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Affonda nel Golfo la popolarità di Obama

8 giugno 2010

di M.C.

 

“Black Man Given Nation’s Worst Job. Presidential Election Confirms Racial Labor Discrimination in U.S.”. Affidato ad un negro il peggior mestiere oggi a disposizione. Le elezioni presidenziali confermano il problema della discriminazione razziale sui luoghi di lavoro. Non c’è che dire: “The Onion”, dal 1988 instancabile produttrice di notizie satiriche, c’aveva ancora una volta paradossalmente azzeccato. Tanto che oggi, ad un anno e mezzo da quel cubitale titolo – ovvero, giunto quasi alla metà del suo mandato – Barack Hussein Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti d’America, va concretamente misurando, sotto un fuoco incrociato di critiche e di contumelie, la “discriminazione” di cui (per la verità non senza personali responsabilità) era rimasto vittima in quel fatidico novembre del 2008. Ed al punto che qualcuno vede addirittura approssimarsi, per lui, quello che la politologia corrente definisce un “Carter moment”; o, più precisamente, un irreversibile punto di svolta, l’avvio d’una crisi di credibilità senza ritorno (come per Carter fu, per l’appunto, la crisi degli ostaggi in Iran nel 1979). Ormai non c’è dubbio alcuno: il “mestiere” che gli americani hanno affidato ad Obama, in un’elezione correttamente definita “storica”, era davvero il più ingrato a disposizione. Ed è indiscutibilmente con altrettanta ingratitudine che l’America sembra oggi giudicare la perfomance presidenziale del primo afro-americano entrato alla Casa Bianca.

A far precipitare i suoi indici di popolarità – che, in verità, avevano cominciato a scendere dal giorno successivo alla cerimonia d’inaugurazione – ha dato un decisivo (ed i più pessimisti dicono addirittura definitivo) contributo , quello che viene oggi, a buon diritto, considerato il più grave disastro ambientale della storia d’America. Vale a dire:  la catastrofica fuoruscita di petrolio al largo del Golfo del Messico, per gran parte dei media diventato – con ovvio riferimento alla disastrosa reazione di George W. Bush all’uragano che, nell’agosto del 2005, colpì la città di New Orleans – “the Obama’s Katrina”, il Katrina di Obama. Il paragone è – da un punto di vista razionale – ingiusto e, per taluni aspetti, persino ridicolo. Quella del 2005 era a tutti gli effetti stata una  classica “tragedia annunciata”. L’uragano aveva impiegato più d’una settimana per raggiungere, attraversate le calde acque del golfo, le coste della Louisiana e del Mississippi, concedendo alle autorità locali e federali tutto il tempo necessario per organizzare una decente evacuazione. E da almeno una decina d’anni si sapeva – senza che alcun provvedimento fosse stato preso – che il sistema di argini che difendeva New Orleans non era in grado di reggere, in una zona  colpita da un uragano in media ogni cinque anni, la forza di uragani superiori alla categoria 2. La FEMA – l’agenzia federale chiamata a far fronte ai disastri naturali, considerata un gioiello d’efficienza sotto Clinton – era stata semi-smantellata dall’Amministrazione Bush ed affidata ad un “amico degli amici”, un tal Michael Brown il cui più alto incarico era in precedenza stata la gestione d’un allevamento di cavalli arabi. E chi ha un’appena discreta memoria ben rammenta come proprio il complimento pubblicamente rivolto da Bush al capo della FEMA –  “helluva job, Brownie”, un gran lavoro Brownie – avesse infine dato, sullo sfondo d’una città devastata, il senso della quasi surreale inettitudine del governo.

Nulla del genere può, ovviamente, essere imputato ad Obama. La tragedia della piattaforma Deep Horizon non è stata debitamente prevista, non per mancanze dell’attuale Amministrazione, ma per un sistema di complicità tra pubblici poteri e potentati petroliferi che non può, nella sua molto stagionata natura, in alcun modo essere ascritto agli ultimi arrivati. Anzi: che in gran parte è responsabilità proprio di quanti sono, oggi, tra i più visibili e chiassosi critici del presidente. A cominciare da quei repubblicani che, nel 2008, proprio all’insegna dello slogan “drill, baby, drill”, trivella, baby, trivella, avevano fatto campagna contro l’Obama “smidollato ambientalista”. O da chi – come George Bush ed il suo vice Dick Cheney, entrambi “oilmen”, uomini del petrolio – avevano, negli otto anni del loro governo, portato a perfezione, nei rapporti tra governo ed industria petrolifera,  il sistema della cosiddetta “revolving door”, la porta girevole. Ossia: quel metodo di perpetua “intercambiabilità” tra regolatori e regolati che ha aperto la strada al disastro.

Alcune delle critiche ad Obama sono in effetti andate, in questi giorni, ben oltre i limiti della decenza. Un esempio: giorni fa Neil Cavuto, molto aggressivo anchorman di FoxNews, non ha esitato, nella sua ansia di commentare l’ “Obama’s Katrina”, ad intervistare chi? Ma sì, proprio lui, Michael, Brown, l’allevatore di cavalli arabi. Ed è possibile che, scemati i venti della rabbia popolare e tradita dalla propria sfacciataggine, quest’orgia d’ipocrisia finisca – come qualche commentatore già s’azzarda a prevedere – per volgersi a vantaggio dello stesso Obama. Dopotutto è vero: nessuno di coloro (cioè di quasi tutti) che oggi si scagliano contro il presidente, è stato fin qui in grado di dire che cosa, a conti fatti, Obama avrebbe dovuto fare e non ha fatto per affrontare una tragedia il cui tragico nocciolo sta proprio nel fatto che – grazie al prevalere della logica del profitto sulla logica della vita – nessuno sa oggi che fare per fermare la marea nera.

E tuttavia un fatto è certo: in politica, la percezione conta, E, spesso, conta anche più dei fatti. Come in questo caso. Perché è un fatto che, in termini di percezione, Barck Omaba è, in queste settimane, rimasto sempre un passo indietro alla realtà. È un fatto che – pur facendo tutto quello che doveva fare – non è riuscito a dare l’immagine di leadership (o a porgere il lato “paterno” del proprio essere, come la columnist Maureen Dowd ha scritto sul New York Times) che il paese andava reclamando. Magari facendo ricorso – come brutalmente suggeritogli da James Carville, uno dei grandi artefici della vittoria di Clinton nel ’92 – ad un pizzico di demagogico populismo. Obama, in questi giorni, non è stato “padre”. È stato ancora una volta “professore”. E, nel caso specifico, un professore poco convincente, persino un po’ noioso, assente. Con conseguenze che appaiono – non solo per lui – davvero sconfortanti. Giusto o ingiusto che sia, è un fatto – impietosamente registrato dagli ultimi sondaggi – che gli americani hanno oggi una percezione della risposta del governo di fronte alla marea nera del Golfo del Messico, ancor più negativa di quella che, cinque anni fa, fece da contrappunto al fallimento di Bush dopo l’uragano Katrina. E tutto questo, nel momento in cui Obama sperava di poter raccogliere, finalmente, i frutti d’un primo anno di governo molto criticato ed impopolare, ma anche straordinariamente pieno di risultati. I primi, concreti benefici effetti della sua “storica” riforma sanitaria – descritta dai suoi nemici come una sorta di “apocalisse collettivista” – stanno per farsi concretamente sentire. La riforma della finanza è ormai alle porte. L’economia sta uscendo traballando (e senza creare impiego) dalla più grave crisi del dopoguerra. Ed avrebbe bisogno di tutta l’attenzione di chi governa e di chi è governato. Ma tutto questo è stato, come le spiagge e le paludi della Louisiana, sepolto sotto la marea di petrolio.

La domanda è: riuscirà Obama ad evitare che questo brutto momento si trasformi in un “Carter moment”? Riuscirà – riprendendo “The Onion” – ad evitare d’esser travolto dal “peggior mestiere oggi a disposizione”? Come anticipavano i fumetti d’un tempo: sarà ciò che sapremo alla prossima puntata. Ma certo è che, per scacciare il fantasma d’una sua “crisi degli ostaggi”, Obama avrà bisogno d’una proposta forte. Forte quanto la speranza che, un anno e mezzo fa, l’aveva portato alla Casa Bianca.

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