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Tuesday, November 19, 2024
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“A big fu…ing deal”

“The era of big government is over”. L’epoca del grande governo è finita. È, questa frase, vecchia ormai d’un quarto di secolo. Ed a pronunciarla nell’apertura del suo State of the Union Address (l’annuale rapporto di fronte al Congresso) fu, come molti ricorderanno, William Jefferson Clinton, primo presidente democratico eletto, nel novembre del 1992, al culmine di 12 lunghi anni – otto sotto Ronald Reagan e due sotto George H. Bush – d’assoluto predominio repubblicano. Era il febbraio del 1996 e questo era il panorama politico. La presidenza Clinton aveva appena varcato, tra mille tormenti, il suo secondo anno di vita, scandito dall’umiliante fallimento della sua riforma sanitaria – colpita ed affondata, anche da “fuoco amico”, quando ancora si trovava in darsena – e da una catastrofica sconfitta nelle elezioni di mezzo termine. Guidati da Newt Gingrich (per molti aspetti un precursore del trumpismo), i repubblicani avevano riconquistato a valanga la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. E già andavano assaporando un trionfale ritorno alla Casa Bianca nel nome d’un nuovo “Contratto con l’America”. O, più in concreto, d’una piena riaffermazione di quella “reaganomics” – il neoliberalismo spinto di cui Reagan fu il più visibile e poderoso portabandiera – i cui ruvidi fondamenti Clinton originalmente aveva, con molta timidezza, cercato d’addolcire.

Welfare restava, in quell’America, una sorta di parolaccia. E – come amava ripetere Ronald Reagan – il governo (o lo Stato, come si direbbe da noi), più che mai rappresentava “non la soluzione, ma il problema”. Più che un problema, anzi, lo Stato era allora una minaccia, un pericolo. Per l’uomo che governò gli USA lungo quasi l’intero decennio degli ’80, la più terrificante frase che un cittadino potesse ascoltare notoriamente era: “I’m from the government, and I’m here to help”, Vengo da parte del governo e sono qui per aiutare. E non v’è dubbio: proprio questo era allora, non solo senso delle parole di Bill Clinton, ma un ormai affermato “senso comune” dell’intero arco politico. Chiusa, e chiusa con una debacle elettorale, la pagina d’un riformismo al tempo stesso velleitario e trepidante, il nuovo presidente ne apriva, con il suo discorso, una completamente nuova (se “nuova” si può definire una molto piatta accettazione dello status quo): quella – a lui, leader dei “new democrats”, in effetti molto più congeniale – della “triangolazione”. Ovvero: dell’arte di governare dispiegando i temi e le idee, non importa di quale parte politica, giudicati più in sintonia con lo spirito dei tempi.

“Gli elettori hanno parlato – disse Clinton in quel suo discorso – l’epoca del grande governo è finita”. E quindi, triangolando, varò una riforma del welfare – ufficiosamente ribattezzata “the end of the welfare as we knew it”, la fine del welfare così come l’abbiamo conosciuto – che tagliava gran parte dei sussidi ai più poveri varati, alla metà degli anni ’60, dalla Great Society di Lyndon Johnson. Fu su questa base che, due anni più tardi, Clinton tornò a vincere la corsa alla Casa Bianca. Il Partito repubblicano era stato sconfitto. Ma la reaganomics aveva trionfato. E trionfato al punto da diventare, a tutti gli effetti, il vessillo della parte politica che, in teoria, ne doveva rappresentare la nemesi.

Oggi, 25 anni più tardi, un altro presidente democratico, il 78enne Joe Biden – lo stesso Joe Biden che, da 53enne senatore del Delaware, aveva entusiasticamente votato le (contro)riforme di Bill Clinton – ha firmato un programma di stimolo ed assistenza che, in risposta alla crisi generata dalla pandemia, immette nell’economia Usa una cifra enorme: 1.900 miliardi di dollari. La più grande mai stanziata dal governo (o dallo Stato) nell’ultimo mezzo secolo ed una delle più grandi di sempre. Lo ha fatto senza ascoltare le sirene di quella “unità bipartisan” che, pure, sempre fu lo stendardo della sua lunghissima carriera politica ed uno dei punti fermi della sua campagna presidenziale, ricorrendo a procedure eccezionali (la cosiddetta “reconciliation” che evita il filubustering del Senato). E, quel che più conta, lo ha fatto usando parole che, senza equivoci, rivoltano come un guanto la “filosofia” della reaganomics.

Lo Stato siamo noi

“The government isn’t some foreign force in a distant capital. No, it’s us, all of us, we the people.” Lo Stato non è una forza aliena in qualche capitale distante. Lo Stato siamo noi, noi tutti, noi, il popolo, ha detto Joe Biden nel suo primo messaggio alla Nazione, riecheggiando le due celeberrime parole, “We the People…”, del preambolo della Costituzione. Una frase che si può tranquillamente tradurre in: “the era of big government is back”, l’era del grande governo è tornata. O “lo Stato è la soluzione non il problema”. Ed un’occhiata alle cifre aiuta a capire i termini del ribaltone.

Lungo il suo breve cammino verso l’approvazione, il piano anti-Covid, ha lasciato per strada qualche pezzo. Il più importante: l’aumento a 15 dollari del salario minimo, vittima sacrificale offerta ad un paio di senatori democratici “moderati” il cui voto era, nel 50-50 dell’attuale Senato, assolutamente indispensabile. Ma quel che è arrivato al traguardo resta davvero “a big fu…ing thing”, una cosa enorme, come da molti sottolineato, riesumando (in eufemistici termini) la molto “informale” espressione con la quale – a microfoni erroneamente ritenuti spenti – un decennio fa, lo stesso Biden (allora vice-presidente) aveva commentato la riforma sanitaria di Barack Obama.

Intanto un dato: soltanto una minima parte – meno di 100 miliardi – della somma totale stanziata è direttamente destinata ai più immediati bisogni (tamponi, ricoveri, vaccinazioni) generati dalla pandemia. Tutto il resto è parte d’una inedita e gigantesca redistribuzione dei redditi verso il basso. E non si tratta solo di aiuti a chi, per la pandemia, ha perduto il lavoro. Ogni famiglia di quattro persone che vive in virtù d’un unico salario riceverà più di 12mila dollari. Gli spazi dell’Obamacare (la riforma sanitaria di Obama) vengono molto estesi. E nel complesso si calcola che, in virtù dei sussidi previsti dalla legge, la quinta parte più povera della nazione vedrà il suo reddito annuale aumentare del 20 per cento. La povertà infantile – una delle piaghe della ricca America – verrà ridotta del 50 per cento grazie a programmi assistenziali molti dei quali sono destinati a diventare permanenti.

Quella che Joe Biden ha varato, molto prima che scadessero i primi fatidici 100 giorni della sua presidenza, è, in realtà, molto più d’un piano anti-pandemia. Ed anche molto più d’una riforma. È un vero e proprio cambio di paradigma”, il totale capovolgimento di quel “trickle down” – la famosa teoria dello “sgocciolamento verso il basso” – che fu il cuore della reaganomics e del neo liberismo: date ai ricchi ed i benefici d’una economia florida solleveranno, come una marea, tutte le barche, comprese quelle più miserande. Così è stato per quattro decenni. Nata come risposta alla “stagflation” degli anni ’70 – e sviluppatasi lungo filo della “teoria della dipendenza”, ovvero della tesi che vedeva nel welfare non la soluzione ma la perpetuazione della povertà – è ai ricchi che la “reaganomics” ha dato a piene mani. Con il risultato di creare una società nella quale tutte le diseguaglianze, cresciute a dismisura, sono, a loro volta, divenute fonti di potere.

Dal “trickle down” al “trickle up”

Il meccanismo era molto semplice. Si dava, per l’appunto ai ricchi, perlopiù in termini di sgravi fiscali che aumentavano il deficit. Ed il deficit diventava, non solo la scusa per togliere ai poveri, perlopiù in termini di tagli ai programmi assistenziali, ma anche un’arma di divisione tra la tradizionale “working class”, la classe lavoratrice bianca, e gli strati più disagiati della popolazione. Ogni cosa data “loro” (via welfare) era, in questa visione del mondo, qualcosa di tolto “a noi”. Il tutto all’ombra della turpe immagine – costantemente riproposta da Ronald Reagan – della famosa “Welfare Queen”.  Donna, negra (o, comunque, “di colore”, grassa, nullafacente e parassitariamente costosa. Ultimo episodio (ed ultimo “reaganiano” regalo ai ricchi) di questa lunga storia: il taglio delle tasse elaborato, a dispetto del suo sgangherato populismo, da Donald Trump nel 2017.

Lo “stimolo anti-Covid” varato da Joe Biden ribalta completamente – in una sorta di “trickle-up”, di sgocciolamento verso l’alto – questa logica. Il principio è, adesso, questo: dare ai poveri, ridurre la forbice della diseguaglianza e tutta l’economia, colpita dalla pandemia, ne beneficerà. Tutte le barche verranno sollevate dalla marea d’una nuova idea di giustizia. Un’idea che, a sua volta, è, come a suo tempo la reaganomics, diventata senso comune. Tutti i sondaggi confermano – cosa da tempo inedita in un’America estremamente polarizzata – la grande popolarità dei provvedimenti contenuti nella legge. Quasi i tre quarti della popolazione e quasi 60% dei cittadini che, lo scorso novembre, hanno votato repubblicano, affermano, infatti, di approvarla.

Una rivoluzione? Sì, per molti aspetti. La tragedia pandemia ha rivelato tutta la fragilità – e tutta l’ingiustizia – del finto benessere (e della vera diseguaglianza) generato dallo “sgocciolamento verso il basso”. E Joe Biden, di certo il più improbabile dei “rivoluzionari”, sta cavalcando ora l’onda del cambiamento. Con quali risultati finali è impossibile dire. La sua legge anti-Covid è passata senza un solo voto repubblicano. E su nessun voto repubblicano, si può esserne certi, potrà contare in futuro. La sua attuazione dovrà, in ogni suo passo futuro, fare i conti con la realtà d’un sistema democratico in piena crisi. Ma quale che siano i suoi destini, un fatto è certo: il reaganismo è morto e le misure varate da Joe Biden ne rappresentano il necrologio, la lapide tombale. Il reaganismo è morto al punto che, in questi giorni, pur nella loro feroce opposizione alla nuova Amministrazione, neppure i repubblicani in queste ore lo difendono, riservando i loro strali a quella che va sotto il nome di “cancel culture”, formula che sta a genericamente indicare un indefinito, seppur diabolico, tentativo di cancellare l’America che fu.

Questo, in ultima analisi ci dice lo stimolo anti-Covid di Joe Biden: l’America ed il capitalismo di cui sempre è stata simbolo stanno cambiando. Ed è lecito – incrociando le dita – sperare che stiano cambiando in meglio. Comunque vadano le cose – e non è affatto detto che vadano bene – quella che giorni fa è diventata legge negli USA è davvero “a big fu…ing thing”.

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