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Saturday, December 21, 2024
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Butler prima di Butler, violenza politica in U.S.A

Ancora nulla – quasi nulla o, comunque, molto poco di quel che è necessario conoscere per capire quel che è accaduto – si sa dell’attentato consumatosi ieri a Butler, In Pennsylvania, durante un comizio di Donald Trump, ex presidente e candidato repubblicano. O meglio, si sa quel che si è visto e sentito – il suono d’un paio di colpi d’arma fuoco, Donald Trump che, toccatosi l’orecchio destro, si getta a terra scomparendo dietro il podio, gli uomini dei servizi di sicurezza che lo circondano e immediatamente lo allontanano dalla scena, lasciando appena intravvedere il volto rigato da un paio di rivoli di sangue dell’ex presidente, ancora ben cosciente ed in grado di salutare con il pugno levato gridando parole non udibili. Si sa che l’uomo che ha sparato – pare da un punto elevato fuori dal recinto del comizio – è stato poi ucciso dai servizi di sicurezza e che due dei partecipanti al comizio di Trump sono morte nella sparatoria.

Guardando oltre (o prima) della tragedia di Butler, si sa anche – lo si sa percorrendo i 250 anni della storia degli Stati Uniti d’America – che la più antica democrazia del mondo” detiene in materia di attentati omicidi anti-presidenziali, si tratti di presidenti in carica, ex presidenti o aspiranti presidenti, quello che è, con ogni probabilità, una sorta di record mondiale. Quattro presidenti assassinati (Lincoln 1865, Garfield 1881, McKinley 1901, Kennedy 1963). Almeno otto attentati giunti a compimento, ma conclusisi senza la morte del presidente: Andrew Jackson 1835, Theodore Roosevelt 1912, Franklin Delano Roosevelt 1933, Harry Truman 1950, Richard Nixon 1974 (anche se il potenziale attentatore, un sequestratore d’aereo, venne ucciso ben lontano dalla Casa Bianca); Gerald Ford, per due volte, nel 1975, Ronald Reagan 1981). E se a questo si aggiungono gli attentati in avanzata fase d’organizzazione, scoperti prima che si consumassero,  nonché una lunga serie di episodi mai completamente chiariti – perlopiù uomini armati sorpresi  in atteggiamenti sospetti in luoghi dove il presidente del tempo stava presenziando (o stava per presenziare) una pubblica manifestazione – si raggiunge una cifra pari, secondo il recente calcolo di uno storico, a quasi il triplo dei 44 inquilini succedutisi alla Casa Bianca nell’ultimo quarto di millennio.

Un impulso al mito di Trump martire

Le prime reazioni sono state, del tutto prevedibilmente e giustamente, di universale condanna per l’accaduto e di piena solidarietà umana e politica con il bersaglio della sparatoria (le indagini sono state aperte per tentato omicidio) e di cordoglio per le due vittime della sparatoria. Quello che comunque, pur nell’assenza di fatti certi, si può con quasi certezza anticipare è che, quali che siano i risultati delle indagini in corso, la tragedia consumatasi in Pennsylvania entrerà di prepotenza a far parte della “martirologia” che da mesi fa da colonna sonora alla campagna di Donald Trump. L’ex presidente ha più volte – in virtù dei molti processi che lo vedono imputato o già condannato – paragonato sé stesso a Nelson Mandel, Alexei Navalny e Gesù Cristo. E solo qualche mese fa non ha esitato – subito smentito e coperto di ridicolo – a sostenere che gli agenti del FBI che, tempo addietro, perquisirono la sua reggia di Mar-a-Lago alla ricerca dei documenti top-secret da lui illegalmente sottratti (reato, questo, che gli è valso una quarantina di imputazioni) avessero l’ordine – manco a dirlo direttamente impartito, per conto di Joe Biden, dal “deep State” – di ucciderlo. Ed è difficile immaginare che, ora divenuto sanguinante oggetto d’un vero attentato, rinunci ad usare l’accaduto per illuminare la sua, per l’appunto, figura di martire. “Colpiscono me, perché voglio colpire voi”, è da sempre, il primo dei suoi slogan di campagna. Colpiscono me perché sono la vostra unica protezione di fronte alle forze del male che vogliono distruggere l’America…

Se questo è che ci attende, interessante è chiedersi in che modo l’attentato di ieri contro Donald Trump si possa inquadrare nella plurisecolare storia dei tentativi d’omicidio consumati. Quali ne sono stati i motivi, il contesto e le conseguenze? In quanti casi ci fu un complotto? In quanti furono, al contrario, la casualità o la follia a prevalere? E quanto pesò, in ciascuno di questi casi, la polarizzazione politica, il “clima d’odio” come si usa dire in queste circostanze, che avvelena la vita politica? Proviamo a vedere.

Tutto cominciò con Abraham Lincoln

Abraham Lincoln – il primo dei presidenti morti ammazzati – fu certamente una vittima dell’odio e d’un vero complotto. Il suo assassino, l’attore John Wilkes Booth, era un confederato che, insieme ad almeno altre sei persone, aveva progettato in un primo tempo il sequestro, e poi l’omicidio, non solo del presidente, ma anche del vicepresidente Andrew Johnson e del segretario di Stato, William Seward. Ovvio (e disperato) il suo obiettivo: decapitare l’intero governo federale per evitare l’ormai inevitabile ed imminente collasso della Confederazione (solo qualche giorno prima dell’omicidio di Lincoln, le truppe unioniste del generale Sherman erano entrate a Richmond). Wilkes odiava Lincoln e quello che Lincoln rappresentava: l’abolizione della schiavitù, le nuove idee di eguaglianza di cui, con sempre più decisione nel corso della guerra, il presidente s’era fatto portatore.

Anche John Kennedy era, a suo modo, un uomo odiato. Odiato, soprattutto, da quella parte d’America – la stessa che, appena cinque anni più tardi, avrebbe condannato a morte suo fratello Bob e Martin Luther King – che guardava con terrore all’insorgere del movimento per i diritti civili. Nessuno, tuttavia, ha mai capito chi abbia davvero armato la mano del suo assassino. Per la Commissione Warren, Lee Harvey Oswald, l’uomo che sparò dalla finestra del deposito di libri di Dallas, fu l’unico responsabile dell’omicidio. Per molti altri dietro l’attentato si celavano le trame – tanto profonde ed oscure da risultare in ultima analisi indecifrabili – del cosiddetto “complesso industrial-militare” (Cia, Pentagono, grandi corporazioni) spaventato dal progetto (mai provato e, a conti fatti, del tutto improbabile) di chiudere la guerra in Vietnam (allora ancora ai suoi albori) e di modificare il paradigma della guerra fredda, avviando un processo di distensione con l’URSS di Kruscev.

Secondo una commissione congressuale – la United States House Select Committee on Assassinations, che lavorò tra il 1975 ed il 1979 – dietro Oswald ci fu, in effetti, un complotto. Ma, di quel complotto, la Commissione non fu in grado di rivelare (o scelse di non rivelare) che i “non-autori” – non fu il governo sovietico, non fu il governo cubano, non fu la Cia, non furono gli esuli cubani, non fu il crimine organizzato – lasciando via libera alla fantasia, mai esausta, dei “conspiracy theorists” ed alla storia infinita che, ancor oggi, viene scritta e riscritta. (Giusto per la cronaca: durante le primarie repubblicane del 2016, fu proprio Donald Trump a “svelare” – in quella che fu una delle più squinternate tra le oltre 40.000 frottole da lui raccontate da candidato alla presidenza e poi da presidente – che il padre di Ted Cruz, suo rivale cubano-americano nella corsa alla nomination, era coinvolto nell’omicidio di Dallas)

Le morti di Lincoln e Kennedy – chiarita in ogni dettaglio la prima, immersa nel mistero la seconda – restano comunque, nella storia americana, come due giganteschi, irrisolti ed irrisolvibili punti di domanda. Che sarebbe accaduto se Lincoln avesse potuto dare un seguito coerente al suo “Gettysburg Address”, trasformando l’abolizione della schiavitù nell’inizio di un vero processo di riscatto – politico e sociale – del principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione? In che America vivremmo oggi se Kennedy, sopravvissuto, avesse potuto dar seguito alla sua politica di pace (o a quella che il mito kennediano considera tale)? Domande che, come si dice, restano scolpite, a lettere cubitali, nella pietra della storia. Perché della Storia – contrariamente ad altri attentati di chiara matrice politica – hanno davvero cambiato il corso.

All’inizio del ventesimo secolo, William McKinley – il presidente della guerra contro la Spagna che portò alla conquista di Portorico e delle Filippine, nonché al vassallaggio di Cuba – venne ucciso da Leon Czolgosz, un anarchico di origine polacca, seguace di Emma Goldman. Ma il suo omicidio (McKinley morì sei giorni dopo esser stato colpito) non è in effetti considerato che una tardiva appendice – tardiva e senza grandi conseguenze – dello scontro di classe che, in quegli anni, attraversò la parte più industrialmente avanzata dell’America.

Henry Clay Frick, un caso a parte

Molto più importante, in questo quadro, era stato – paradossalmente – un altro attentato. “Altro”, in tutti i sensi. Quello (fallito) che, nel 1892, Alexander Berkman, il compagno di vita di Emma Goldman, mise in atto contro Henry Clay Frick, forse il più spietato tra i titani che hanno scritto, nel sangue, la storia del capitalismo americano. Lo sfondo era quello del grande sciopero dei lavoratori dell’acciaio di Homestead, risolto infine, a colpi di Winchester, dalla Guardia Nazionale e dalle milizie private della Pinkerton National Detective Agency. Fu quello un altro punto di svolta, un altro bivio poco noto, ma fondamentale della storia d’America. A Homestead persero i lavoratori e vinsero, a ferro e fuoco – grazie anche alle azioni violente e, spesso, dissennate degli anarchici – Frick, Carnegie, Mellon e tutti gli altri nomi che ancor oggi giganteggiano, a riprova di quella vittoria, all’entrata di monumentali edifici o nei titoli delle grandi fondazioni benefiche. Leon Czolgosz ed il suo attacco mortale a McKinley, non furono, in fondo, in quel 6 settembre del 1901, nel Temple of Music di Buffalo, che l’ultima vampata d’una battaglia già conclusasi altrove.

Politico fu anche, a tutti gli effetti, l’attentato contro Harry Truman, perpetrato, il primo novembre del 1950, da due indipendentisti portoricani, Oscar Collazo e Griselio Torresola. E politici furono, almeno in senso lato, i due successivi attacchi – l’uno a poco più di due settimane dall’altro ed entrambi prodotti da, chiamiamole così, “schegge impazzite” di quel che restava del movimento hippie – che Gerald Ford subì, senza conseguenza alcuna per la sua salute, nel settembre del 1975. Il primo fu consumato, pistola alla mano, da Lynette Fromme, una reduce della “famiglia” di Charles Manson. Il secondo da Sara Jane Moore, una donna che sognava da ripetere le imprese della Symbionese Liberation Army (il gruppo che aveva sequestrato Patricia Hearst).

Politici furono anche – ma difficile è stabilire in quale misura – i cinque colpi di pistola sparati a Miami, il 15 febbraio del 1933, due settimane prima dell’inaugurazione del suo primo mandato, contro Franklin Delano Roosevelt. Ad essere colpito ed ucciso fu, in quell’occasione, il sindaco di Chicago, Anton Cermak. Ed essendo lo sparatore tal Frank Zangara, un membro della gang di Al Capone (a quei tempi già da due anni ospite di Alcatraz), molti pensano che proprio lui, Cermak, fosse, in realtà, il vero obiettivo dell’attentato.

Più follia che politica

Il resto è soltanto follia. O meglio: è soltanto un riflesso (molti riflessi) della follia armata che, da sempre, corre nelle più profonde vene d’America. Volendo usare una metafora cinematografica, si può dire che si ritrova, in questa serie di attacchi al presidente di turno, molto più il “Taxi Driver” di Martin Scorsese che il “JFK” di Oliver Stone. Un pazzo – un imbianchino disoccupato convinto d’essere il vero erede di Riccardo III – fu l’uomo che, il 30 gennaio del 1935, cercò di scaricare (facendo cilecca in entrambi i casi) due pistole contro Andrew Jackson, il primo presidente “populista” degli Usa, che, per tutta risposta -racconta quella che è forse soltanto una leggenda – lo percosse a sangue con il suo bastone da passeggio.

Un pazzo – un mitomane convinto d’avere diritto alla carica di ambasciatore a Parigi, fu l’uomo che, il 2 luglio del 1881, sparò a James Garfield in una stazione ferroviaria di Washington. Il presidente sarebbe morto ben 11 settimane più tardi per un’infezione, consegnando alla Storia la sua morte più come una testimonianza dell’imperizia dei medici che lo curarono (e per l’invenzione di un’ancor rudimentale ma funzionante versione di aria condizionata, installata alla Casa Bianca per alleviare i tormenti del presidente ferito nei bollori dell’estate) che per le conseguenze politiche del gesto. Un pazzo – e come tale rinchiuso in un ospedale psichiatrico – fu John Hinkley Jr., l’uomo che, il 30 marzo del 1981, sparò a Ronald Reagan ferendolo sotto l’ascella.

In arrivo: Trump come Cristo, Mandela e Navalny

Un pazzo – un proprietario di saloon con visioni religiose – fu John Flamman Schrank l’uomo che, il 14 ottobre del 1912 tentò di uccidere Theodore Roosevelt durante un comizio elettorale a Milwakee, nel Wisconsin, la città dove, tra qualche giorno, si aprirà la Convention repubblicana. Roosevelt – che aveva governato tra il 1901 ed il 1909 – era allora, per la verità, soltanto un ex presidente. O, per meglio dire, il candidato del Progressive Party, o Bull Moose Party, il partito dell’alce, soprannome dovuto al fatto che, nel lanciare l’iniziativa, Roosevelt si era, per l’appunto, definito “forte come un alce”. Il Bull Moose Party era, in effetti, una costola scissionista uscita dal corpo repubblicano e decisa a dare battaglia, nel nome dell’uomo della strada, a quelli che oggi, in Italia, vengono usualmente definiti i “poteri forti” (le grandi corporazioni, in primo luogo).

L’attentato fu – come, di norma, tutto quello che accadeva in presenza di Ted Roosevelt – assolutamente spettacolare.  Colpito in pieno petto, il presidente si salvò grazie alla voluminosità del discorso da lui preparato – cinquanta fogli di carta piegati in quattro ed infilati nel taschino della giacca – e ad una buona dose di fortuna. La pallottola non penetrò a fondo e non colpì alcun organo vitale. O, almeno, questo è quello che si pensa, visto che il proiettile rimase fino alla morte di Roosevelt – sopraggiunta nel 1919, per trombosi coronaria – nel corpo del ferito. Memore della tragica esperienza di McKinley (del quale era stato vicepresidente) Roosevelt rifiutò, infatti, ogni operazione di rimozione. E quel giorno, incurante del panico altrui e del dolore, insistette per portare a termine il suo comizio. “Ci vuole ben più d’una pallottola per fermare un alce” disse. E cominciò a parlare.

Qualcosa del genere è facile immaginare dirà – tornando a citare, Mandela, Navalny e Gesù di Nazareth – anche Donald Trump, nelle ore e nei giorni che verranno. Con quali conseguenze sulla corsa presidenziale – e su destini della democrazia americana – lo sapremo presto.

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