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Wednesday, April 23, 2025
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Deportazioni, specchio della crudeltà trumpiana

Signori, si deporta. E – volendo dar credito a quel che va da tempo proclamando Donald J. Trump, il presidente che, nei quattro anni del suo primo mandato, ha mentito ad un ritmo di trenta frottole al giorno – nessun dubbio è consentito: quella che appena è cominciata sarà la più grande deportazione di tutti i tempi. Lo sarà (ipse dixit) per la sua storica, anzi, epocale rilevanza. E lo sarà per i suoi numeri. Numeri sicuramente ballerini – Trump ha a volte parlato di 11 milioni, altre di 15 e, nei momenti di maggior esultanza, ha toccato quota 20 milioni, tanti quanti secondo lui sono gli immigranti che vivono illegalmente negli Stati Uniti – ma anche, seppur proposti nella loro più ridotta versione, restano a tutti gli effetti impressionanti, stratosferici, colossali e storicamente inediti (“ever seen before”). Come, del resto, tutto quello che Trump – da Dio inviato per “far di nuovo grande l’America” (di nuovo: ipse dixit) – con molto cristiana umiltà di norma associa a sé medesimo.

Impressionanti, stratosferici e inediti, ma anche, alla prova dei fatti, del tutto futili. Perché non è ai numeri, ma alle parole – al loro ultimo significato, al loro contesto ed al loro peso – che bisogna in realtà guardare per capire quale sia il vero senso storico, ideologico ed etico di questa “grande deportazione”. Al momento le cronache di questa storica “ouverture” non ci hanno regalato che le modestissime, quasi impalpabili cifre legate al primo (ed a suo modo molto significativo) doppio incidente diplomatico causato dalla campagna di espulsioni dagli Stati Uniti. Ottantotto deportati in Brasile e ottanta – o giù di lì – deportati in Colombia (o Columbia, come Trump l’ha definita in un post pubblicato su TruthSocial, confermando la sua, in questo caso davvero “storica”, passione per gli strafalcioni sintattici, grammaticali o, come in questo caso, geografici). Poca roca roba (appena lo 0,00113 per cento del totale “a venire”). Poca, ma già in grado di creare una piccola e a suo modo premonitrice tempesta.

Gustavo Petro, una sfida finita nel nulla

È bastato infatti che il ministero degli Esteri brasiliano diffondesse una protesta per il “disumano trattamento” riservato agli 88 deportati inviati in Brasile, perché il presidente Colombiano, Gustavo Petro, decidesse di rifiutare – in assenza di garanzia in merito al pieno rispetto dei diritti umani – l’ingresso del volo militare che trasportava gli 80 deportati in Colombia. Il che ha fornito a Trump l’occasione per mostrare al mondo – e al sé stesso specchiato, come vuole il mito di Narciso, nelle acque del torrente – i propri muscoli imperiali. Dovesse Gustavo Petro – un “socialista estremamente impopolare” lo ha definito in un comunicato diffuso via social – insistere nel suo rifiuto, tutti i prodotti colombiani verranno d’acchito gravati con un 25 per cento (a crescere) di tariffe doganali, e tutti i visti d’ingresso agli USA verranno sospesi.

A dispetto della solennità delle sue prime dichiarazioni, Gustavo Petro non ha, a quanto pare, insistito. Ed appena una manciata di ore dopo il suo “gran rifiuto”, ha riaperto, sostenendo di aver ricevuto “garanzie” che gli USA drasticamente negano di aver concesso, gli aeroporti colombiani alle molto militarizzate deportazioni da Trump decise. Il che ci regala il primo “vero senso” di queste deportazioni.  Deportare significa, per Donald Trump – ristabilire le dovute gerarchie in quello che un tempo gli Usa definivano il proprio “cortile di casa”. Come molto chiaramente già aveva annunciato nel suo discorso inaugurale, solennemente rievocando il “destino manifesto” della Nazione da lui governata (quello nel 1825 proclamato da James Monroe , quinto presidente della Nazione) e senza mezzi termini reclamando il ritorno del Canale di Panama sotto il pieno e indiscusso controllo degli Stati Uniti. Per riassumere: lo zio Sam è tornato nella sua più nerboruta e mascolina versione – quella tristemente famosa del “cry uncle”, grida “zio” in segno di resa – ed è pronto (tanto per cominciare) a torcere il braccio di chiunque al suo volere s’opponga.

Questo aveva detto Trump, il 20 gennaio scorso nella Rotunda di Capitol Hill, subito dopo il so giuramento. Ed è di questo ritorno al “destino manifesto” che Gustavo Petro ha finito per diventare, ieri l’altro, l’ingloriosa cavia. Lo ha fatto, peraltro, in piena sintonia con il suo stile di governo, negli ultimi tre anni marcato da magniloquenti propositi e da molto asfittici, contradditori e, non di rado, catastrofici risultati. Il tutto nel quadro d’una politica ondivaga e a tratti incomprensibile. Trump non ha, per una volta, mentito: Petro è davvero “socialista” o, quantomeno, di sinistra (le sue origini risalgono alla guerriglia del M19, legalizzatasi nel 1990). Più ancora è, a tutti gli effetti, il primo presidente di sinistra della Storia colombiana. Ed è anche, oggi come oggi, “estremamente impopolare” (i suoi indici di gradimento sono al 26 per cento, stando ai più recenti sondaggi). La sua proposta di “Paz total”, pace totale, tesa a chiudere per sempre, in una sorta di ecumenico abbraccio, tanto la secolare storia di violenza politica con poetica maestria descritta nei “Cento anni di solitudine” di García Márquez, quanto la sordida tragedia del narcotraffico, sebbene originalmente accolta con certo entusiasmo, si è risolta, se non proprio nel suo contrario, di certo in un patetico nulla, aprendo la strada – questo sostengono ormai  tutti gli analisti politici – ad un ritorno al potere della peggior destra.

Barack Obama, deportatore numero uno

Qui comandiamo noi. E che nessuno si permetta d’alzare la voce. Questo significano dunque, per Donald Trump, le deportazioni. Questo e che altro? Per rispondere a tale domanda e per mettere a fuoco questo “altro” – che è poi quello che più conta – occorre fare un passo indietro, anzi, due. E, fatti i due passi, chiedersi chi sia, nella Storia degli Stati Uniti d’America, il presidente durante il cui mandato (o mandati) sono stati deportati più immigrati illegali. Dunque, numeri alla mano e libri di Storia aperti, chi è il “deportatore” per eccellenza? Sorprendente, ma inequivocabile è la risposta: Barack Obama. Ovvero: il primo presidente afro-americano, l’uomo che, a torto o a ragione, di norma più viene identificato, non solo con il pensiero “liberal” (o “woke”, come vuole il catechismo demonizzante della nuova destra), ma anche con il trionfo, quantomeno momentaneo, della diversità sociale, oltre le barriere e gli orrori del peccato originale – la schiavitù – che un quarto di millennio prima aveva marcato a fuoco la nascita della democrazia americana.

Tra il 2009 e il 2016, Barack Obama ha, infatti, rimandato nei paesi d’origine 3.200.000 persone (un intero Paese di piccole dimensioni, tipo Nicaragua o Uruguay). Una cifra di fronte alla quale il milione scarso raggiunto da Donald Trump nei suoi quattro anni di presidenza (2017-2020) appare davvero poca cosa. Ed a poco serve che – in un disperato tentativo di rimonta – Trump sistematicamente aggiunga alle cifre delle sue deportazioni quelle del mancato ingresso al Paese (3 milioni secondo le cifre elaborate dal medesimo Trump) di immigrati bloccati alla frontiera dal famoso “Title 42”, il decreto d’emergenza che, durante la pandemia, per volontà di Trump (che pure per molto tempo colpevolmente negò la gravità dell’epidemia) chiuse ermeticamente la frontiera Sud. I mancati ingressi non sono deportazioni. E la “vittoria” di Barack Obama resta – per quanto non sia di quelle che coprono di gloria il condottiero – assolutamente schiacciante. Un vero e proprio cappotto.

Trump, fuori dal Guinness

Un record, in materia di deportazioni, Trump era per la verità riuscito a raggiungerlo. Nel 2019, prima dell’esplodere del Covid-19, aveva infatti deportato 267.000 esseri umani, primato annuale. Questo fino all’appena conclusosi 2024. Tra il primo di gennaio ed il 31 di dicembre, quando da più di un mese Trump già era il presidente-eletto, Joe Biden ha infatti raggiunto la cifra di 271.000. Niente più primato, dunque. Battuto sul filo di lana, Donald Trump resta – laddove di rimandare al mittente gli immigrati si tratta – irrimediabilmente fuori dal Guinness.

Il senso di questi paragoni? Uno solo. Dimostrare, attraverso l’insindacabile logica dei numeri, come, a dispetto dei proclami di Trump, la vera chiave di interpretazione del presente – o del significato autentico della “campagna di deportazioni più grande della Storia dell’umanità” – non stia nel “quanti”, ma nel “perché”. E questo non solo per l’ovvia ragione – ribadita da tutti gli esperti – che gli 11, 15 o, ancor più, 20 milioni di deportati – appaiono molto al di là di qualsivoglia logica politica e d’ogni reale messa in pratica. Dovesse la deportazione di immigrati clandestini essere semplicemente un modo per ristabilire, come spesso si afferma, la sacralità delle frontiere, o lo stato diritto – vale a dire, il principio che negli Stati Uniti si entra e ci si stabilisce solo in accordo con le leggi vigenti, Donald Trump e la destra Usa non avrebbero, in realtà, alcuna battaglia da vincere. Per la semplice ragione che già hanno vinto. E vinto da tempo.

Come dimostra – e qui viene il secondo e più breve dei passi indietro – quello che accadde a Capitol Hill, prima la Senato e poi alla Camera, nel gennaio dell’anno appena conclusosi. Era stato qui, nel Congresso, che nel gennaio del 2024, in una ormai estremamente inusuale forma “bipartisan”, repubblicani e democratici avevano raggiunto un accordo per una complessiva riforma dell’emigrazione che altro non era, nel 90 e passa per cento dei suoi contenuti, che la riproduzione della più tradizionale politica di “frontiere chiuse” e di “lotta alla clandestinità” da sempre propugnata dalla destra repubblicana. Nessuna traccia del vecchio liberalismo in materia di immigrazione. Nessun rimasuglio, neanche in forma di vago sottinteso, del vecchio mito dell’America “Paese d’immigrati”, o dei versi “Give me your tired, your poor, your huddled masses, yearning to breathe free, the wretched refuse of your teeming shore….” – dai a me le tue creature esauste, i tuoi poveri, le tue plebi accalcate che bramano respirare liberamente, gli sventurati rifiuti delle tue brulicanti sponde – che la Statua della Libertà mostra ai naviganti.

Non se ne fece nulla per una semplicissima ragione. Trump aveva bisogno, per la sua campagna presidenziale, d’una bandiera: quella delle frontiere aperte. Anzi: quella della plausibile – plausibile in questi tempi di “post-verità” – tesi d’una “invasione”. E d’una legge – per di più ostentatamente “bipartisan” – che quelle frontiere chiudesse più di quanto già chiuse non fossero, non sentiva alcun bisogno. L’ordine fu chiaro: affossare quella legge. E la legge affossata fu. Con il paradossale risultato d’una campagna presidenziale lungo la quale, da un lato Kamala Harris (una che, fino al 2019, in assonanza con i suoi principi liberal, aveva sostenuto la necessità di depenalizzare il reato di immigrazione clandestina) andava difendendo la necessità d’una legge organica che risolvesse, di fatto chiudendo le frontiere, il problema della immigrazione, mentre, dall’altro lato, Trump andava presentando, menzogna dopo menzogna – qualcuno ricorda la storia degli haitiani che, in Ohio si mangiavano cani e gatti? –  gli Stati Uniti come un Paese occupato da orde di “delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali” negli Usa di proposito inviati, con la complicità del governo democratico, svuotando carceri e manicomi di Nazioni ostili. Un paese che solo lui, per questo da Dio inviato (e da Dio salvato quando, a luglio, in quel di Butler, in Pennsylvania, gli spararono ferendolo di striscio a un orecchio) poteva redimere con una vera e propria “guerra di liberazione”.

E giusto qui sta il punto, il senso vero di questa deportazione. Il punto non è – non è mai stato nella visione delle molte e diverse correnti di pensiero e d’azione per misteriose vie agglomeratesi attorno al mito di Donald Trump – la difesa delle frontiere o, ancor meno, di “yyyyythe Law of the Land” della legge della Nazione. Il punto è il razzismo. Il punto è l’odio. Il punto è la guerra. Lo si era già visto durante il primo mandato di Donald Trump, quando la sua politica immigratoria, pur essendo, formalmente, la medesima della precedente amministrazione, portò alla vergogna – qualcuno lo rammenterà – dei “bambini messi in gabbia” e forzatamente separati alla frontiera, in migliaia di casi, dai propri genitori. Già allora il punto non era più – anzi, mai era stato – impedire l’immigrazione illegale. Il punto era la crudeltà. Il punto era ferire, far del male a gente che, nella visione trumpiana, non meritava che odio.

Quanti davvero saranno, alla fine di questa Storia, i deportati di Donald Trump – quanto si avvicineranno, o allontaneranno, dagli 11, 15 o 20 milioni annunciati – si vedrà.  E chissà che davvero Donald Trump non riesca, finalmente, ad entrare nel Guinness dei primati nelle vesti di Grande Deportatore. Quello che però davvero conta, quello che davvero questa legge intende stabilire al di là delle infantili ambizioni del nuovo/vecchio presidente, è che gli immigrati, tutti gli immigrati – o, almeno, quelli di pelle non bianca provenienti da quelli che Trump ha ripetutamente definito “shithole countries”, stati del buco del culo – sono, senza eccezioni, “invasori”. Tutti “delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali”. Tutti nemici che – testuali e reiterate parole di Donald Trump – “avvelenano il sangue della Nazione”. E nemici da combattere, per questo, in una guerra senza quartiere e senza regole.

Una legge che destò l’ammirazione di Adolf Hitler

L’odio contro gli immigrati corre da sempre – come una sorta di controcanto al mito del “Paese di migranti” raffigurato dalla Statua della Libertà – nelle vene degli Stati Uniti d’America. E in diversi momenti, lungo i 250 anni e passa di vita della “più antica democrazia del mondo”, quest’odio è diventato legge. I decreti presidenziali con cui ha aperto questa campagna di deportazioni rappresentano in buona misura un ritorno peggiorativo al più oscuro di questi momenti. Vale a dire al Immigration Act del 1924, meglio noto come Johnson-Reed Act – per la cronaca: rimasto in vigore fino al 1965 – che su basi apertamente eugenetiche ed etniche, stabiliva precise quote di entrata o, meglio, di esclusione. Gli “shithole countries” del momento erano il Sud e l’Est d’Europa, in questo secondo caso con particolare riguardo agli emigranti ebrei. Non erano questi – almeno non nel testo della legge – “delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali”. Ma di certo erano esseri inferiori, un pericolo per la sanguigna purezza degli Stati Uniti d’America. Non fu per caso che quattro anni più tardi, nel 1928, quella legge incontrò gli sperticati e meritatissimi elogi di un indiscutibile esperto in materia di odio etnico: Adolf Hitler.

La Grande Deportazione cominciata ieri con la patetica schermaglia tra Donald Trump e Gustavo Petro, è qualcosa di antico e di nuovo. Antico come il razzismo che sempre è vissuto nelle pieghe della società americana e che ora reclama il diritto di esprimersi senza remore. Ed è soprattutto guerra, tradizionale condizione della fittizia “emergenza” che, da sempre, funge da trampolino per chi, come Trump, contro la democrazia reclama nuovi ed incontrastati poteri. È, in ultima analisi, parte fondamentale o, se si preferisce l’ultima appendice dell’assalto alla democrazia che, cominciato il 6 gennaio del 2021, con il raid contro Capitol Hill è ora, grazie al voto popolare, diventato governo.  

Giorni fa, nel corso d’una cerimonia religiosa al nuovo presidente dedicata in quel di Washington D. C., nella National Cathedral, il vescovo episcopale Marianne Edgar Budde, donna dal fragile aspetto e dalla flebile voce, s’è azzardata, nel corso della sua predica, a pronunciare di fronte a Trump – uomo da Dio mandato per fare l’America di nuovo grande – la piùttt cristiana delle parole: misericordia. “Have mercy”, abbiate misericordia, ha detto, di quanti oggi guardano con timore alla politica che annunciate. Ricordatevi che di esseri umani, di vostri, nostri fratelli si tratta.

Ripresa da tutte le telecamere, l’espressione pomposamente indignata di Trump esaltata dall’altrettanto ossequiosamente stizzito contorno del suo seguito familiare e non (davvero da imprimere nella memoria i volti di Eric, figlio maggiore del sovrano e di J.D. Vance, il vicepresidente) ha a suo modo fotografato il senso etico dell’inizio di questa nuova fase della Storia d’America. Il volto fumante rabbia di un re senza scrupoli. L’appena percepibile, ma carico di dignità, suono d’una possibile resistenza. Vedremo come andrà a finire.

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