Nato ed educato per diventare presidente, il premio Nobel per la Pace, e sempre vissuto in bilico tra convenienza politica e passione per i destini del pianeta – Sconfitto come politico nella tragicommedia della Florida nell’anno 2000, ha ritrovato la parte migliore di se stesso
12 maggio 2008
di Massimo Cavallini
Chissà, forse hanno davvero ragione quanti – e non son pochi – vanno in queste ore sostenendo che le più grande e gioiosa tra le molte feste chiamate a celebrare il “prestigioso riconoscimento” assegnato ad Al Gore, si svolgerà in quel di The Hamptons, nella lussuosa magione che i Clinton (Bill e Hillary) abitano da quando, giusto a cavallo tra i due millenni, hanno dovuto lasciare la Casa Bianca. E ciò non solo, e non tanto, per gli antichi e notissimi vincoli di contiguità politica (anche se non sempre di specchiata amicizia personale) con quello che fu, per otto anni, il “loro” vicepresidente; quanto per l’ovvia ragione che i premi Nobel per la Pace non partecipano a corse presidenziali. Anzi, non partecipano a corse di sorta, come tutti coloro che, illuminati da qualsivoglia “premio alla carriera”, si vedono – volenti o nolenti – sollevati al di sopra delle parti, in un limbo di splendida, ma tutto sommato innocua grandezza.
Nei non frequentissimi casi in cui escono dal mondo della politica, infatti, i Nobel per la Pace sono per antonomasia – e se non lo sono lo diventano – degli “ex”. Ex presidenti come Jimmy Carter (il quale, criticatissimo quand’era “sul trono assiso”, è oggi, forte del premio, pressoché unanimemente considerato il miglior “ex-presidente” della storia d’America). Ex segretari generali dell’Onu, come Kofi Annan. Ex dittatori comunisti pentiti come Michael Gorbachov. Ex-cancellieri imperiali ed organizzatori (non pentiti) di golpe militari come Henry Kissinger. O, come nello specifico e ben più complesso caso di, per l’appunto, Albert Arnold Gore Jr. – un caso unico, in realtà – degli “ex vicepresidenti”. Meglio: un ex-vicepresidente e, nel contempo, ex candidato presidenziale in cerca di vendetta, anzi, di giustizia, visto che, ineccepibilmente vittorioso sul piano numerico, Gore era stato a suo tempo buggerato da un sistema elettorale e da una Corte Suprema alla prova dei fatti rivelatisi, entrambi, clamorosamente e fatalmente tutt’altro che “super partes”. Per spiegarla con le parole che il medesimo Gore usò nel suo discorso alla Convention democratica del 2004: “ Nella vita c’è chi vince e c’è chi perde. E poi c’è quella terza piccola categoria di coloro i quali lo prendono in quel posto”.
Lui, Albert Arnold Gore Jr., lo prese indiscutibilmente in quel posto. Ed in quel posto – salvo uno sconvolgente colpo di scena – la sua vittoria-sconfitta dell’anno 2000 resterà, illuminata e, insieme, congelata dal premio ricevuto. Esaltata, a suo modo, dagli otto anni di orrori e di “guerre infinite” che George W. Bush (oggi il più impopolare dei “quasi-ex” presidenti, o anatre zoppe che dir si voglia) ha regalato al mondo. Ma anche irrimediabilmente consegnata alla tragicomica memoria degli “hanging chad” e “pregnant chad” (le schede punzonate a metà) che rivelarono al mondo la balcanizzata fragilità del sistema elettorale della “più grande democrazia del mondo”. Hillary può, a questo punto, davvero festeggiare e, passato l’effetto dello champagne, concentrare i suoi sforzi nella battaglia contro il sempre più distante Barak Obama. Anche se, infatti, il comitato “Draft Gore” (recluta Gore) è ufficialmente ancora vivo ed attivo, ed anche se molti (e di variegatissima qualità) sono – da Leonardo di Caprio a Michael Moore – i nomi celebri che sostengono questo sforzo d’arruolamento nella battaglia presidenziale, il grande ritorno non ci sarà. Non ci sarà “vendetta”. E se giustizia infine verrà, sarà per mano di Hillary (o di chi, in un’improbabile conclusione delle primarie, Hillary riuscirà a battere).
Bizzarra storia quella del premio Nobel per la Pace Al Gore. Bizzarra perché proprio questo premio ricevuto per “meriti ecologici”, suggella, in verità, una vicenda umana e politica tutta vissuta in un fragile equilibrio tra passione e destino. La passione (romantica per molti aspetti) per le sorti del pianeta Terra (e per quelle dell’umanità) ed un destino che, per volontà paterna, lo voleva presidente. Negli ultimi otto anni dello scorso millennio, le cronache politiche hanno spesso rimarcato la differenza-similitudine che, da un punto di vista biografico, legava e, insieme, separava i due baby-boomer – Bill ed Al – che sedevano sui due più alti scranni del mondo. Il primo, Bill, aveva autonomamente ed inflessibilmente deciso che sarebbe diventato presidente quando, a 16 anni, aveva incontrato John Kennedy nel corso d’una manifestazione nel Rose Garden della Casa Bianca. Il secondo, Al, erede maschio di Albert Gore Senior, senatore del Tennessee, era venuto al mondo, per volontà paterna, già “presidenziabile”, un predestinato figlio della politica. O meglio: figlio delle ambizioni presidenziali del padre, stroncate dalla sconfitta che, nel 1968, aveva chiuso la corsa per la sua quarta rielezione a senatore. Erano gli anni in cui la “ribellione” razzista di George Wallace andava frantumando il partito democratico negli stati del Sud. Albert Gore, uomo ferocemente ambizioso ma di solidi principi, s’era schierato dalla parte dei diritti civili ed aveva perduto. Fu quel giorno che la fiaccola metaforicamente e definitivamente passò nelle mani dell’allora 22enne Albert Arnold Jr., che da presidente aveva studiato fin dal giorno in cui aveva visto la luce.
Una fiaccola portata con onore, ma con evidente fatica. Nell’80, a soli 34 anni, Al Gore occupava, come il padre, uno dei due scranni di senatore del Tennessee. E nell’88 entrava nella contesa presidenziale rivelando il vizio (o la virtù?) che lo avrebbe poi per sempre perseguitato nella sua sfortunata marcia verso la Casa Bianca: una drammatica assenza di empatia, una cronica incapacità di trovare il contatto con le folle reali o televisive, di stringere mani e baciare bambini. Al Gore, il predestinato, era, in pubblico, un uomo terribilmente noioso e legnoso “’wooden Al” lo chiamavano, quasi una caricatura in un mondo dove la “presenza mediatica” era, ormai, un indispensabile accessorio. Perse abbastanza malamente le primarie vinte dal non propriamente irresistibile Michael Dukakis. E, nella sconfitta, ritrovò se stesso. Scrisse un libro, “Earth in Balance”, che divenne un best seller e che fece rapidamente di lui il più visibile degli “tree huggers” – gli abbracciatori d’alberi, come i repubblicani chiamano spregiativamente gli ecologisti – del Congresso. E fu in questa chiave di centralità della questione ambientale che, per molti aspetti, Al rilanciò la sua carriera politica.
Poi venne la chiamata di Bill. E con quella chiamata, la necessità di “riconfluire al centro”. Ovvero: di mettere le redini alle sue passioni ecologiche, al suo, per così dire, romantico istinto di “salvatore del mondo”. Chi ha vissuto la campagna elettorale del 1992, ben ricorda come il più grande sforzo di Al Gore fosse stato, ad ogni comizio, proprio quello teso a tranquillizzare la grande palude di centro, minimizzando, limando, banalizzando e precisando le ragioni del suo credo ambientalista. E così è stato fino alla Florida dell’anno 2000, agli hanging e pregnant chad nei quali naufragarono, dopo otto anni di gavetta come vice, i suoi sogni presidenziali.
Il resto è, come si dice, pura cronaca. Il film, l’Oscar, il ritorno nel cono di luce. Quello accecante, stavolta, dei riflettori hollywoodiani. E, infine, il Nobel, la sua definitiva (salvo sorpresone) trasformazione in “ex”. O, se si preferisce, il suo definitivo incontro con la parte migliore di se stesso. Con un uomo, probabilmente, oggi felice almeno quanto Hillary. Lontano dalla politica, intesa come pura aritmetica elettorale. E lontano, infine, anche dal proprio destino. Libero, finalmente, di “salvare il mondo”.