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Trump, re nudo alla Convention di Milwaukee

Tutti lo avevano, nella più facile delle profezie, previsto: la Convention repubblicana sarebbe stata, in quel di Milwaukee, Wisconsin, non la tradizionale mega-assemblea di partito chiamata a nominare uno dei due candidati alla presidenza, ma una cerimonia di incoronazione. Più ancora: un vero e proprio processo di beatificazione, la celebrazione d’un santo martire e, insieme, d’un eroe patrio, il prologo d’una vittoria ormai data per scontata e, conseguentemente, d’una collettiva redenzione.

Questo la Convention doveva essere e questo in effetti è stata. Ameno fino all’istante in cui il santo martire e l’eroe – per tutta la durata della cerimonia seduto al centro di una “tribuna VIP” coreograficamente allestita come una sorta d’altare – non ha fatto la sua solenne apparizione sul palco. O, più esattamente, fino all’istante in cui il beatificando, anzi, il beatificato non ha cominciato, dopo un inizio (una decina di minuti) condizionati dal teleprompter, ad esprimersi liberamente.

Perché è stato in quel momento che – almeno a quanti non fossero parte del culto – una cosa è apparsa inequivocabilmente chiara: su quel palco non c’era né un santo, né un eroe, ma…Donald Trump. Il Donald Trump di sempre. Non un personaggio trasfigurato dal suo incontro ravvicinato con la morte, non il messia atteso dalle masse e, soprattutto, non l’ “unificatore” che era stato da lui medesimo preannunciato, bensì il cotonato narcisista, l’instancabile – come sempre incoerente e sgrammaticato, ma per l’occasione anche molto logorroicamente noioso – inanellatore d’auto-incensatorie frottole. Un oratore il cui discorso d’incoronazione è per molti aspetti stata la contrapposta replica della disastrosa performance di Joe Biden nell’ultimo dibattito presidenziale, la scialba, patetica esibizione d’un candidato troppo vecchio, troppo “mentalmente andato” – “scatteredbrained”, come si dice in inglese – per ricoprire la carica di presidente del più poderoso paese del pianeta. Tanto che – non fosse Trump, contrariamente a Biden, un ormai intoccabile oggetto di culto – con ogni probabilità anche lui si troverebbe oggi a fronteggiare le medesime richieste d’abbandono della corsa che (ora, pare, con qualche possibilità dui successo) gran parte dell’establishment democratico va, più o meno delicatamente, rivolgendo al presidente in carica.

Nessuna proposta politica. Solo l’annuncio d’un Redentore

Tutto era stato preparato con cura. E con cura – trattandosi per l’appunto non della nomina d’un candidato e del suo programma di governo, ma d’un processo di beatificazione – la Convention era stata depurata d’ogni vera intonazione politica. Nessuna vera “piattaforma”, nessun elenco di cosa da fare o da evitare, nessuna vera proposta che non fosse, per l’appunto, l’annuncio d’un redentore. Solo 16 paginette che, tutte vergate, si dice, dal medesimo Trump, sostanzialmente si limitavano a contrapporre l’oscurità del presente alla luce d’un futuro provvidenzialmente prossimo. Ovvero: un paese al bordo dell’apocalisse per via della “invasione” di milioni immigrati illegali, o meglio, di milioni di delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali, ma pronto grazie al messia ad incontrare di nuovo la sua passata grandezza. Il tutto, non senza grotteschi risvolti come la riproduzione del classico “flaming” – frasi tutte in maiuscolo – con cui Donald Trump usa scrivere i suoi post sui sociaL. “LA PIÙ GRADE DEPORTAZIONE DELLA STORIA!”, “CHIUDERE LA FRONTIERA!!“, “MAKE AMERICA GREAT AGAIN!!!”. Qualcosa del genere, del resto, già era accaduto durante la Convention del 2020, nel pieno della pandemia. In quell’occasione il Partito Repubblicano non aveva, addirittura, presentato alcuna piattaforma, all’insegna d’un principio riassumibile in cinque semplici parole, anch’esse in metaforico flaming: “TUTTO QUELLO CHE TRUMP DESIDERI”.

La coreografia era stata, fino alla discesa in campo di Trump, praticamente perfetta. Meglio ancora: perfettamente calibrata sulla finale apparizione del santo-eroe che “God Almighty” – altro indiscusso protagonista dell’evento – aveva salvato perché lui potesse salvare l’America. Lo stesso Trump aveva, subito dopo l’attentato, preannunciato d’essere entrato in una fase di “spirituale meditazione” e d’avere, per questo, completamente riscritto il suo intervento conclusivo. Quello che era originalmente un “humdinger”, un discorso destinato ad infiammare, aveva detto, sarebbe diventato un ecumenico invito all’unità e alla concordia. Il Trump che tutti s’attendevano sarebbe stato – questo prevedeva la perfetta organizzazione dell’evento – un santo e un eroe. Un santo, un eroe ed un “leone”. Lo stesso “leone”, che una settimana prima, il volto coperto di sangue aveva levato il suo pugno al cielo invitando alla lotta (una scena, questa, che in innumerevoli interventi è stata definita come tra le più importanti e significative della Storia patria), ma anche un leone che, pur ruggendo ed incutendo timore, anzi, proprio perché ruggiva ed incuteva timore, portava tranquillità e pace. Fight, gight, fight, lotta, lotta, lotta, era il più frequente tra gli slogan che, agitando il pugno, era andata fino a quel momento scandendo la platea.

“Mio padre – aveva detto suo figlio Don Jr. nel suo intervento – ha affrontato il pericolo con il cuore d’un leone”. E sua nuora, Lara Trump, moglie di suo figlio Eric, recentemente assurta al ruolo di segretaria del partito, aveva solennemente fatto ricorso ad un antico detto: “The wicked flee, though no one pursues. But the righteous are as bold as a lion”. Mentre i malvagi fuggono anche se nessuno li insegue, i giusti sono audaci come leoni. E Tim Scott, il senatore afroamericano della Georgia che Trump ha (si fa per dire) fronteggiato nelle primarie, era da par suo andato anche oltre: “Sabato scorso il demonio è venuto il Pennsylvania imbracciando un fucile, ma un leone americano si è rialzato ed ha ruggito”.

…ma il leone non ha ruggito

Poi il leone che aveva ruggito e che portava pace è infine apparso. E per quindici minuti, leggendo dal teleprompter, ha con toni sommessi (per l’appunto: in apparenza “spiritualmente meditati”) rievocato in dettaglio le sequenze e le emozioni dell’attentato, nonché la “serenità” che, in quei tragici momenti, gli aveva dato la coscienza di avere “God on my side”, Dio dalla mia parte. Lo faccio oggi – ha detto Trump– e mai più lo rifarò perché troppa pena mi costa raccontarlo”. Ed ha quindi ribadito: “Se sono qui oggi è solo per la grazia di Dio Onnipotente”.

Poi ha reso omaggio al pompiere – la cui divisa era stata collocata in un angolo del palco – che, non protetto dalla grazia di Dio Onnipotente, è rimasto ucciso nella sparatoria. Ed è stato a conclusione di questa toccante cerimonia che, reimpossessatosi l’oratore del podio, sono scomparsi il santo, l’eroe ed il leone ed è riapparso Donald Trump, pronto a regalare – per dirla con l’Ulisse di James Joyce – uno dei suoi sconclusionati “stream of consciousness”, flussi coscienza.

È stato, il suo, un discorso compiutamente trumpiano, totalmente “rambling”, divagante come sempre. Anzi: peggio di sempre. Un guazzabuglio di inconclusi concetti, marcati da un costante passar di palo in frasca o, fuor di metafora, di frottola in frottola, un minestrone di asserzioni dalle quali emergevano, in un effluvio di falsità ed un susseguirsi di spesso incomprensibili ricordi personali – prevalentemente esempi, nelle intenzioni, di come lui avesse, a più riprese, messo a posto con le classiche “due parole” altri leader mondiali – due contrapposte e ovviamente inesistenti Americhe: quella attuale devastata, non solo dalla invasione di stranieri criminali, ma da una inflazione paragonabile solo a quella della Germania di Weimar, paragonata a quella che, da lui governata per quattro anni, aveva conosciuto – altra ridicolaggine statistica – “la più prospera economia della storia del mondo”. E, a proposito di mondo, questo ha confusamente ribadito Trump, è lo stato delle cose: la Terza Guerra Mondiale è alle porte e lui soltanto la può evitare, grazie al timore che la sua sola presenza impone. Perché solo di questo – della sua presenza – il mondo ha bisogno per salvarsi dall’apocalisse nucleare.

Solo una cosa – al di là, ovviamente, dello smisurato, grottesco ego dell’oratore – è in realtà emersa con sufficiente chiarezza all’inizio di questo minestrone di parole e frottole: quale siano, per Trump, i presupposti della “unità nazionale” da lui invocata. Semplicemente: cancellare tutti i procedimenti giudiziari che lo riguardano. È il suo essere al di sopra della legge la condizione prima della “pace” di cui si dice portatore.

Un discorso lungo, sgangherato e noioso

Nessuna novità, dunque? Non esattamente. Perché in realtà – come sopra accennato –  Donald Trump è riuscito anche, cosa che mai prima era accaduta, ad essere noioso. Il suo discorso – se discorso si può chiamare il confuso effluvio di parole da lui regalato ad una adorante platea – è durato 93 minuti ed è stato, riferiscono i media, il più lungo della storia degli “acceptance speech” che chiudono le Convention.

Chissà, dopo tanto beatificare, la platea s’aspettava forse di incontrare, alla fine della cerimonia, un vero messia pronto a trasformare l’acqua in vino o a lievitare in una luce soffusa durante il discorso d’accettazione. S’è invece trovata di fronte – pur senza perdere la fede – ad un deambulare retorico che, inevitabilmente, raffreddava i più sacri entusiasmi. Pochi sono stati gli applausi, molte le battute di spirito (o che tali credevano d’essere) dell’oratore, cadute nel vuoto. E solo il periodico ricorrere a collaudati slogan – MAKE AMERICA GREAT AGAIN! – è a tratti riuscito a riscaldare l’ambiente. Un autentico anti-climax, il contrario della pronosticata apoteosi, un’inattesa caduta di tensione al termine d’una assemblea svoltasi nella più favorevole delle circostanze politiche – con un partito repubblicano sugli scudi ed un partito democratico allo sbando – e forte della più perfetta delle organizzazione. Trump doveva essere beatificato ed incoronato. Ed incoronato è stato. Peccato che alla fine – un po’ come nella favola di Andersen – il re si sia presentato nudo alla cerimonia.

Donald Trump il più impopolare dei re

E adesso, che accadrà? La Convenzione di Milwaukee e la nudità di Trump – che nudo evidentemente è, ma solo per i bambini, cioè solo per coloro che non son parte del culto – in fondo non ci ha riportato al cuore del problema. Che è la crisi profonda, storica o, se si preferisce, epocale del sistema politico americano. E di riflesso della sua democrazia. Il grande paradosso di questa corsa presidenziale è, infatti, con tutta evidenza questo: si tratta di una gara di impopolarità. Impopolare – perché percepito, con molte buone ragioni, come vecchio e fragile – è Joe Biden. Ed altrettanto impopolare, a dispetto del fanatismo che circonda, è Donald Trump. Il quale resta l’unico presidente che – da quando questi sondaggi sono nati – durante il suo mandato mai si sia avvicinato al 50 per cento di gradimento. E che ancor oggi, appena al di sopra dei livelli di Biden, viaggia intorno al 41-42 per cento.

Joe Biden (se reterà in corsa) è oggi la migliore arma nelle mani di Trump. E Trump è l’unico asso nella manica di Joe Biden. Perché Biden e Trump sono – ci dicono inequivocabilmente i sondaggi – i personaggi che meno d’ogni altro la stragrande maggioranza degli americani avrebbe voluto vedere correre per la Casa Bianca in una indesiderata replica della sfida del 2020.

Come finirà questa corsa ancora è impossibile prevedere. Quello che già si può dire – la vera tragedia che stiamo vivendo – è che, ben oltre la corsa, continuerà la crisi.

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