Tra poche ore a tutti gli effetti comincerà, ultimata la cerimonia inaugurale, il secondo (e non consecutivo) mandato presidenziale di Donald J. Trump. E gli Stati Uniti d’America ufficialmente entreranno, dopo più d’un quarto di millennio di Storia, negli ancora inesplorati territori della post-democrazia. Con quali conseguenze è impossibile dire. E in verità non manca chi, in questa vigilia, con molta sicumera va preconizzando, per il nuovo/vecchio governo, il classico destino della bolla di sapone. Ovvero: il rapido implodere dell’annunciata “era post-democratica”, sotto il peso delle interne contraddizioni del movimento che sorregge il fenomeno trumpista e, ancor più, della provata – e talora ridicolmente impresentabile – incompetenza dei personaggi che, a partire naturalmente da Trump medesimo, del trumpismo s’apprestano ora a diventare, nelle vesti di governanti, le punte di diamante. Basta, per questo dare un’occhiata alle audizioni, appena cominciate nel Senato, dei nuovi membri del governo designati da Trump. In particolare, quelle del nuovo Segretario alla Difesa, Pete Hegseth, e della nuova Attorney General, Pam Bondi.
Un piazzista dittatore
Tutto può accadere, com’è ovvio. Ma, accada quel che accada, un fatto resta certo: quali che siano i destini di questo suo secondo mandato, Donald J. Trump è – e per sempre resterà negli annali – come il primo presidente “a-democratico” della Storia degli Stati Uniti d’America. “A-democratico”, nel senso di totalmente estraneo, non solo agli ideali – splendenti anche se carichi di limiti, ipocrisie ed orrori – che nel 1776 illuminarono il mondo con parole (…all men are created equal…”) scolpite nella pietra, ma anche a qualunque forma di ideologia o di etica politica. Già è stato detto, ma vale la pena ripeterlo: per Donald Trump – basta per questo uno sguardo alla sua biografia, tra storie da rotocalco, bancarotte, imbrogli d’ogni natura e reality shows – tutto comincia e tutto finisce con Donald Trump. Ed è proprio in virtù di questo vuoto celebrale e interiore – intellettualmente impalpabile, ma capace di dominare la scena mediatica – che Trump è oggi l’ideale rappresentante, il piazzista-dittatore se così vogliamo chiamarlo, di contrastanti eppur convergenti tendenze autoritarie. O, come qualcuno sostiene, d’un nuovo fascismo.
In questo – ed in nient’altro che questo – sta la natura “epocale” della seconda presidenza di Donald Trump. In termini strettamente numerici la sua vittoria è tra le più risicate degli ultimi due secoli. Peggio di lui hanno fatto solo i due presidenti – Trump medesimo nel 2016 e George W. Bush nel 2000 – che, grazie al sistema dei Collegi Elettorali, hanno conquistato la Casa Bianca senza prevalere nel voto popolare. Lo scorso novembre – ci raccontano con proverbiale freddezza i numeri – Donald Trump ha battuto Kamala Harris, senza peraltro raggiungere il 50 per dei voti, con uno striminzito 1,50 punti di vantaggio. Ed i sondaggi ci raccontano, ancor oggi, alla viglia della super-solenne cerimonia di inaugurazione del suo secondo mandato, come Donald Trump resti l’unico presidente che mai, neppure al culmine del suo vittorioso cammino, sia riuscito (attualmente il suo indice di popolarità è al 47 per cento) a conquistare, se non proprio l’amore, quantomeno l’approvazione della metà del popolo che governa.

Donald Trump è, in effetti, non solo il primo presidente a-democratico, ma anche il primo presidente che, per due volte, abbia cominciato – e nella prima delle due volte anche continuato e finito, – la sua avventura presidenziale al di sotto della fatidica soglia del 50 per cento d’approvazione. Nonostante questo (o forse proprio per questo) è, tuttavia, anche l’uomo attorno al quale si sono in questi anni aggregate, in forma di culto personale – irreversibilmente trasfigurando quello che fu il partito di Abraham Lincoln – tutte le tendenze oscurantiste, xenofobe, razziste ed autoritarie, ora incontratesi con le ambizioni di un nuovo tecno-capitalismo radicale desideroso di farsi Stato, da sempre presenti, come contraltare della democrazia, nel DNA degli Stati Uniti d’America. Quelle per le quali – volendo parafrasare una celebre massima reaganiana che, in qualche misura, anticipò il trumpismo – “la democrazia non è la soluzione, la democrazia è il problema”.
Non per caso, a questo punto – ovvero, nella biblica vigilia della “Seconda Venuta di Donald Trump”, come senza sarcasmo alcuno molti trumpisti la rappresentano – la parola che meglio definisce i tempi nuovi è “Apocalisse”. Apocalisse è, ovviamente quella che, sospinta dei fetidi venti della cultura “woke”, la vittoria elettorale di Donald ha provvidenzialmente evitato nel nome della “vera” America (giusto per dare un’idea, vale pena ridare un’occhiata a questo spot, uno dei più diffusi ed apprezzati, nel corso dell’ultima campagna presidenziale). Apocalisse è però anche – anzi, soprattutto ora che la vittoria delle Forze del Bene si è consumata – quella che più direttamente si rifà “all’originale senso del termine greco Apocálypsis, che significa scoperta, rivelazione”.
Questo, almeno, è quello che giorni fa ha scritto in un commento pubblicato dal Financial Times, Peter Thiel, il tecno-imprenditore che oggi più compiutamente incarna, da un punto di vista ideologico-strategico, l’agenda di quel capitalismo radicale – o anarco capitalismo nelle sue più estreme frange – che del trumpismo è diventato non solo parte integrante, ma, per molti aspetti, parte dirigente. Quella che si è appena conclusa (e conclusa con la vittoria di Donald Trump) è stata una guerra, sostiene Thiel. Una guerra tra il Bene e il Male, tra il Passato e il Futuro. Più specificamente: una guerra tra la “vecchia guardia” – o l’ancien régime come Thiel alternativamente la chiama – e la forza liberatrice di Internet. L’Internet ha vinto, ci informa Thiel. E la sua vittoria è ora destinata a portare la Luce della Verità – la Verità che ci rende liberi (Giovanni 8:32) – in tutti i più oscuri e sordidi anfratti della Storia d’America.
La burla d’una Commissione per la Verità e la giustizia
Nulla resterà nell’ombra, nulla resterà impunito, ogni pietra verrà rivoltata. Peter Thiel – che, come Elon Musk, è un bianco di origine sudafricana – propone, per chiudere definitivamente questo epico scontro tra Bene e Male, la formazione di una commissione “per la Verità, la Giustizia e la Riconciliazione” simile a quella che venne formata a Pretoria dopo la caduta del regime di Apartheid. Il tutto con un solo scopo: diradare in saecula saeculorum la tenebrosa cappa di disinformazione garantita da quello che – mutuando una sigla inventata da un altro tecno-futurista, Eric Weinstein – Thiel definisce “the pre-internet custodians of secrets of the Distributed Idea Suppression Complex (DISC)”, i custodi pre-Internet dei segreti del complesso per la soppressione della diffusione delle idee. Vale a dire: “i media tradizionali, le università, le organizzazioni non-governative (ONG) che usano fondi del governo”. E che oggi, secondo Thiel ed il trumpismo tutto, di fatto sono i padroni di quella che è, a tutti gli effetti, una nefasta verità di Stato.
Questa nuova Commissione, scrive ancora Thiel, non dovrà addentrarsi in territori che appartengono ad un passato remoto, ma guarderà al presente e, soprattutto, al futuro. Più specificamente: non si dovrà occupare di quel che accadde nel 1619 (anno dell’arrivo del primo schiavo africano in terra d’America) per futilmente dissotterrare, come vuole la cultura “woke”, le radici del “razzismo strutturale” che affligge la società americana, ma molto più concretamente punterà suoi riflettori sul COVID-19 e sulle verità che, in tempi di pandemia, al popolo sono state nascoste dal diabolico Dott. Anthony Fauci (a suo tempo, come molti ricorderanno, mite e molto visibile responsabile del National Institute of Allergy and Infectious Diseases). E tutto finalmente si saprà, non solo sui luciferini complotti che sostennero gli shut-down che marcarono i tempi del Coronavirus, ma anche su altri orrori le cui verità si sono, negli anni, dissolti nelle nebbiose oscurità del DISC. Tanto per gradire: quella sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, in quel di Dallas, nel 1963, e quella di suo fratello Bob, cinque anni più tardi a Los Angeles.

Curiosamente, tra le molte pietre prossime allo “scoperchiamento”, Thiel cita anche – e con una certa insistenza – quella che riguarda la morte (ufficialmente per suicidio) di Jeffrey Epstein, il super-ricco finanziere che, in anni non lontani, organizzò – per il piacere suo, di altri miliardari e di “alti dignitari” politici amici suoi – un giro di prostituzione minorile. Curiosamente, perché tra i più assidui ed entusiasti frequentatori di Epstein c’era proprio il luminoso garante della Nuova e Definitiva Verità, frutto della vittoria di Internet contro i media dell’ancien regime. “Jeffrey è un tipo fantastico”, aveva detto Trump in una intervista con Il New York Magazine nell’anno 2002. E quello che li univa, aveva precisato, era l’amore per le belle donne, particolarmente quelle “on the young side”, le più giovani. E non solo: giusto qualche mese fa, grazie al giornalista Michael Wolff, sono venute alla luce registrazioni che confermano la grande familiarità – di vedute, di gusti e d’abitudini – tra i due ricconi newyorkesi. Che Thiel abbia voluto mandare un “avvertimento” al nuovo presidente-messia? Tutto è possibile.
Tornando a bomba: Epstein e possibili avvertimenti a parte, perché è importante quello che oggi scrive Peter Thiel? Per una ragione molto semplice. Oggi l’attenzione dei media – quelli tradizionali sconfitti e quelli nuovi e trionfanti di Internet – è prevalentemente puntata, per ovvie ed eccellenti ragioni, su Elon Musk e sull’ormai simbiotica natura del suo rapporto con Donald Trump. O, più prosaicamente, su quel che Elon Musk – dalla rivista Forbes ritenuto l’uomo più ricco del pianeta Terra – da Donald Trump ha comprato per la modica cifra di 277 milioni di dollari: l’incarico di riformare lo Stato dal quale per un buon 70 per cento dipendono – via commissioni o sussidi – i suoi giri d’affari. Si tratti di auto elettriche, di connessioni satellitari o di missioni spaziali. Ed i proverbiali fiumi d’inchiostro – materiale e virtuale – sono di recente corsi sull’ossequioso pellegrinaggio che, uno dopo l’altro ed uno più prostrato dell’altro, i grandi “big” della tecnologia hanno realizzato in direzione della reggia di Mar-a-lago, per baciare, in una medioevale cerimonia di sottomissione, l’anello del nuovo/vecchio sovrano.
In pellegrinaggio a Mar-a-Lago. Portando regali
Nessuno è arrivato a Mar-a-Lago a mani vuote. Tutti – come impongono le antiche regole del vassallaggio – hanno portato al re regali. Uno uguale per tutti tutti: la distruzione, in una sorta di virtuale “Farrenheit 451”, di ogni forma di DEI. Ovvero: i del metodo di assunzione, formazione e gestione del personale ispirato ai principi della Diversità (Diversity), della Giustizia (Equity) e della Inclusione (Inclusion). Principi che destinati a portare – orrore! – più donne e minoranze d’ogni tipo all’interno, e possibilmente alla guida, delle aziende, hanno penalizzato, nella logica dei vincitori, ogni forma di sana meritocrazia. Mark Zuckerberg, creatore di Facebook ed ora CEO di Meta – sì, quello che Trump un tempo non lontano con antisemitico disprezzo chiamò “Zuckerschmuk” (shmuck in Yiddish significa “idiota”) – è andato anche oltre, Ed al pubblico ripudio del DEI, ha spettacolarmente aggiunto, il capo cosparso di cenere, quello di ogni tipo di “fact-checking” nei social da lui gestiti. Più in concreto: ha solennemente annunciato la fine dei controlli – Zuckerschmuk li chiama ora, in sintonia col sovrano, “censura” – che subito dopo l’assalto a Capito Hill del 6 gennaio 2021, avevano portato alla espulsione di Donald Trump da Facebook (e da quello che allora, prima dell’acquisto da parte di Elon Musk si chiamava Twitter) per via delle frottole – poi passate agli Annali come “The Big Lie”, la grande menzogna – da lui reiteratamente diffuse in merito a inesistenti frodi consumate nel corso del voto conclusosi, nel novembre del 2020, con la più che legittima vittoria di Joe Biden.
In questo quadro di abbietta soggezione – o di inquietante simbiosi a pagamento, come nel caso di Elon Musk – Peter Thiel occupa una posizione molto particolare. Chiamatelo, se vi pare, un trumpista pre-marcia. Fu lui – primo tra i grandi di Silicon Valley – a intuire, già nel 2016, le grandi potenzialità che, nella prospettiva di un capitalismo deciso a “farsi Stato” nel nome della libertà di mercato, erano racchiuse in un personaggio le cui ambizioni presidenziali erano allora viste, da quel medesimo Partito Repubblicano oggi trasfiguratosi in un culto a lui sottomesso, come una sorta di barzelletta mal raccontata. Fu lui l’unico, nel 2016, a schierarsi dalla parte di Trump, individuato come ideale cerniera tra le ambizioni del più futuristico capitalismo tecnologico e l’oscurantismo preilluministico del razzismo, della xenofobia, del fanatismo e fondamentalismo religioso che, da sempre, scorre nelle vene della “più antica democrazia del mondo”. Fu lui a lanciare nell’arena politica, con generosissime donazioni, J.D. Vance, l’uomo che è oggi di Donald Trump è il vice, e che di Thiel fu anni fa un dipendete alla testa d’uno dei suoi molti fondi d’investimento. E – quel che più conta – fu lui, Peter Thiel a denunciare per primo, nel suo libro “The Education of a Libertarian” pubblicato nel 2009, la ormai “insanabile contraddizione” tra quella che lui chiama “Liberty” – ovviamente intesa come libertà di mercato – e la democrazia, inutile, anzi, dannoso residuo di un’epoca in agonia.

Se – come tutto sembra indicare – Elon Musk è a tutti gli effetti il massimo azionista della post-democrazia trumpiana, Peter Thiel ne è di certo il padre spirituale, il suo più lucido ideologo, il padrone, per molti aspetti, della post-verità che della post-democrazia trumpiana è, a conti fatti, il principale motore. Non per nulla quella che è oggi probabilmente la più importante impresa gestita di Thiel – a suo tempo entrato nel Gotha della Silicon Valley con la creazione di PayPal, la semi-monopolistica impresa di pagamenti online – ha preso il nome di Palantir, la pietra magica che, elaborata da Elves di Valinor, ne “Il Signore degli Anelli” regala a chi nel bene o nel male la possiede la capacità di comunicare. La vera chiave del potere. E proprio questo la Palantir di Peter Thiel fa, nella vita reale: attraverso le sue quattro branche, Palantir Gotham, Palantir Foundry, Palantir Apollo e Palantir AIP raccoglie, elabora e comunica dati, soprattutto per il Dipartimento alla Difesa e per le più diverse diverse agenzie di Intelligenza della Stato che, nel nome del progresso e contro la democrazia, il nuovo capitalismo si propone di gestire in proprio. E se in qualcuno, a questo punto, si riaccende la memoria del “1984” di George Orwell – autore, peraltro, da Thiel ripetutamente citato per denunciare gli orrori censori del vecchio regime – è perché in effetti a pieni polmoni si respira, nella “liberty” da lui propugnata, l’aria (o il tanfo) del famoso “Ministero della Verità”. La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza…
…e la menzogna è verità
Quali saranno dunque – ci si chiede ora, a poche ore dall’inizio dell’era “post-democratica” – le Verità (o post-verità) di questo Trump 2.0? Sapremo davvero chi ha assassinato John Fitzgerald Kennedy? Sapremo – cosa che sicuramente Donald Trump non si augura – quali turpi vicende si celano dietro il suicidio (?) di Jeffrey Epstein?
Dubitarlo è lecito. Molto più utile è invece, per capire, almeno in nuce, quel che ci aspetta è dare un’occhiata alle cronache. Quelle, recentissime, della campagna elettorale appena conclusasi – ricordate la storia degli immigrati haitiani che, a Springfield, Ohio, sequestravano e si mangiavano i cani e i gatti della locale popolazione bianca? – e quelle che in queste ultime ore s’accavallano a ridosso degli incendi che stanno devastando interi quartieri lungo le Palisades di Los Angeles. Per la post-verità trumpiana le cause del disastro non vanno ricercate nella realtà del riscaldamento globale, ma nelle misure prese per contrastarne gli effetti, nelle regole di difesa ambientale e, naturalmente, nella ubiqua tirannia del DEI. Se le fiamme, sospinte da venti impetuosi, vanno in queste ore vincendo la loro battaglia – tuonano in queste ore i commentatori di Fox-News, la più trumpiana delle reti – è perché alla testa dei pompieri c’è una donna che, per di più, è anche una lesbica dichiarata…
La frottola più grottesca – non per niente, Musk o non Musk, è sempre lui, ufficialmente il capo di tutti i capi – l’ha ovviamente diffusa il medesimo Donald Trump, attraverso TruthSocial, la sua rete social personale. Per lui la scarsità d’acqua – antichissimo problema della California del Sud, ricordate il film “Chinatown”? – è dovuta al fatto che la poca disponibile è stata usata, non si sa né come, né quando, né perché, per salvare dall’estinzione un piccolo ed “Inutile” (parola di Trump) pesce di nome “smelt” che vive nelle paludi nel delta del fiume San Joaquin, nei pressi di Sacramento, alcune migliaia di chilometri a nord di Los Angeles. E se nel leggere queste parole vi state indignando o, ancor peggio, vi state chiedendo chi sia l’imbecille (probabilmente si tratta del medesimo Trump) che a Trump ha raccontato questa fandonia (una fandonia infame, date le circostanze), sappiate che, nell’ottica della post-democrazia trumpiana, siete soltanto dei censori. Come censori furono quelli che, quattro anni fa, denunciarono, complice il non ancora redento Zuckerschmuk, le menzogne da Trump raccontate in merito alle presunte frodi elettorali che giustificarono l’assalto a Capitol Hill.
È in questo clima che, tra poche ore, Gli Stati Uniti si apprestano ad aprire una nuova ed inedita pagina di Storia. Quel che accadrà non si può sapere. Ma di certo ci sono almeno due cose. La prima. Dovesse davvero fare tutte le cose che ha promesso di fare nel suo primo giorno di presidenza – 59 e tutte di epocali dimensioni in tutto secondo i calcoli di Neil Irvin e Courtenay Brown di Axios – quello di Trump 2.0 sarà sicuramente un esordio insonne. La seconda: come le cronache ogni giorno ci raccontano, nel nuovo mondo libero dalle censure dell’ancien régime la menzogna sarà – nella sua versione più trumpianamente infame ed in linea con le ambizioni del più futuristico capitalismo – la vera regola del gioco.
Meglio prepararsi al peggio.