23 settembre 2007
di Massimo Cavallini
“Pirrica” l’aveva originalmente (e quasi con eleganza) definita. Ma evidentemente un’altra era la parola che, fin dal primo momento – ovvero fin dall’istante in cui, domenica notte, aveva compreso d’aver perduto il referendum – frullava nella vulcanica mente del presidente bolivariano. E dopo ventiquattr’ore di tormentata astinenza – da molti osservatori forse con troppa fretta impiegate per elogiare la “signorilità” e lo “spirito democratico” con cui il “Grande Geometra” aveva accettato la bocciatura di se stesso e della sua geometria – Hugo Chávez quella parola l’ha infine pronunciata. Anzi l’ha detta e ripetuta per non lasciar dubbio alcuno negli ascoltatori e soprattutto per sbollire, ascoltando se stesso, la rabbia accumulata nelle ultime 48 ore. Quella conseguita dall’opposizione – ha perentoriamente affermato – è stata una “vittoria di merda”. O, più esattamente: “Preparatevi, perché sta per cominciare una nuova offensiva con questa stessa riforma, trasformata, semplificata, perché il popolo sa che, se raccoglie le firme, si può sottomettere di nuovo a referendum in altre condizioni, in altro momento…già stanno riempiendo di merda la loro vittoria…la loro è una vittoria di merda e la nostra è una sconfitta piena di coraggio…”.
Questo ha detto Hugo Chávez, intervenendo “a sorpresa” nel corso di una conferenza stampa convocata dal Ministero della Difesa e dagli alti comandi militari per smentire – con il classico eccesso di zelo – una voce diffusasi nella notte di domenica: quella secondo la quale i dirigenti delle FAN (Fuerzas Armadas Nacionales) avrebbero fatto pressioni su di lui affinché riconoscesse la sua sconfitta. Nulla di più lontano dalla verità, aveva con gran forza sostenuto il ministro della Difesa, generale Gustavo Rangel Briceño, abbandonandosi ad una lunga e sperticata serie di elogi nei confronti dell’ “uomo eccezionale” che oggi guida (e per molto tempo ancora guiderà) la rivoluzione bolivariana. Eccezionale e, aveva con troppa foga aggiunto, “impresionable”, impressionabile, timoroso, che si lascia facilmente intimidire. Ovvero: l’esatto contrario di quel “no se deja presionar”, non si lascia influenzare, che, con tutta evidenza, il baffuto generale aveva in mente.
A parte questo minuscolo lapsus – certamente ridicolo, ma tutto sommato irrilevante – un altro è in realtà stato il più paradossale e, a suo modo, tragicomico effetto della conferenza stampa. Nato, infatti, per liberare da ogni ombra la “grande dignità”e la democratica spontaneità con cui, nella notte di domenica, Hugo Chávez aveva accettato la sconfitta, quell’incontro con i media s’è infine risolto, grazie al “non programmato” intervento del mandatario, in una maleodorante (metaforicamente) ed assai volgare (letteralmente) testimonianza della sua assoluta incapacità di accettare il responso delle urne. “…e le milizie bolivariane noi le creiamo lo stesso” aveva detto il presidente nel congedarsi, riferendosi, con un tono d’infantile ripicca, ad uno dei punti della riforma costituzionale appena bocciata. Insomma, si può continuare a discettare su quanto – o in qual grado – la presidenza di Chávez sia, in effetti, una dittatura (o, per contro, una democrazia). Ma un fatto era certo prima del referendum e resta certo oggi, dopo che Chávez – con una “dignità” subito gettata alle ortiche – ha riconosciuto d’aver perduto (senza tuttavia rinunciare a al progetto bocciato dal voto): il presidente bolivariano parla, pensa e si muove come un dittatore. Peggio ancora: quale che sia l’attuale natura del governo che presiede, parla, pensa e si muove come quella particolare specie di dittatore – la più deleteria e detestabile – che vede in se stesso un insostituibile uomo della Provvidenza. Insostituibile e, ovviamente, infallibile. Anzi, infallibilmente propenso a riversare sugli altri (o sui suoi subordinati, termine che, nel lessico chavista, è, in tutti i sensi, sinonimo di “altri”) le responsabilità delle sue autocritiche.
Un buon esempio di questa pratica è – sul piano storico ed a ben più alto livello – il famoso discorso con cui, nel 1970, Fidel Castro ammise il fallimento della “zafra da 10 milioni”. Ed un altro esempio è – tornando alla cronaca – quello che Chávez ha (piu modestamente, ma altrettanto chiaramente) offerto in queste ultime ore. Vediamo come. In una conversazione telefonica con il conduttore d’una trasmissione d’una delle molte Tv di stato, lunedì sera, Chávez aveva ammesso d’avere lanciato una proposta per la quale “i tempi ancora non erano maturi”. Ed a molti era parso d’intravvedere, nelle sue parole, il riconoscimento d’un errore d’analisi della realtà, nonché i prodromi d’un classico “passo all’indietro”. Nulla di tutto questo. Come lo stesso Chávez ha avuto modo di chiarire al suo primo incontro con la realtà che aveva male analizzato. Ossia: con il popolo dei suoi seguaci, riunitisi nel poliedrico di Caracas in occasione della cerimonia di “graduación” degli integranti della Missione Che Guevara. Altro che “tempi non maturi”! Tutti coloro che non si sono recati alle urne per votare a favore della sua proposta di riforma costituzionale (i famosi tre milioni di voti mancanti rispetto alle presidenziali del 2006) – ha detto, o meglio ha sbraitato il presidente bolivariano – non solo hanno, di fatto, “votato per Bush”, ma vanno considerati dei “fannulloni” e dei “codardi”, gente “priva di coscienza, di coraggio, di dignità rivoluzionaria, di fede”. E soprattutto gente ingrata. “Miranda (una delle più grandi città del paese n.d.r.) ha un debito con me – ha rabbiosamente sottolineato Chávez – Il popolo di Caracas ha un debito con me, lo tengo annotato qui. Vediamo se me lo pagano, o non me lo pagano…”.
Parole forti. Parole davvero “gramsciane”, per molti aspetti. Nel senso che con quasi caricaturale forza richiamano quel che Gramsci – un autore che Chávez cita spessissimo ma che, evidentemente, ha letto pochissimo – scrisse a proposito del “cadornismo” (da Luigi Cadorna, il generale che guidò le truppe italiane nella Prima Guerra Mondiale, fino alla sconfitta di Caporetto). Il leader politico che pecca di cadornismo è, per Gramsci, un burocrate della strategia. O meglio: è il leader che, elaborato uno schema strategico sulla base di quella che lui considera un’analisi logica della realtà, di fronte al fallimento della strategia dà la colpa non a se stesso, ma alla realtà. Ai soldati massacrati in trincea, nel caso di Cadorna. Ai “fannulloni codardi” che si sono astenuti dal voto, nel caso – più farsesco che tragico, ma egualmente deteriore – di Hugo Rafael Chávez Frías. Staremo a vedere. Il dopo-referendum è appena cominciato e molti “chavologhi” tornano a ripetere – riproponendo quello che è ormai diventato una sorta di proverbio – che per capire le vere intenzioni del presidente bolivariano bisogna guardare non a quel che dice, ma a quel che fa. Giustissimo. Anche se impossibile è non rilevare come quel che Chávez dice abbia, ogni giorno di più, un pessimo odore. L’odore, inequivocabile, della sconfitta.