2 dicembre 2009
Di Massimo Cavallini
Vengo, ma me ne vado. Questo – volendo scegliere la più fulminante delle possibili sintesi – è il senso ultimo (o, per meglio dire, l’estremo non-senso) della “nuova strategia afghana” annunciata martedì sera da Barack Obama, di fronte alla molto compunta platea dei cadetti dell’Accademia di West Point ed al mondo intero. In sostanza: vengo con un fresco contingente di 30.000 uomini (tanto quanto basta per portare a quasi 100.000 il totale delle truppe Usa, il doppio rispetto ai al 2008) e, nel contempo, me ne vado, fin d’ora annunciando l’inizio del ritiro delle truppe per la metà del 2011. Con la consueta, elegante eloquenza (un’eloquenza che, a tratti, s’è fatta puntigliosa), il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America ha, dunque, vibrato un colpo al cerchio della guerra ed uno alla botte della pace. Ben visibile il primo, soltanto immaginata – perché probabilmente vuota – la seconda. Funzionerà? Riuscirà Barack Obama, fresco vincitore del Nobel, a raggiungere la pace facendo la guerra? Difficile crederlo. Difficile, anzi, è – ancor prima – capire quale guerra Obama intenda in effetti combattere, e quale pace intenda conseguire.
Una parte rilevante (la più rilevante, forse) di questo stato di confusione – o di questo tentativo di conciliare l’inconciliabile – è ovviamente di natura ereditaria. Ovvero: dipende da quel che gli otto catastrofici anni di George W. Bush ci hanno lasciato in termini di guerre incompiute. E Barack Obama, pur evitando ogni diretta polemica con il suo successore, è tornato a ricordalo martedì sera. La guerra in Afghanistan , ha detto, era stata la risposta ad un attacco che gli Stati Uniti avevano subito. Ed aveva – con l’appoggio della quasi totalità ‘ una comunità internazionale che, a sua volta, si sentiva minacciata dalla sfida del “terrorismo globale” – uno scopo precipuo: quello di catturare gli autori del massacro dell’11 settembre e di bonificare il terreno (l’Afghanistan governato dai Telebani, per l’appunto) che di quel massacro era stato il retroterra. Coronata da un fulmineo successo militare, quell’impresa era stata però abbandonata a se stessa per aprire un nuovo fronte in Iraq. Al Qaeda non venne smantellata, Bin Laden non venne catturato. E della “bonifica” annunciata – vale a dire: del piano di aiuti economici e di ricostruzione annunciato da Bush – non si vide traccia (se non – osservazione, quest’ultima, nostra e non di Obama – quella lasciata dagli indiscriminati bombardamenti aerei). Ora, mentre va chiudendosi questo conflitto – un conflitto al quale “io m’ero fin dall’inizio opposto”, ha rammentato il presidente – occorre riprendere il lavoro colpevolmente lasciato a metà. Occorre riconquistare, militarmente e politicamente, il terreno che i Talebani sono tornati a controllare, impedire che la loro influenza si estenda al Pakistan ed ai suoi arsenali nucleari; e, nel contempo, dare stabilità al nuovo governo di Karzai. Stabilità ed anche responsabilità, mettendolo, da subito, di fronte alla prospettiva d’un “cambio della guardia” temporalmente definito. Tra 18 mesi, ha sottolineato Obama, il governo di Karzai dovrà – liberatosi dal peso della corruzione e dell’inefficienza che oggi minaccia di sprofondarlo – assumere in proprio tanto i compiti di difesa militare del territorio, quanto quelli di gestione della ricostruzione.
Molti, nell’ascoltare questa proposta – già da settimane pronosticata da tutti i media – hanno fatto notare come la filosofia politico-militare esposta da Obama apparisse, nella sostanza, identica a quelle che, tra il 2007 ed il 2008, aveva ispirato il famoso “surge” della guerra irachena, ultimo atto delle avventure belliche di George W. Bush. Aumentare le truppe ora, per garantire le condizioni di un possibile ritiro, poi. Ed altri, andando più indietro nel tempo, hanno rimarcato anche un’altra – e probabilmente non del tutto casuale – coincidenza logistica: la platea prescelta da Obama per il suo primo proclama di guerra (o di guerra e pace) è stato lo stesso – l’Accademia militare di West Point – di fronte alla quale, agli albori del 2002, George W, Bush aveva esposto la sua dottrina della “guerra preventiva”. Il che ha portato a due inevitabili considerazioni che, in qualche modo, chiaramente definiscono quel che il “discorso afghano” di Barack Obama è davvero stato (o, più precisamente, quello che non è stato). Se, infatti, come appare probabile, era nelle intenzioni di Obama rimarcare, attraverso la scelta del luogo, la storica portata di una “svolta”, l’obiettivo è stato del tutto mancato dal neopresidente. Perché proprio la continuità è, in effetti, stata la vera cifra del suo discorso. La continuità, ovviamente, non rispetto alla dottrina della “guerra preventiva” o della “guerra infinita”, già sepolta dal fallimento dell’avventura irachena, quando ancora George W. sedeva alla scrivania dello studio ovale; ma rispetto ai detriti che quella concezione della politica internazionale ha lasciato sul campo. Quello che Obama ha proposto all’America ed al mondo non è, per l’appunto, stato che un nuovo “surge”. O, se si preferisce, un’illusione di pace alimentata da un estensione della guerra. Nessuna nuova “dottrina”, nessuna nuova idea capace di chiudere – e chiudere per sempre – il capitolo tragico delle guerre infinite.
Dietro il discorso di Obama c’è la realtà d’una nuova – o semi-nuova – teoria della guerra “contrinsorgente”: quella che viene descritta in un libro dal molto criptico titolo (“Army-Marines Corps Fiel Manual 3-24”) pubblicato nel 2006 dai generali David Petraeus (lo stesso che, nel nome di Bush, organizzò il “surge” iracheno) e James F. Amos. Secondo questa teoria (detta COIN, in gergo militare) la guerra (per l’appunto, quella specifica forma di guerra che è la “contrinsorgenza”) cessa d’ essere un mezzo per conseguire una (impossibile) vittoria militare, e diventa uno strumento di costruzione del consenso politico. Conquistare territorio per dare agli abitanti sicurezza, case, scuole, strade. E, per renderli, appena possibile, padroni del loro destino. Nell’Iraq dell’ultimo “surge” questa nuova teoria ha significato soprattutto una cosa: comprare – non con scuole, ospedali e strade, ma con denaro contante – la fedeltà di alcuni dei gruppi sunniti più attivi nella guerra civile innestata dal conflitto. E questo – pronosticano molti esperti di cose militari – è probabilmente quel che accadrà (o che si cercherà di far accadere) anche in Afghanistan, dove il vero e più immediato problema è quello di separare la parte meno ideologizzata dei Talebani da Al Qaeda, nonché, più in generale, quella di garantirsi – oltre ogni considerazione d’ordine etico-politico – l’alleanza della maggioranza dell’etnia Pashtun lungo l’immensa area di confine tra Afghanistan e Pakistan.
Avrà successo questa nuova strategia militare (nuova, ma non nuova abbastanza da non riecheggiare analoghe teorie sprofondate nel del Vietnam) ad avere successo? È possibile. Ma certo è che, martedì sera, Barack Obama non è riuscito a collocare tutto questo in un nuovo contesto, ad aprire un nuovo capitolo. Quello che ha detto non era, oltre il fascino delle parole, che l’appendice d’un vecchio libro, parte d’un antico e macabro copione. Nell’annunciare la sua decisione di preparare la pace facendo la guerra, il presidente del “yes, we can” è parso più che mai perduto nella terra di nessuno di un centrismo senz’anima, ancora prigioniero della ricerca d’un equilibrio tutto interno alla logica della vecchia politica che aveva promesso di cambiare. Forse – considerata la perdurante realtà dei rapporti di forza – era inevitabile che così fosse. E forse quello che Obama ha mostrato a West Point è davvero – a dispetto delle apparenze – un passo verso qualcosa di nuovo e di migliore. Ma per il momento, la guerra continua. Come recitava il titolo di un bellissimo libro di Erich Maria Remarque: nulla di nuovo sul fronte occidentale….