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Sunday, December 22, 2024
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“All is well”: Trump è caduto nella trappola irachena

 “All is well”, tutto va bene. Questo, martedì scorso, in una delle sue tipiche “twittate” notturne, ha scritto Donald J. Trump dopo gli attacchi missilistici lanciati dall’Iran contro due basi aeree USA – quella di Erbil e quella di Al Asad – situate in territorio iracheno. E questo il presidente degli Stati Uniti d’America ha sostanzialmente ripetuto, la mattina dopo, in un ufficialissimo “messaggio alla Nazione”. Non ci sono stati né morti né feriti, ha detto Trump. Subito aggiungendo, con l’affettata sicumera di chi tutto ha sotto controllo: “Sembra che l’Iran abbia deciso di tirarsi indietro (stand down) e questo è un bene per tutte le parti interessate e per il mondo”. Ergo (volendo riassumere in tre semplici parole il suo proclama) abbiamo vinto noi. O meglio: ho vinto io.

In quanti gli hanno creduto? Probabilmente nessuno, a cominciare dagli alti gerarchi – il sempre molto compunto vicepresidente Mike Pence, l’imponente segretario di Stato Mike Pompeo, il segretario alla Difesa Mark Esper e militari di vario grado – che, in divisa ed in abiti civili, erano schierati alle sue spalle. E piuttosto ovvie, in generale e, ancor più, nello specifico, appaiono le ragioni di tanto (più o meno ben dissimulato) scetticismo. Donald Trump notoriamente è – come ben documentato da tutti gli specialisti di fact-checking – un bugiardo cronico la cui quotidiana media di menzogne, impensabile prima del suo arrivo alla Casa Bianca, ha ormai superato la dozzina (oltre 15.000 balle catalogate in quasi tre anni di presidenza). Ed una classica manifestazione di questa patologia – da qualcuno definita sindrome del “carnival barker”, dell’imbonitore da baraccone – è proprio lo schema a tre fasi (o, per l’appunto, il trucco da baraccone) da lui nuovamente esposto nel suo “messaggio alla Nazione”. Prima fase: creare una del tutto innecessaria crisi. Seconda fase: fingere di risolverla riportando il tutto ad uno stato di cose uguale o, più spesso, peggiore di quello preesistente. Ed infine, terza fase: dichiararsi vincitore entusiasticamente cantando le lodi di se medesimo.

E vittoria, va da sé, è quel che il presidente USA ha di nuovo cantato lo scorso mercoledì. Entrato spettacolarmente in scena attraverso una porta volutamente aperta in controluce – come si trattasse della miracolosa apparizione d’un santo – Donald Trump ha esordito, ancor prima di dare il buongiorno ai presenti ed alla Nazione, con una perentoria affermazione: “Fino a quando io sarò presidente, all’Iran non verrà consentito avere armi atomiche”. Ed ha quindi proseguito celebrando il suo personale trionfo lungo le linee d’una ferrea logica trumpiana. In sostanza: La decisione di assassinare Qassam Suleimani – un uomo le cui mani “grondavano sangue” – ha funzionato alla perfezione. L’Iran si è, come sopra già riferito, “tirato indietro” – questo riferito ad un rivale che ha appena lanciato 22 missili contro due basi militari – ed ora non ha altra scelta che negoziare un nuovo trattato che definitivamente cancelli quello, orribile, a suo tempo sottoscritto con Obama (che per Trump è, notoriamente, il male assoluto). Grazie a me, ha aggiunto Trump sparando un’ultima frottola (una di quelle che con più frequenza ripete), l’America ha le forze armate più poderose ed invincibili di sempre. Le ha, ma preferirebbe non usarle. Che l’Iran faccia, pertanto, bene i suoi calcoli. Ed altrettanto facciano le potenze – l’Europa, la Russia, la Cina – che hanno a suo tempo seguito il malvagio Obama lungo la china del precedente accordo con Teheran. Questo è quanto. E che Dio benedica un’America che, già benedetta dalla guida di tanto presidente (buona parte del messaggio è stata dedicata ai grandi, anzi, agli storici successi conseguiti negli ultimi tre anni), altro non può che sentirsi “piena di gratitudine e di felicità”, “grateful and happy” per come vanno le cose…

Davvero? Dovesse l’analisi limitarsi alla conta dei morti ed al fatto che, stando all’opinione di molti esperti, Teheran ha sparato i suoi missili contro le basi USA, proprio con l’intenzione di non fare vittime – o, comunque, di non provocare una strage e, con una strage, un’immediata escalation del conflitto – la risposta potrebbe essere, con qualche sforzo, positiva. Ma è davvero questa, come Trump con tanta prosopopea sostiene, la prova che l’Iran ha “deciso di tirarsi indietro”? O che i pericoli di guerra esaltati dall’omicidio di Qassem Suleimani vanno, a questo punto, scemando in direzione di nuove e luminose soluzioni diplomatiche? In nessun modo. Vero è, anzi, che per avere un’idea appena realistica dello stato delle cose occorre rovesciare come un guanto la retorica trumpiana (retorica peraltro piuttosto balbettante, essendo il presidente da par suo ridicolmente scivolato, leggendo dal teleprompter, su una manciata di non proprio impronunciabili parole, quali “tolerated” e “accomplished”).

Basta, per questo, ascoltare quanto vanno dicendo quelli che, stando a Trump, andrebbero in queste ore “tirandosi indietro” (lanciando missili). L’attacco contro le basi aeree di Erbil e Al Asad, ha fatto sapere l’ayatollah Ali Khamenei, è stato uno “schiaffo in faccia” agli Stati Uniti d’America. O, più esattamente, il primo d’una lunga serie di schiaffi a venire al cui termine vi è un luminoso traguardo: quello della cacciata di questi ultimi dalla regione mediorientale. Nuovi negoziati? Nulla, nell’imprevedibile calderone del Medio Oriente, può ovviamente essere escluso a priori. Ma quel che oggi si legge – letteralmente, sopra, sotto o tra le righe – nelle parole dell’Ayatollah, va a tutti gli effetti in direzione diametralmente opposta. E questo per molte buone ragioni. L’idea – da Trump e dai suoi ripetuta fino alla noia – che l’omicidio di Qassem Suleimani fosse un modo, non per cominciare, ma per evitare una guerra è sempre stata intrinsecamente, ridicolmente contradditoria. Uccidendo il capo delle milizie Quds – le cui mani davvero grondavano sangue quanto quelle da Trump ripetutamente strette di molti altri signori della guerra mediorientale – non hanno affatto indebolito l’Iran. Lo hanno al contrario rafforzato e riunificato. O, più precisamente: hanno – alla luce del “martirio” di Suleimani che, peraltro, dentro l’Iran, era considerato un riformista – rafforzato la sua guida ultra-conservatrice nel momento in cui forti movimenti di protesta, in Iran e in Irak, la andavano questionando.

La guerra è davvero cominciata. È cominciata a piccoli passi – c’è chi sostiene che l’Iran abbia preventivamente avvisato dell’attacco i comandi militari Usa – per non provocare prematuri colpi di coda del “Grande Satana”. È cominciata e sarà, grazie al “salvifico” omicidio di Suleimani, una guerra che gli USA dovranno ora – con le loro “forze armate più poderose ed invincibili di sempre” – combattere in un contesto molto più ostile di quanto già non fosse. Ancor peggio: dovranno combatterla in un Paese – paradossalmente lo stesso paese da loro creato con l’invasione del 2003 – che ora apertamente ripudia la loro presenza.

Il Parlamento iracheno ha – proprio sulla scia della morte di Suleimani – votato a grande maggioranza una mozione che reclama il ritiro delle truppe Usa dal paese. Questo, nel suo messaggio alla Nazione, Trump non lo ha ovviamente ricordato. Ma, riecheggiando confuse tesi isolazioniste che sono sempre state parte del suo molto frugale bagaglio ideologico, ha sottolineato come gli Stati Uniti possano andarsene quando e come vogliono. Grazie a me, ha detto il presidente Usa in un’ennesima testimonianza di personale modestia (e sparando, ovviamente, un’ennesima balla), l’America ha raggiunto la piena indipendenza energetica e non ha bisogno alcuno del petrolio mediorientale. Il problema tuttavia è che, a questo punto, ogni ritirata equivarrebbe, non a una esaltazione dell’ “America first”, o dell’ “America only”, ma a una umiliante sconfitta.

Non v’è dubbio alcuno: con l’omicidio di Suleimani gli Usa si sono infilati nella trappola irachena. E venirne fuori non sarà affatto facile. Qualcosa, stavolta, non ha funzionato nell’autoesaltante schema a tre fasi (o nel trucco da baraccone) che ha fin qui scandito gli epocali successi della presidenza Trump. Ma come e perché il presidente Usa si è infilato nel tunnel senza uscita dell’omicidio di Qassam Suleimani? A questa domanda proverò a rispondere in un prossimo articolo. (segue)

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