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Auracanía tragica: Mapuches contro Mapuches

Questo articolo e stato originalmente pubblicato sul numero di luglio de “Il Fatto Quotidiano Millennium”, la rivista diretta da Peter Gomez.

Il rewe in legno sbuca intatto accanto alle bandiere del Cile e del popolo mapuche, in mezzo alle distese secche per il sole. Quello, non lo hanno bruciato. Le dimensioni esigue e l’apparenza defilata non devono ingannare sul significato di quel totem. È il simbolo più potente della cultura mapuche. Il più spirituale, il più rispettato: l’albero sacro su cui si posano gli spiriti. Forse è per quello che gli uomini che nel marzo dell’anno scorso hanno dato fuoco alla scuola di Las Cardas per la terza volta in pochi anni, distruggendone la maggior parte, lo hanno risparmiato. E anche se non hanno lasciato rivendicazioni, è noto a tutti che la firma di quei gesti è dei nuovi gruppi criminali che dicono di far proprie le battaglie che la gran parte dei mapuche porta avanti con metodi pacifici nella regione storica dell’Araucanía, nel sud del Cile: senza incendiare scuole e chiese, né assaltare i bus carichi di lavoratori né assassinare a freddo i tre carabinieri come nella recentissima imboscata sulla strada che porta da Cañete y Tirúa. E dire che quei tre erano pesantemente armati e le camionette erano blindate. Ma sono riusciti a farli scendere per sparare loro in viso e poi li hanno portati altrove e bruciati.

Un clima di terrore

Se è vero che quei criminali sono poco di più di quattrocento, un’esigua minoranza rispetto al numero totale dei mapuche, hanno cambiato la fisionomia del Wallmapu, il nome con cui gli indigeni chiamano il proprio territorio originario e che adesso fa impressione da quanti sono gli edifici distrutti dalle fiamme e i muri bucati dai proiettili. Si deve a loro se dal 2022 le scuole ridotte in cenere nella sola Araucanía sono state 26 e se gli assalti armati sono continui, a volte con feriti e morti. Prendi quello all’Ecomuseo Molino Grollmus di Contulmo, patrimonio architettonico a cui hanno dato fuoco ferendo gravemente tre persone di cui una, il proprietario Helmuth Grollmus, ha perso una gamba (le mutilazioni degli arti inferiori sono una costante per alcuni gruppi che hanno l’abitudine di sparare ai piedi delle vittime, lasciandole a dissanguarsi). Paradossale per organizzazioni che si piccano di rappresentare i mapuche è che molte vittime siano proprio di quel popolo: il sessantenne massacrato con armi da guerra nell’assalto all’autobus che lo portava a casa dal lavoro, o l’anziano che ha cercato di impedire a un gruppo armato di prendere possesso del proprio fondo, solo per citarne qualcun

Chiusi in casa dopo il tramonto

Sta di fatto che la gente ha smesso di muoversi di notte da una città all’altra, e spesso anche di giorno. Molti procuratori legali sono stati autorizzati a lavorare da casa per sfuggire agli attentati, e alcuni hanno deciso di trasferirsi, per proteggere le famiglie. Nella cittadina di Curacautín, la cuoca Doris ci racconta che nel ristorantino in casa dove serve magnifiche cazuelas soltanto tre anni fa andavano cento persone al giorno, adesso i clienti sono meno di dieci. E lei per la paura tiene aperto solo fino alle otto, poi si blinda dentro. Perfino i giornalisti hanno smesso di andare in quella zona da quando, nel 2021, un gruppo armato ha cercato di uccidere il reporter televisivo Iván Núñez mentre tornava da un’intervista a un leader storico. Gli hanno crivellato l’auto di colpi e se l’è cavata grazie all’abilità del cameraman alla guida, che nella sparatoria ha perso però un occhio. E infine le estorsioni. I violentistas si presentano alla casa di un agricoltore e gli dicono: o ci dai una parte del raccolto o ti mandiamo a fuoco tutto e ti facciamo fuori. L’infermiera e agricoltora Roxana Carrut ha fatto lo sciopero della fame per protestare contro lo Stato che non l’ha protetta, dice, dai continui assalti e dalle intimidazioni di quella gente che le bruciava i campi. E l’esponente del partido republicano, Héctor Urban, hanno cercato di ammazzarlo dentro casa, sparando all’impazzata e distruggendo i vetri antiproiettile. Poche ore prima avevano cercato di assassinare il padre mentre viaggiava in auto.  Stando a quanto ha raccontato alla polizia, quella famiglia di attentati ne ha subiti dal 2001 più di duecento.
 


“Saluti il rewe, dica “Buongiorno, rewe”. Il settantenne José Alberto Rodríguez è l’improvvisata guardia della scuola di Las Cardas quando è chiusa e quando è aperta insegna ai 40 ragazzini il mapudungun, la lingua mapuche. Saluto il rewe e chiedo se non ci siano stati testimoni. Rodríguez scuote la testa indicandomi lo spazio vuoto fino all’orizzonte, c’è solo una casa in giro ma senza segni di vita. “Molti non parlano perché hanno paura”. La scuola è un posto in mezzo al nulla a diciotto chilometri dalla città di Victoria. Il tassista particular è venuto a prendermi con un pullmino per gli alunni con la scritta Bus Escolar che dovrebbe scoraggiare gli assalti ma non per questo è meno preoccupato. “Qui, qualche giorno fa, un’auto mi ha tagliato la strada: sono saltati fuori tre uomini armati ma ho avuto la fortuna di scappare a retromarcia”.

Obiettivo: controllare il territorio

Gli scheletri anneriti delle impalcature sbucano solitari contro il cielo, soltanto poche sale si sono salvate ed è in quelle che gli alunni hanno deciso di continuare come se niente fosse, ragazzi dal primo all’ottavo anno che a differenza di molti altri scolari non hanno abbandonato l’istituto e anzi, dal giorno dopo si sono messi a raccogliere le macerie e a sistemare. “Sono dotati di una resilienza incredibile”, mi spiegherà nella sua casa di Victoria Juan Carlos Cortés, 47enne direttore dell’istituto in cui il 98% dei bambini sono mapuche che arrivano da zone povere, zone rurali. Professore, perché quei gruppi se la prendono proprio con le scuole dove quasi tutti i bambini sono mapuche?. “Per un problema di controllo del territorio. Vogliono reprimere lo sviluppo del pensiero critico e impedire alle persone di avere progetti, di crescere e migliorare”. Tace un momento e poi continua: “E poi, naturalmente, c’è la questione della droga. Vogliono campo libero per le piantagioni di droga”.

È un luogo di struggente bellezza, il Wallmapu, non fosse per la cappa di paura che si è insinuata ovunque. Foreste impenetrabili sfumano contro i profili dei vulcani, fiumi imponenti corrono tra le querce e i pini. Un reticolato di stradine sterrate taglia il territorio infilandosi tra gli alberi. Ovunque, nei boschi, vedi i cartelli rivendicativi: “Libertà per i prigionieri politici” e “Questo è territorio mapuche”.

Una storia complicata


Non è mai stata una storia semplice quella dei mapuche, ma un tempo era più facile sapere da che parte stare. Chi erano i buoni e chi i cattivi. Gli usurpatori e gli oppressi. L’unico popolo indigeno che resistette agli spagnoli al punto da costringerli ad accettare un accordo di pace tanto che ci convissero in relativa armonia fino a quando il Cile conquistò l’indipendenza. Molti mapuche combatterono con la Corona, ma quella perse ed ecco che cominciò l’espropriazione delle terre da parte dei coloni che arrivavano dall’Europa e dallo stesso Cile anche se più tardi, nel tentativo molto approssimativo di mettere ordine, i governi restituirono ai vecchi proprietari una parte dei terreni, ma dividendoli in lotti di pochi ettari, i cosiddetti Títulos  de merced.

I mapuche si impoverirono e appartenere a quell’etnia diventò uno stigma. Le cose migliorarono con la riforma agraria di Salvador Allende ma durò poco: diciassette anni di regime non solo affossarono qualunque rivendicazione, ma diedero via libera alle imprese forestali che nelle terre dei mapuche piantarono pini ed eucalipti dove un tempo c’erano solo querce e consumarono l’acqua necessaria alle piccole coltivazioni. Inevitabile che il mondo spirituale fatto di una cosmogonia che non contempla il lucro ma l’armonia con la natura venisse emarginato da logiche capitaliste.

Quella potente impalcatura fatta di lignaggio, lonkos e werkén, di guide spirituali più che gerarchiche venne penalizzata, fu proibito perfino di parlare il mapudungun e cantare l’inno mapuche. Caduto Pinochet, non fu per nulla facile aggiustare le cose e le misure stabilite dai governi democratici non riuscirono a risolvere la situazione se non in parte: una famosa ley indigena istituì la Conadi, un organo statale incaricato di individuare e comprare le terre un tempo dei mapuche e restituirle ai vecchi proprietari sulla base dei Títulos de merced, ma qui cominciarono i problemi. Molti ritenevano che quella restituzione fosse riduttiva rispetto alla situazione originale di un grande territorio ancestrale e indiviso. Un altro ostacolo era che sulle terre contemplate da quei Títulos sono state costruiti con il tempo quartieri cittadini.

Terre senza uomini, uomini senza terra

Secondo uno studio della società di ricerca Atisba, ad abitare quei terreni sono 420 mila persone. E in ogni caso le restituzioni della Conadi vanno per le lunghe. Da quando è stata istituita, trent’anni fa, soltanto il 41% delle terre è stato reso agli abitanti originari. Per contestualizzare: l’industria del legname rappresenta l’8% delle esportazioni del  Cile, che vende il 7% della polpa di legno del mondo e sfrutta 2 milioni 87 mila ettari di alberi, il diciassette per cento dei boschi del Paese. Nella sola Araucanía le grandi imprese forestali, in gran parte delle famiglie Matte e Angelini, quest’ultima di origine italiana, occupano il quaranta per cento del totale, 280 mila ettari, la sola holding Cmpc è proprietaria di 170 mila. E benché assicurino le ricadute nell’indotto, nella regione la povertà è dell’11,6%, quasi il doppio rispetto alla media nazionale.


Anche nella scuola di San Arturo, a metà strada tra Curacautín e Victoria, sono arrivati di notte. La donna di guardia è scappata con i figli quando gli incapucciati hanno appiccato il fuoco. “Aiutateci, per favore”, ha telefonato in lacrime al direttore, mentre guardava nascosta tra gli alberi la scuola che bruciava.
La zona è stata recintata, il cancello chiuso con un lucchetto e bisogna scavalcare per accedere a uno spazio vuoto in cui solo il cartello Escuela San Arturo segnala che da qualche parte c’era una qualche costruzione. Una signora mi viene incontro affabile, si chiama Angelica ed era la guardiana di cui hanno scritto i giornali. “Dov’è la scuola?”, chiedo. “È questa”, risponde indicando la distesa nuda intorno, con qualche pollo a razzolare e un cane. Una casupola è l’alloggio della donna, finché non troverà un posto meno pericoloso in cui andare a vivere. “Da quella gente è meglio stare alla larga”, bisbiglia quando le chiedo cosa pensi delle rivendicazioni armate. Gli alunni li hanno dovuto mandare in città, lo Stato non ricostruisce le scuole.

Una comunità divisa

Angelica è una di quelle che aspetta che la Conadi compri il pezzetto di terra che le spetta. Ha deciso di non occupare e di attenersi alla legge, anche se i tempi sono lunghi. Non tutti lo fanno. Il fatto è che tra i violentistas e quelli come Angelica il ventaglio di posizioni è ampio e questa è un’altra cosa che complica la narrazione: ci sono quelli per cui i cinquecentomila ettari dei Títulos  de merced sono una parte esigua dato che il territorio originale era molto più vasto, quelli che seguono la via istituzionale per le proprie rivendicazioni e quelli che li accusano di essere dei venduti. In quel bordello di ragioni contrapposte e di rancori sono prosperati i violenti gruppi armati. Ad appoggiarli sono una minoranza, ma intanto ci raccontano che adolescenti delle comunità radicali si lasciano affascinare dal discorso di guerra allo Stato, e ultimamente anche dalle prospettive del denaro facile assicurato dal traffico di droga e armi, e dal furto di legname.


Ed è così che i mapuche dell’Araucanía si dividono dato che tra l’altro una gran parte vota a destra, ci sono perfino attivisti di quella parte politica. Ma la domanda sulle differenze tra mapuche irrita Alberto Curamil, cinquantenne attivista di Curacautín che ha vinto il premio Goldman nel 2019, considerato il Nobel per l’ambiente, per aver lottato con successo contro la costruzione di due centrali idroelettriche sul fiume Cautín. È piccolo e gentile ma si infiamma quando parla di quelli che vengono in Araucanía per lucrare e il lucro lo ossessiona al punto che mi chiede, di colpo diffidente: “Ma non è che questo reportage lo stai facendo per guadagnare?”.  Siamo seduti sulla riva del fiume Cautín davanti allo spettacolo stupefacente della vegetazione che scende fino all’acqua, dei sassi candidi che coprono il terreno fino all’orizzonte.

Differenze di metodo?


“Le nostre differenze sono soltanto di metodo”, assicura Curamil. “Tutti i mapuche vogliono la restituzione delle terre. Che se ne vadano le forestales e tutti quelli che stravolgono gli equilibri naturali”. Subito dopo che i lavori per le idroelettriche erano stati sospesi, venne arrestato per una presunta rapina. Si fece sedici mesi di carcere preventivo ma poi lo rilasciarono per mancanza di prove e adesso la sua opinione dello Stato è pessima. “La repressione è fortissima”, spiega. “C’è molto razzismo e lo stato d’emergenza è una vergogna”. Lo stato d’emergenza significa che hanno mandato i militari a controllare l’Araucanía, data la spaventosa escalation di violenza. L’attuale presidente Gabriel Boric aveva dichiarato nei primi mesi del suo insediamento che non avrebbe prorogato quella misura promulgata dal suo predecessore di destra SebastiánPiñera, ma poi ha cambiato idea: la situazione era diventata insostenibile e l’opposizione lo accusava di ignavia. Adesso non c’è mapuche che non lo accusi di essere come gli altri presidenti, nonostante si sia presentato come quello più a sinistra dal ritorno alla democrazia. “La risposta del governo è stata essenzialmente punitiva”, è l’opinione di Federico Aguirre, direttore del Instituto Nacional de Derechos humanos di Temuco. “Ci si limita ad applicare leggi eccezionali mentre per combattere la violenza bisogna capire le ragioni che hanno provocato il terrorismo, per esempio non si è mai fatto nulla per migliorare le condizioni di questa terra in cui manca quasi tutto: le scuole e gli ospedali, il lavoro”.

Il fuoco nella cattedrale

La prima chiesa sotto la giurisdizione di padre Mario Ross a cui hanno dato fuoco è stata quella di Bayo Toro, il 16 giugno del 2022. Lo hanno svegliato nel cuore della notte, quando le fiamme avevano mangiato i muri e della costruzione era rimasta solo cenere e lui ci ha messo un po’ a capire, da tanto non se l’aspettava. Nella cattedrale di Temuco in cui fa base ci riceve con un’espressione bonaria che si incupisce quando ricorda quell’attacco. “Sono quasi morto per lo spavento ma soprattutto pensavo ai fedeli, gente molto umile che in quella chiesa aveva un punto di riferimento”.

Si sarebbe abituato. Il 10 novembre venne distrutta dalle fiamme la chiesa della comunità di San José de Cautín. Il 4 marzo del 2023 toccò a quella di Nuestra Señora de los Rayos di Victoria e nove giorni dopo al Sagrado Corazon del sector Amaza de Selva Oscura. L’ultimo attacco risale al 30 luglio 2023; la chiesa era quella della comunidad Santa Rosa de Lima del settore Alto Quino. Tutte ridotte in cenere.

Ha idea di chi siano, padre? “No, hanno lasciato dei cartelli rivendicativi ma capisco poco di queste cose. Però certo è gente di fuori”. Di fuori? Stranieri? “No, stranieri no, dicono di Temucuicui”. Ne parla come fosse Marte, e invece è a meno di due ore. Il fatto è che quello è il posto più pericoloso dell’Araucanía, più tristemente celebre: poco più di mille abitanti divisi in due comunità, quella tradizionale e quella autonoma . Quest’ultima è accusata di dedicarsi alla droga. Per accedere bisogna avere un permesso di entrambe ma ultimamente non c’è verso di ottenerlo. Perfino l’ex ministra dell’Interno Izkia Siches l’avevano accolta sparando quando si era recata con proposte di pace e con tanto di autorizzazione della comunità tradizionale nel marzo del 2022. Nemmeno i messi per il censimento sono autorizzati a entrare. Per non parlare della polizia.

Le sigle della violenza

L’operazione più imponente c’è stata nel 2021: ottocento uomini della PDI (Policia de Investigaciones) entrarono per arrestare i narcos, ma quelli reagirono e spararono e un poliziotto venne ucciso. Un alto ufficiale della polizia che per prudenza mi chiede di incontraci in una città a un’ora da quella in cui vive e di restare anonimo mi racconta di un’operazione dell’ottobre scorso: in quattrocento e con autoblindo hanno fatto irruzione per arrestare cinque narcos responsabili di attentati e solo con difficoltà ci sono riusciti. Le piantagioni sono solo immaginabili dall’elicottero: giganteschi teli bianchi coprono le distese.

Dunque, i gruppi più violenti e attivi sono la Resistencia Mapuche Malleco (RMM), la Weichán Auka Mapu (WAM) e la Resistencia Mapuche Lafvenke (RML). In una sommaria ripartizione di competenze, è alla RML che si addebita l’omicidio dei tre carabinieri di qualche settimana fa oltre che traffico di droga e furto di legname. La WAM sarebbe responsabile di incendi nelle chiese che considera l’avamposto del colonialismo mentre è agli incendi di scuole, assalti agli autobus ed estorsioni che si dedica la RMM, oltre che al furto di legname in qualche caso in combutta con poliziotti e imprenditori (per inciso, quella pratica è uno dei grandi business illegali dell’Araucanía: soltanto l’anno scorso il giro di soldi ammontava a 75 mila milioni di pesos anche se solo una piccola parte sono addebitate ai mapuche). I social sono pieni delle foto che i gruppi armati divulgano con molto orgoglio e dove posano in abiti militari, incapucciati e con armi da guerra. Individuarli è complicato, però ogni tanto qualcuno lo prendono. L’ultimo arresto è di qualche settimana fa, il tipo si chiama Luis García-Huidobro, biondo rampollo di una delle famiglie più aristocratiche del Cile: politici di alto livello, scrittori e diplomatici, premi nazionali nelle arti e nella scienza. È un ex gesuita che ha lasciato gli ordini per unirsi alla causa mapuche. Lo accusano di essere uno dei fondatori della WAM e anche se nega, è vero che ha sempre sostenuto che dar fuoco alle chiese fosse un gesto lecito, che pure Cristo aveva ribaltato il Tempio. García-Huidobro non è di quella terra, arriva da Santiago, mentre è di Concepción l’altro presunto leader della WAM, Emilio Berkhoff, beccato con 824 chili di pasta base nel 2020 e condannato a tredici anni. Ex studente di antropologia della prestigiosa Universidad Católica di Temuco e conosciuto con il soprannome di “Zapata” a cui si ispira, a lui si devono anche assalti incendiari e traffico d’armi.
Mapuche doc è invece Jorge Huenchullan, ex rispettato leader della Comunidad  autónoma  di Temucuicui e adesso ricercato per traffico di droga, un’accusa da cui pochi dei suoi antichi amici lo difendono. E poi ci sono personaggi difficili da inquadrare come Mijael Carbone, leader della comunità  tradizionale sempre di Temucuicui, che di recente è stato dentro con l’accusa di furto di legname. “Molto volentieri le concederò un’intervista”, mi aveva detto prima di sparire nel nulla.

I “confini” delle violenza


Dal carcere di Concepción in cui è rinchiuso dall’agosto del 2022 per una serie di reati per cui poi sarebbe stato condannato, nel maggio scorso, a 23 anni di prigione, Héctor Llaitul sbotta di continuo con chi scrive nei quattro mesi in cui dura il nostro scambio virtuale. Mi aveva contattato lui per discutere di un’intervista che avrei dovuto fargli e di cui al principio era entusiasta, salvo cambiare idea quando  aveva deciso che non ero funzionale alla sua causa e che facevo domande come un agente del governo. Llaitul è il fondatore del primo gruppo armato dell’Araucanía e del più famoso, la Coordinadora Arauco Malleco, inaugurata nel 1997 con l’attacco a tre camion della forestale Arauco a cui diede fuoco in quella che fu la prima di centinaia di azioni rivendicative. L’obiettivo è l’autonomia del Wallmapu ma la violenza si limita al sabotaggio: incendio di macchinari e occupazione di terre, poi certo è legittimo difendersi quando arrivano i carabinieri, dice Llaitul la cui profonda convinzione è che il popolo mapuche vincerà, alla fine. Ma intanto è stato in carcere venti volte, e in un caso per dieci anni. Nel suo irritante dogmatismo spiega con appropriatezza le ragioni del suo popolo, diverso da quello cileno perché ritiene che la terra serva per la sopravvivenza, non per moltiplicare il capitale. E anche per il rispetto dell’ambiente che non è, dice, l’ecologismo di facciata dei cosiddetti progre, ma una cosmogonia in cui la natura è una cosa viva. Considera yanaconas, traditori, non solo i mapuche che fanno affari loschi con le forestali ma anche quelli che vendono la droga e i ladri di legname. Ed è per questo che sorprende sia colpevole di quel furto di oltre 400 milioni di pesos per cui lo hanno condannato, insieme ad altri reati per violazione della ley de seguridad.


Per molto tempo Boric aveva corteggiato Llaitul ma non era stato ricambiato. Il presidente era stato pro mapuche fino al masochismo e il suo rispetto per il leader della Cam era  arrivato a farlo sciogliere pubblicamente in lacrime quando sembrò che il figlio Ernesto fosse stato ucciso dai carabinieri nel corso di un’occupazione. “L’indignazione ci travolge ma non ci paralizza. Non permetteremo l’impunità eccetera eccetera!”, aveva gridato l’allora deputato.  Saltò fuori che la vittima non era Ernesto ma tant’è. Il leader non soltanto non aveva ringraziato Boric, ma lo definì quando fu eletto presidente “uno stronzo grassone”, assicurando che quell’uomo avrebbe decretato la sua fine. Il fatto è che quella dei mapuche è sempre stata una battaglia di sinistra, ed è per questo che il presidente impiegò tanto a querelare Llaitul, un requisito necessario perché venisse processato. Fino a metà del 2022 aveva dichiarato che i proclami del celebre werkén erano opinioni, e il suo governo non perseguiva le opinioni. La luna di miele finì quando Llaitul cominciò a chiamare alle armi. D’altronde, il werkén considera questo governo peggiore della destra, a maggior ragione adesso che le camere hanno approvato una ley di usurpaciones che inasprisce le pene per chi occupa i fondi altrui.

I frutti avvelenati della dittatura


Se parli con l’avvocata di Llaitul, Victoria Bórquez, ti dirà che la condanna del suo assistito è politica. “Non c’erano prove e quelle portate dalla difesa non le hanno considerate”. È un’affermazione che ascolti spesso quando ti raccontano dei processi ai mapuche, a maggior ragione per Llaitul che non è uno qualunque. Intanto è colto e intelligente, tanto che il noto intellettuale Jorge Arrate ci ha scritto un libro a quattro mani. Ai tempi della dittatura militò nell’organizzazione di sinistra Frente Patriotico Manuel Rodríguez, venne arrestato e torturato. Sulla violenza Llaitul ha una sua etica. “Quando mai ha visto sul mio petto un cartello in cui scrivo di attaccare qualcuno?”, aveva sbottato in una delle nostre discussioni. Non ha perso il piglio battagliero neanche nel mese in cui si è sottoposto a uno sciopero della fame, uno delle decine della sua storia ribelle. Eppure quello sciopero non ha scaldato gli animi.

Scioperi della fame

E dire che gli scioperi della fame dei mapuche hanno riempito fino a qualche tempo fa le prime pagine dei quotidiani. Di questo invece si è parlato poco, sarà che molti mapuche sono stufi di quell’intransigenza, di quella lotta corpo a corpo a corpo con lo Stato che non porta a niente. Aumenta il numero di quelli che hanno accettato di mettersi in società con le forestali, dopo che per decenni le avevano attaccate, mentre a loro volta quelle imprese tengono corsi di formazione per insegnare ai dipendenti la cultura di quel popolo. Il colpo più forte alla causa mapuche è arrivato con la formazione della prima assemblea costituente in cui fu nominata presidente la docente mapuche Elisa Loncón  e quelli come Llaitul l’accusarono di essere una venduta.

Ecco, se metti insieme quelle posizioni e l’escalation di violenza, il raffreddamento verso la causa mapuche è bello che spiegato. E nella percezione generale tutti i gruppi armati fanno parte dello stesso calderone come ritiene Claudia Lillo della Multigremial Araucanía,  associazione che riunisce gran parte delle imprese della regione, mapuche e non. Per Lillo non solo i violentistas sono tutti terroristi ma all’origine della violenza c’è proprio quella Ley Indigena che a suo parere è stata un fallimento. “L’unica forma di compensazione che ha previsto è stata la consegna di terre che spesso sono lontane dalle città e in zone in cui non c’è acqua potabile né fogne. Allora perché non dare ai mapuche una piccola attività in una città?”.

Camilo, Toño e altri martiri

Non sono pochi a pensare che gli arresti di mapuche siano spesso pretestuosi. Lo storico e docente universitario mapuche Fernando Pairican sostiene che la colpa è del razzismo: quando si tratta di attivismo mapuche quel sentimento si tradurrebbe in comportamenti persecutori. “Qualunque attivista mette in conto che prima o poi verrà perseguitato o arrestato”.
La storia di quel popolo è costellata di quegli episodi, alcuni hanno marcato un prima e un dopo nei rapporti con lo Stato, già tesissimi, come l’omicidio del 24enne Camilo Catrillanca a Temucuicui, assassinato da un carabiniere durante un’operazione del cosiddetto Comando Jungla. O quello di Pablo Marchant, detto Toño, ucciso dalla polizia mentre occupava insieme ad altri un fondo. E poi c’è la questione calda dei reati di terrorismo che risale alla dittatura: quando una legge nata per colpire i dissidenti venne applicata pure in democrazia ai delitti commessi più di frequente dai mapuche.

Davanti alle proteste delle organizzazioni dei diritti umani, con il tempo si sono mitigati i requisiti: per esempio si macchiava di terrorismo chi commetteva un reato per provocare terrore nella popolazione. Come capire però se il reo voleva o meno seminare il panico? Davanti a questo stillicido di incertezze, è stata approvata di recente dal Senato una nuova legge che stabilisce regole certe: un reato rientra nella categoria del terrorismo se l’obiettivo di chi lo commette è destabilizzare le strutture politiche, sociali ed economiche dello Stato.

Quel che ho visto a Lof Toquihue


Bisogna andare in una delle tremila comunità per capire la causa mapuche. Sono abitate da poche centinaia di persone, le case sono basiche ma accedervi non è per nulla facile. Sono richiesti lunghi ed estenuanti protocolli che di solito non portano a niente. A meno che non ci sia qualcuno che garantisce per te come nel caso di Pamela Villalobos, direttrice della scuola della comunità di Lof Toquihue, un’eccellenza tra gli istituti di quel genere dal 2018, e forse per questo la comunità le ha detto ok, la porti pure questa giornalista winka (non mapuche) e a quel punto ci siamo avventurate nella solita strada accidentata fino a quel pugno di case in cui mi hanno accolto con calore, cibo e bevande e una disponibilità a parlare a cui non sei abituata, a girare per l’Araucanía. Sono sì e no trecento abitanti, il presidente si chiama Jorge Polo e parla come un accademico che cita Churchill anche se ha la quarta elementare.

Quando arrivò Pamela a dirigere la scuola quella comunità era un po’ diversa e anche la scuola era un’altra storia: un localino spoglio, senza internet. Oggi ci sono dieci addetti tra cui professori e uno psicologo e la comunità è cambiata a mano a mano che cambiava la scuola, e aumentava l’orgoglio per quei ragazzini che si entusiasmavano a studiare e cominciavano ad avere ambizioni diverse da quella di occupare terre con la forza e a pensare che forse ci si poteva battere per il riscatto della propria gente in altri modi. Il grande istituto è un posto luminoso con stanze tappezzate dai disegni dei bambini e da graffiti mapuche. “Voglio che i miei figli diventino professionisti e che contruibuiscano allo sviluppo della nostra cultura”, mi dice Sandra Collinao. Intorno alla scuola, casette con i muri colorati e strade smosse. Più in là, campi di fragole e di pomodori come quelli che Sandra e il marito Ramón hanno ottenuto dopo averli occupati pacificamente. Anche la strada asfaltata che avranno a breve l’hanno ottenuta in pace: oggi è così malmessa che quando piove è impossibile percorrerla.
legami di sangue a cavallo della collina


Ora, Lof  Toquihue  confina con Temucuicui, soltanto una collina bassa le divide mentre a unirle ci sono legami di sangue visto che il presidente di Toquihue è di lì. Ed è da lui che sentiamo la prima voce dissonante su quel posto. “Non è vero che è violento, è una montatura per giustificare la repressione”. Don Jorge, scusi, ma se non fanno entrare neppure quelli del censo, e sparano alla polizia. “Guardi, stando a un accordo firmato con lo stato non si può entrare nelle comunità senza autorizzazione”. Polo è di quelli che rivendicano le battaglie radicali e adotta la versione di molti attivisti: minimizzare la violenza e denunciare la montatura. E anche gli altri comuneros sono teneri con la comunità vicino. “Prima venivano a rubarci gli animali”, ci dice una ragazza. “Di notte scendevano dalla collina e solo la mattina ci accorgevamo che erano spariti. A quel punto andavano a riprenderceli, sempre passando dalla collina. Loro sparavano in aria per farci paura, ma noi ce le portavamo via comunque. Per il resto, abbiamo buoni rapporti, la nostra è una causa comune”.


Anche Juan Carlos Cortés tenta di ottenere il più possibile con il dialogo e con una instancabile attività di negoziazione in cui si è guadagnato le stelle dell’interlocutore da tenere in conto. E dire che non era facile lavorare con le comunita di quella zona della scuola di Las Cardas. Un posto duro, e la mentalità di molti comuneros per cui lo Stato è il nemico. Il professore si è ostinato a praticare il dialogo perfino con i poliziotti adibiti al monitoraggio della scuola e con i carabinieri che dopo il primo attacco l’hanno presidiata per un anno: molti li ha messi a suonare con gli alunni.
Un altro modo in cui motiva i suoi ragazzi è lo sport. La squadra di atletica di Las Cardas è arrivata alle finali nazionali. Anche Juan Carlos è convinto che il presidente abbia fallito nella gestione del conflitto dell’Araucanía. “L’unica politica che ha applicato è stata quella punitiva, non ha provato a risolvere i problemi partendo dalle cause”. Ed è così che quelli come lui e Pamela provano nel loro piccolo a lavorarci loro, su quelle cause. Non che sia facile. Nella sua ultima Cuenta Pública, Boric ha parlato del dolore per il conflitto nell’Araucanía e ha espresso la ferma volontà di dialogare. Ma qui lo ascoltano distratti, come  hanno fatto con quelli prima, e non si sa sia un pregiudizio o l’abitudine alla disillusione, o la consapevolezza di una causa che se non è proprio persa è difficile da vincere. 

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