutto potrebbe essere l’inizio (o la fine) di tutto.

Martedì notte comincia – o non comincia visto che Trump e i repubblicani si preparano a contestare gran parte dei voti per posta – lo scrutinio. Come finirà (e se finirà) nessuno può prevederlo. Quasi sicuramente, tuttavia, non sarà un viaggio tranquillo. Meglio allacciare le cinture di sicurezza.

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