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USA: dopo 250 anni torna lo spettro del re pazzo

È stato peggio, molto peggio, del peggio che era lecito attendersi. Peggio al punto che forte, adesso, è la tentazione di chiudere le cronache di questa cerimonia inaugurale rilevando come, a conti fatti, il discorso pronunciato ieri nella Rotunda di Capitol Hill da Donald J. Trump – già 45esimo e, da oggi, 47esimo presidente degli Stati uniti d’America – abbia di fatto chiuso il cerchio della Rivoluzione Americana. La quale, apertasi un quarto di millennio orsono con un’insurrezione contro un “re pazzo”, nelle mani di un nuovo re pazzo, democraticamente eletto, ha ora – corsi e ricorsi della Storia – ultimato la sua parabola storica.

Il primo “re pazzo” fu – come la storiografia più seria nega, ma come una reiterata leggenda insiste a raccontare – King George III, sovrano dell’Impero britannico tra il 1760 ed il 1820, al cui molto deteriorato stato mentale viene attribuita la molto repressiva e del tutto controproducente risposta (vedi il famoso Coercitive Act, nel 1773, dopo gli incidenti del Tea Party a Boston) con la quale la Madre Patria rispose ai reclami, inizialmente nient’affatto rivoluzionari, dei suoi sudditi d’oltremare. Il secondo “re pazzo” è, ovviamente, Donald Trump, che re non è – se non in forma caricaturale – ma che ieri è tornato ad esibire, oltre ogni attesa e senza filtri, il più megalomane lato della sua, già di per sé inquietante, personalità politica.

Molto meglio è, però, non perdersi dietro paralleli storici di, peraltro, assai dubbio valore scientifico – Giorgio III era, nel 1773 nel pieno delle due facoltà mentali e la “follia” di Trump va ormai assimilata come una sorta di permanente normalità politica – e venire subito al punto. Quanti, per le più diverse ragioni, s’aspettavano che il Donald Trump del discorso inaugurale in qualche misura si differenziasse dal Trump della campagna elettorale, hanno dovuto radicalmente rivedere i propri rosei presagi. E altrettanto dovranno fare, nei giorni a venire, tutti coloro – non pochi secondo i sondaggi – che per Donald Trump hanno votato proprio perché, paradossalmente, lo consideravano (e considerano) quel che in effetti è: un gran bugiardo. Ovvero: perché pensavano che le sue più estreme promesse non fossero che le boutade d’un ciarlatano, utile veicolo per una protesta contro un “establishment” le cui colpe, vere o presunte, ogni giorno misuravano negli scaffali dei supermarket o alle pompe di benzina.

Niente di tutto questo. Trump ha ribadito e replicato il sé stesso della campagna elettorale in tutto e per tutto. Comprese le parti che, per la loro sorprendente – sorprendente persino per gli elevatissimi standard della grossolanità trumpiana – già erano diventate oggetto di universale scherno, o indignazione. Su tutte la sua intenzione di riappropriarsi del Canale di Panama e la sua “fermissima” volontà di ribattezzare “Golfo d’America” quello che è oggi, anzi, è praticamente da sempre, il Golfo del Messico. Il tutto nel nome del “destino manifesto” – programma di dominio continentale lanciato nel 1825 dal presidente James Monroe come contraltare al colonialismo europeo e quindi ripreso in chiave decisamente imperialista, prima da William McKinley e poi da Theodore Roosevelt sul finire del XIX secolo – che è, sostiene Trump, parte del DNA di “questa grande Nazione”. Un destino i cui venti impetuosi la porteranno ora, ben oltre Panama ed il Golfo del Messico/America (e presumibilmente anche oltre la Groenlandia e il Canada, altro obiettivi dell’espansionismo trumpiano) anche alla conquista di altri pianeti. A cominciare da Marte. Perché, ha detto Trump, proprio questo, l’impossibile, “è quello che l’America fa meglio”.

Parole d’oro. Parole che Elon Musk, seduto in prima fila tra i dignitari presenti alla cerimonia – posto da lui pagato con le diverse centinaia di milioni di dollari a suo tempo versate nelle casse della campagna elettorale di Trump – ha accolto, puntualmente ritratto dalle telecamere, alla sua maniera: con esaltati sorrisi e molto infantili saltini di gioia. Non per nulla. Sarà proprio lui, con la sua SpaceX, ad incassare i proventi delle commissioni destinate a questa impresa – la “occupazione di Marte” come lui chiama e come reclamano le scritte delle t-shirt che indossa – che forse (quasi certamente pronosticano molti esperti) mai avrà luogo, ma che di certo assorbirà impressionanti quantità di risorse. E com’è noto sarà sempre lui a dirigere, ora che Trump è presidente, il DOGE, Department of Government Efficiency, chiamato a riformare la burocrazia statale a misura di capitale e in direzione del “miniarchismo” da sempre propugnato dalle teorie neoliberali. Obiettivo dichiarato: eliminare la imperante cultura “woke” e risparmiare due milioni di milioni di dollari. Cifra ovviamente irraggiungibile senza metter pesantemente mano alle già alquanto ridotte istituzioni del notoriamente piuttosto avaro welfare statunitense.

Oligarchi in pellegrinaggio a Mar-a-Lago

Non c’era solo Elon Musk, alla destra del sovrano. Accanto a lui – anche se un po’ più in disparte – c’erano tutti i più grandi miliardari d’America. E la cosa era più che prevista, considerato che, in una nobile competenza di genuflessioni, tutti, nei giorni che hanno seguito la striminzita eppur “epocale” vittoria elettorale di Donald Trump, s’erano recati in pellegrinaggio a Mar-a-Lago. Tutti avevano, come vuole il rituale, baciato l’anello del sovrano e tutti avevano regolarmente versato il proprio obolo. Di norma: un milioncino a poltrona. Non speso invano, considerato che tutti hanno infine ritrovato nel discorso inaugurale di Trump quel che cercavano. Se non proprio le chiavi di uno Stato dal quale dipende gran parte dei suoi affari, come nel caso di Elon Musk, quantomeno benefici fiscali e meno regole, in un quadro che ecumenicamente unisce vecchio ed antico, bianco e nero, pulito e sporco. Sporco soprattutto,

Nel suo discorso Donald Trump ha, infatti, annunciato l’azzeramento d’ogni forma di protezione ambientale e d’ogni ricerca di alternative energetiche a fronte della minaccia – da lui evidentemente ancora ritenuta una “chinese hoax”, una burla cinese, come a suo tempo la definì – del global warming, nonché l’affossamento immediato d’ogni foma di “green new deal” che, pure, negli ultimi anni era diventato fonte di lavoro e rinascita economica in alcune delle zone più colpite dal processo di deindustrializzazione. “Driil, baby, drill”, trivella bambino trivella, è stato, di nuovo e senza riserve, il grido di battaglia lanciato da Trump. La grandezza d’America, ha detto, dipende dallo sfruttamento dei tesori che la sua terra nasconde. E queste ricchezze verranno senza riserve sfruttate dagli Stati Uniti a casa propria e – ha minacciosamente aggiunto il presidente Usa – “ovunque si trovino”.

Hanno applaudito tutti, i miliardari presenti. Hanno applaudito i petrolieri, vecchie ed indomite volpi del capitalismo d’antan, ai quali Donald Trump aveva apertamente chiesto, nel pieno della sua campagna elettorale, un miliardo di dollari di contribuzione. E hanno, ancor più, applaudito i nuovi e futuristici padroni della Intelligenza Artificiale i cui “Data Center” hanno un’insaziabile fame di energia. Così come di energia sono voraci le “miniere” che alimentano il business, puramente speculativo, delle criptomonete che, come i petrolieri e i cosiddetti tech-bro, hanno lastricato d’oro la strada che riportato Donal Trump alla Casa Bianca. Drill, baby drill.

Di questo è fatta, soprattutto, la nuova “Golden Age”, età dell’oro, annunciata, anzi, riannunciata ieri da Donald Trump. L’America che lui si appresta a governare, anzi a salvare – ha ribadito riprendendo il ritornello che ha accompagnato tutta la sua campagna elettorale – è un paese “tradito ed occupato”. E quella che con lui comincia è, a tutti gli effetti, una “guerra di Liberazione”. Nulla resterà impunito. Non i crimini legati alle “frontiere aperte” sostenute dal passato governo. Non la persecuzione legale di cui lui è stato fatto oggetto – e qui occorre ricordare come, quando di Trump si tratta, ogni accusa sia in realtà una confessione – utilizzando contro di lui una Giustizia politicizzata. E a sostegno di questa tesi ha ripetuto, senza variante alcuna, tutte le stesse identiche menzogne che hanno accompagnato ogni passo della sua marcia verso la vittoria elettorale, rievocando i fantasmi di milioni di “delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali”, di proposito liberati e mandati negli USA, con la complicità del governo precedente, da Nazioni straniere ed ostili. O rievocando a modo suo i l’assalto da lui attizzato contro Capitol Hill il 6 gennaio del 2021 (i cui autori si appresta a graziare).

La menzogna, fase suprema della libertà d’espressione trumpiana

Ed anche altre e già smentitissime menzogne ha ripetuto ieri Trump. È tornato ad accusare il governo Biden di aver sottratto fondi destinati ai danneggiati per l’uragano Helene, in North Carolina, per consegnarli a non precisati “immigrati”. Ha attribuito le catastrofi provocate dagli incendi a Los Angeles agli eccessi di regole pro-ambiente. E lo ha fatto – in perfetta linea con i lineamenti fondamentali del pensiero trumpista – nel nome di un “pieno ed illimitato ritorno alla libertà d’espressione”. Ovvero: propugnando l’annullamento di qualunque forma di fact-checking. O di limitazioni a quella che possiamo traquillamente chiamare la menzogna di Stato.  Non era stato forse questo il senso dell’atto di pubblica sottomissione col quale, nel suo pellegrinaggio a Mar-aLago, il fondatore di Facebook e CEO di Meta, Mark Zuckerberg – anche lui tra gli ospiti d’onore della cerimonia inaugurale – aveva regalato al nuovo sovrano, a suo tempo espulso per le menzogne diffuse in merito frode mai esistite quattro anni fa, la fine d’ogni controllo sui social da lui controllati?

Tutto questo ha detto – o meglio, ridetto – Donald Trump. E lo ha detto, ovviamente, nel nome di Dio. “La mia vita – ha solennemente affermato, rammentando come lo scorso luglio, a Butler, in Pennsylvania, una pallottola gli avesse sfiorato l’orecchio – è stata salvata con un proposito. È stata salvata da Dio perché io potessi fare di nuovo grande l’America”.

Dio, petrolio e menzogne. Con un presidente straordinariamente simile al “nuovo re”, o al pericoloso demagogo, la cui venuta i fondatori della Nazione – con in mente proprio a figura del “re pazzo” George III – aborrivano e temevano. Il tutto con viaggio finale su Marte. Posti limitati. Prenotare in anticipo presso Elon Musk. Di questo si è nutrito in sostanza il discorso inaugurale da Trump pronunciato ieri nella Rotunda di Capitol Hill e poi ripetuto in ancor più espliciti e meno “formali” termini nella manifestazione di massa – anch’essa al coperto per la prima volta nella storia – tenutasi più tardi nella One Capital Arena. Trump – su questo lui stesso non ha lasciato dubbio alcuno – è un Messia. Ma è anche, evidentemente, un Messia freddoloso.

Freddoloso ed anche – questo già lo si sapeva – piuttosto inarticolato. Sarà stata la stanchezza. O forse l’età non più verdissima. Ma soprattutto la parte finale del suo storico discorso inaugurale, quella che doveva, in teoria, scandire il rossiniano crescendo dell’annuncio di una nuova epoca d’abbondanza e di felicità oltre gli orrori del presente, è alla prova dei fatti risuonata – letta, o meglio, stancamente sbiascicata, dal telepronter – come la classica tirirera d’un bambino costretto a leggere una poesia di cui non capiva né il senso né le parole.

Uno strano inizio per quella si preannuncia come una nuova età dell’oro. Un inizio molto simile a una fine. Ed al “declino” da cui ha solennemente preannunciato l’uscita.

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