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Addio, spaccone

Due anni fa, Gabriella Saba, trascorse con Paul Newman un’intera giornata nel centro per bambini malati che l’attore stava creando nelle campagne intorno a Pistoia. Lo ripubblichiamo per ricordare l’attore morto ieri. E l’uomo si celava dietro i molti personaggi da lui portati sullo schermo

 

27 settembre 2008

 

Avrei voluto raccontargli di quando, a otto anni, gli avevo scritto per chiedergli di sposarmi. “Adesso sono piccola, però cresco”, diceva la lettera indirizzata a “Paul Newman, Hollywood” e di cui avevo aspettato la risposta per mesi. Sono cresciuta ed è cresciuto anche Paul Newman, ma adesso che me lo trovo davanti mi sento timida come se avessi ancora quell’età e non solo perché se uno è stato un Mito continua a esserlo anche a 81 anni nonostante le usure del tempo. Ma anche perché basta guardarlo ora per capire che quelle ormai sono fesserie, sono storie vecchie e che Newman non è più quel Newman e non gliene frega niente di donne imbesuite secoli fa per i suoi occhi liquidi, specialmente se bambine.

Un sole estivo illumina la campagna intorno a Pistoia, prati in fiore e cavallini avellinesi accolgono l’attore accaldato che arriva al Camp con un’ora di ritardo perché si è fermato a Maranello a provare una Ferrari.

La seconda vita di Paul Newman. Ci tornerà, dice, perchè non gli è piaciuto come ha preso una curva. La terza vita è quel villaggio che sta nascendo nel cuore della campagna toscana – venti ettari nei mille e rotti della tenuta agricola che un tempo fu della Smi guidata da Luigi Orlando – e sarà il dodicesimo dell’associazione The Hole in the Wall: campi vacanze in cui i bambini affetti da malattie gravi e croniche possono giocare e divertirsi gratis per una o due settimane e far finta di non essere malati mentre i medici fanno finta di non essere medici e tutto è una bella fiaba che si svolge tra prati e sequoia e laghetti come nelle fiabe vere. Il modello l’ha inventato lui, il primo Camp l’ha fondato nel Connecticut nel 1988 e da allora ne sono nati un po’ in tutto il mondo, l’ultimo è questo a Limestre, provincia di Pistoia che sarà pronto nel giugno del 2007 e di cui per ora si vede poco: grandi edifici d’epoca da trasformare, prati e boschi abitati da daini e mufloni, con vista sull’Abetone e, se si sale più in alto e il cielo è chiaro, fino al mare e alle Alpi.

Una piccola folla euforica si materializza dal nulla quando Newman scende dall’auto in maglia bianca, jeans e scarpe da tennis e benché sia di gran lunga il più minuto di quelli che arrivano con lui siamo tutti disposti a giurare che irradi luce, offuscando gli altri. Tre giornalisti locali vengono gentilmente avvertiti che potranno partecipare al buffet ma solo gli inviati di Diario sono autorizzati a unirsi al tour del villaggio insieme all’attore (discretamente però, che vuol dire niente interviste). La piccola folla in giacca e cravatta segue il Mito a mo’ di codazzo fino alla sala della grande villa che per l’occasione è stata adibita a sala da pranzo, qualcuno scatta foto. Mi informano che si tratta delle autorità locali, presidente della Provincia e questore e sindaci dei paesini fino a un’ora e mezza dalla tenuta come Umberto Sereni sindaco di Barga in provincia di Lucca, che di lavoro fa il professore ordinario di Storia contemporanea, parla come Benigni e grida contento: “L’è una bella cosa, la generosità è la medicina della vita”. E’ allegro per Newman e per il Sangiovese che scorre abbondante. Guardo il Mito che si serve sobriamente al buffet e si dirige a passettini verso il giardino e faccio per seguirlo ma mi scontro con il responsabile della sicurezza dei lavori che proprio quel giorno fa il compleanno. Brindiamo ai 42 anni di Stefano Finetti che sembrano trenta ma nel frattempo il Mito ha guadagnato un tavolo al sole in cui mangia circondato dai suoi amici e dai responsabili del progetto: Vincenzo Manes detto Enzo presidente di Dynamo, la fondazione che si occupa di trovare i finanziamenti per il villaggio e di fornire i supporti tecnici (è una branca dell’imprenditoria sociale che si chiama venture philantropy), Francesca Orlando figlia di Luigi in tailleur chiaro e capelli non si capisce se biondi o bianchi, i due americani del Board Ray Lamontagne che fa il presidente e Bob Forrester. Manca Jeanne Woodward compagna di vita del Mito dal 1958 e amata fedelmente da allora.

Qualcuno che si definisce molto bene informato mi indica l’architetto del Camp, molto charmant in mise casual raffinata. “E’ un polacco che si è trasferito in Italia per lavorare al villaggio”. Mi avvicino al polacco e gli chiedo da quale città della Polonia arrivi, mi risponde che si chiama Nedo Ferrari ed è di Pistoia. E’ contento che Newman abbia definito quel villaggio il più bello d’Europa, parla dell’enorme impegno morale che comporta un progetto di quel genere: bisogna che le strutture siano adatte a tutti i bambini per non creare discriminazioni verso quelli che possono muoversi meno, e abolire le barriere architettoniche. Vengo a sapere che per quel lavoro non ha chiesto un soldo.

Le autorità vogliono la foto insieme al Mito, ma sono troppi e devono dividerli in scaglioni. Nel secondo il sindaco di Barga sorride all’obiettivo abbarbicato all’attore, poi c’è la foto con i carabinieri.

Squillano i cellulari, diciamo a tutti adesso non posso, scusa, sono con Paul Newman.

Da lontano il geometra Orlandini in rayban e camicia bianca avvisa me e il fotografo che comincia il giro del villaggio a cui Newman ha donato un milione di dollari e si presume voglia vedere come andranno usati (e però non è solo questo. Come ci spiega Marcello Gallo del consiglio d’amministrazione di Dynamo, Newman è contento di venire copiato ma, nota del redattore, vuole essere copiato bene). Mi affianco all’attore che si affianca a Manes e mi accorgo che arranco per tenere il passo del Mito, speditissimo nonostante gli anni. Tra Manes e Newman è tutto un battersi manate sulla schiena e lanciarsi battute ma standogli così appiccicata (anche se non c’è verso che si giri verso di me nemmeno per sbaglio) mi accorgo che l’attore è timido. “Abbiamo sbagliato strada”, scherza alla fine di un sentiero in cui una freccia indica la direzione opposta, e tutti ridono. Manes lo sfotte per essere il peggior pescatore della costa atlantica. Sta lì ore ad aspettare con la canna in mano, spiega l’imprenditore, e non c’è verso che i pesci abbocchino. Anche il Mito ride, in una certa maniera discreta.

Gli mostrano i vecchi edifici in fase di ristrutturazione, grandi e con la alte volte, gli spiegano qui ci sarà la mensa e qui il teatro, il centro medico, qui le camere per i bambini, qui i laboratori. Lui guarda e commenta piano: “Bello, magnifico”. E’ incantato dal posto, dice “E’ un posto magico”. I tre giornalisti locali spuntano da chissà dove, dovevano essersi nascosti in mezzo ai cespugli. Li mandano via in malo modo ma dopo un minuto sono di nuovo lì, discretissimi ma determinati come mastini (per inciso, si chiamano Cristiano, Lara e Piero e hanno scritto poi dei pezzi bellissimi).

Intercetto il mito in uno dei rarissimi momenti in cui è solo. Gli chiedo cosa pensa di questo villaggio mister Newman, lui guarda un punto indefinito dietro di me e dice “Yes”. Pensa che i bambini possano essere felici qui? Sorride e risponde: “Thanks”. Mi spiegano che non sente bene ma io non ci credo. La colpa è sicuramente mia e del mio inglese spregevole.

Quando arriviamo al laghetto chiede una canna da pesca, ma al terzo lancio la lenza si ingarbuglia. Lui dice: “I don’t understand”, si siede su un patino che giace lungo la riva, guarda stranito davanti a sé, ha l’aria stanca, la pelle arrossata dal sole sembra filigrana. Cerco gli occhi del Newman di un tempo in quello sguardo appesantito ma non li trovo. Cerco l’arroganza irresistibile de Lo spaccone, la sofferenza interiore de La gatta sul tetto che scotta, il sorriso rassicurante di tutti i film, in altre parole cerco Paul Newman ma non c’è più, non c’è quel Paul ma ce ne è un altro che non piagnucola sulla bellezza perduta e se ne frega di quella bellezza ma fa altre cose belle e importanti e per questo, anche per questo, è un Mito.

Mi avvicino con una copia di Diario e gli dico: “Questa è una rivista liberal Mister Newman, ci piacerebbe farle una foto mentre la sfoglia”. E lui vecchio liberal No, no, non sono qui per fare political statements, sono qui per il villaggio. Non importa Mister Newman, dico a lui e intanto penso tanti auguri a lei e ai suoi bambini, auguri di cuore anche se non si è fatto fotografare con Diario e in quarant’anni non ha mai risposto alla mia lettera.

 

 

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