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Kill the prez

Con quattro presidenti assassinati e con almeno otto attentati compiuti ma falliti, l’America è il paese dove, per calcolo politico o per follia, più si è cercato di uccidere il presidente in carica. Ed anche quello dove meno si è tirato in ballo il “clima d’odio”. Che cosa può imparare l’Italia?

 

27 gennaio 2009

di Massimo Cavallini

 

L’episodio più affine- se di episodi affini proprio si vuole parlare – è anche il più recente e, di certo, il meno sanguinoso. 14 dicembre del 2008: Muntadar al-Zaidi, reporter della rete televisiva al-Baghdadia, lancia una dopo l’altra, contro il presidente George W. Bush, impegnato in una conferenza stampa in quel di Baghdad, entrambe le scarpe che porta ai piedi. E tuttavia, anche in questo caso, se analizzata nei dettagli, la similitudine si riduce di fatto ad un solo elemento: l’uso d’un oggetto diverso da un’arma da fuoco o, comunque, d’un oggetto non specificamente costruito per ferire o uccidere: il molto appuntito souvenir del Duomo di Milano, nell’attacco al Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi; un paio di calzature (schivate entrambe ed “apparentemente del numero 45”, come le definì poco più tardi lo stesso Bush, cercando di sdrammatizzare l’accaduto) nel tiro a bersaglio contro il 43esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Tutto qui.

No, non serve forzare fatti e circostanze alla ricerca di inesistenti analogie tra l’atto di violenza subito da Silvio Berlusconi ed i molti precedenti “americani”. Ma vale forse egualmente la pena – nel calore delle emozioni suscitate in Italia dall’attacco al capo del governo – ripercorrere la storia degli attentati anti-presidenziali nel paese che, in questo campo, detiene probabilmente una sorta di record mondiale. Quattro presidenti assassinati (Lincoln 1865, Garfield 1881, McKinley 1901, Kennedy 1963). Almeno otto attentati giunti a compimento, ma conclusisi senza la morte del presidente: Andrew Jackson 1835, Theodore Roosevelt 1912, Franklin Delano Roosevelt 1933, Harry Truman 1950, Richard Nixon 1974 (anche se il potenziale attentatore, un sequestratore d’aereo, venne ucciso ben lontano dalla Casa Bianca); Gerald Ford, per due volte, nel 1975, Ronald Reagan 1981). E se a questo si aggiungono gli attentati in avanzata fase d’organizzazione, scoperti prima che si consumassero, nonché una lunga serie di episodi mai completamente chiariti – perlopiù uomini armati sorpresi in atteggiamenti sospetti in luoghi dove il presidente del tempo stava presenziando (o stava per presenziare) una pubblica manifestazione – si raggiunge una cifra pari, secondo il recente calcolo di uno storico, a quasi il triplo dei 44 inquilini succedutisi alla Casa Bianca negli ultimi 220 anni.

In quanti di questi attentati ha avuto un ruolo riconoscibile il “clima d’odio”? O, per meglio dire: quanti di questi attacchi anti-presidenziali possono essere considerati – per riprendere un’espressione usata ed abusata oggi dai seguaci di Berlusconi – il prodotto d’una sistematica campagna politica di “diffamazione e calunnie” contro il bersaglio dell’attentato? Pochi. Forse nessuno. Ed è certo che nessuno viene oggi analizzato in questa luce dagli storici. Abraham Lincoln – il primo dei presidenti morti ammazzati – fu certamente una vittima dell’odio e d’un vero complotto. Il suo assassino, l’attore John Wilkes Booth, era un confederato che, insieme ad almeno altre sei persone, aveva progettato in un primo tempo il sequestro, e poi l’omicidio, non solo del presidente, ma anche del vicepresidente Andrew Johnson e del segretario di Stato, William Seward. Ovvio (e disperato) il suo obiettivo: decapitare l’intero governo federale per evitare l’ormai inevitabile ed imminente collasso della Confederazione (solo qualche giorno prima dell’omicidio di Lincoln, le truppe unioniste del generale Sherman erano entrate a Richmond). Wilkes odiava Lincoln e quello che Lincoln rappresentava: l’abolizione della schiavitù, le nuove idee di eguaglianza di cui, con sempre più decisione nel corso della guerra, il presidente s’era fatto portatore. Ma il suo era un odio per così dire “normale”, covato nel corso d’una guerra civile nella quale – senza alcun bisogno di “campagne di calunnie” – uccidere il rivale politico era la norma.

Anche John Kennedy era, a suo modo, un uomo odiato. Odiato, soprattutto, da quella parte d’America – la stessa che, appena cinque anni più tardi, avrebbe condannato a morte suo fratello Bob e Martin Luther King – che guardava con terrore all’insorgere del movimento per i diritti civili. Nessuno, tuttavia, ha mai capito chi abbia davvero armato la mano del suo assassino. Per la Commissione Warren, Lee Harvey Oswald, l’uomo che sparò dalla finestra del deposito di libri di Dallas, fu l’unico responsabile dell’omicidio. Per molti altri dietro l’attentato si celavano le trame – tanto profonde ed oscure da risultare in ultima analisi indecifrabili – del cosiddetto “complesso industrial-militare” (Cia, Pentagono, grandi corporazioni) spaventato dal progetto (mai provato e, a conti fatti, del tutto improbabilie) di chiudere la guerra in Vietnam (allora ancora ai suoi albori) e di modificare il paradigma della guerra fredda, avviando un processo di distensione con l’URSS di Krushev. Secondo una commissione congressuale – la United States House Select Committee on Assassinations, che lavorò tra il 1975 ed il 1979 – dietro Oswald ci fu, in effetti, un complotto. Ma, di quel complotto, la Commissione non fu in grado di rivelare (o scelse di non rivelare) che i “non-autori” -non fu il governo sovietico, non fu il governo cubano,non fu la Cia,non furono gli esuli cubani, non fu il crimine organizzato – lasciando via libera alla fantasia , mai esausta, dei “conspiracy theorists”, ed alla storia infinita che, ancor oggi, questi ultimi continuano a scrivere.

Le morti di Lincoln e Kennedy – chiarita in ogni dettaglio la prima, immersa nel mistero la seconda -restano comunque, nella storia americana, come due giganteschi, irrisolti ed irrisolvibili punti di domanda. Che sarebbe accaduto se Lincoln avesse potuto dare un seguito coerente al suo “Gettysburg Address”, trasformando l’abolizione della schiavitù nell’inizio di un vero processo di riscatto – politico e sociale – del principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione? In che America vivremmo oggi se Kennedy, sopravvissuto, avesse potuto dar seguito alla sua politica di pace (o a quella che il mito kennediano considera tale)? Domande che, come si dice, restano scolpite, a lettere cubitali, nella pietra della storia. Perché della Storia – contrariamente ad altri attentati di chiara matrice politica – hanno davvero cambiato il corso.
All’inizio del ventesimo secolo, William McKinley – il presidente della guerra contro la Spagna che portò alla conquista di Portorico e delle Filippine, nonché al vassallaggio di Cuba – venne ucciso da Leon Czolgosz, un anarchico di origine polacca, seguace di Emma Goldman. Ma il suo omicidio (McKinley morì sei giorni dopo esser stato colpito) non è in effetti considerato che una tardiva appendice – tardiva e senza grandi conseguenze – dello scontro di classe che, in quegli anni, attraversò la parte più industrialmente avanzata dell’America. Molto più importante, in questo quadro, era stato – paradossalmente – un altro attentato. Quello (fallito) che, nel 1892, Alexander Berkman, il compagno di vita di Emma Goldman, mise in atto contro Henry Clay Frick, forse il più spietato tra i titani che hanno scritto, nel sangue, la storia del capitalismo americano. Lo sfondo era quello del grande sciopero dei lavoratori dell’acciaio di Homestead, risolto infine, a colpi di Winchester, dalla Guardia Nazionale e dalle milizie private della Pinkerton National Detective Agency. Fu quello un’altro punto di svolta, un’altro bivio poco noto, ma fondamentale della storia d’America. A Homestead persero i lavoratori e vinsero, a ferro e fuoco – grazie anche alle azioni violente e, spesso, dissennate degli anarchici – Frick, Carnegie, Mellon e tutti gli altri nomi che ancor oggi giganteggiano, a riprova di quella vittoria, all’entrata di monumentali edifici o nei titoli delle grandi fondazioni benefiche. Leon Czolgosz ed il suo attacco mortale a McKinley, non furono, in fondo,in quel 6 settembre del 1901, nel Temple of Music di Buffalo, che l’ultima vampata d’una battaglia già conclusasi altrove.

Politico fu anche, a tutti gli effetti, l’attentato contro Harry Truman, perpetrato, il primo novembre del 1950, da due indipendentisti portoricani, Oscar Collazo e Griselio Torresola. E politici furono, almeno in senso lato, i due successivi attacchi – l’uno a poco più di due settimane dall’altro ed entrambi prodotti da, chiamiamole così, “schegge impazzite” di quel che restava del movimento hippie – che Gerald Ford subì,senza conseguenza alcuna per la sua salute, nel settembre del 1975. Il primo fu consumato, pistola alla mano, da Lynette Fromme, una reduce della “famiglia” di Charles Manson. Il secondo da Sara Jane Moore, una donna che sognava da ripetere le imprese della Symbionese Liberation Army (il gruppo che aveva sequestrato Patricia Hearst).

Politici furono anche – ma difficile è stabilire in quale misura – i cinque colpi di pistola sparati a Miami, il 15 febbraio del 1933, due settimane prima dell’inaugurazione del suo primo mandato, contro Franklin Delano Roosevelt. Ad essere colpito ed ucciso fu, in quell’occasione, il sindaco di Chicago, Anton Cermak. Ed essendo lo sparatore tal Frank Zangara, un membro della gang di Al Capone (a quei tempi già da due anni ospite di Alcatraz), molti pensano che proprio lui, Cermak, fosse, in realtà, il vero obiettivo dell’attentato.

Il resto è soltanto follia. O meglio: è soltanto un riflesso (molti riflessi) della follia armata che, da sempre, corre nelle più profonde vene d’America. Volendo usare una metafora cinematografica, si può dire che si ritrova, in questa serie di attacchi al presidente di turno, molto più il “Taxi Driver” di Martin Scorsese che il “JFK” di Oliver Stone. Un pazzo – un imbianchino disoccupato convinto d’essere il vero erede di Riccardo III – fu l’uomo che, il 30 gennaio del 1935, cercò di scaricare (facendo cilecca in entrambi i casi) due pistole contro Andrew Jackson, il primo presidente “populista” degli Usa, che, per tutta risposta -racconta quella che è forse soltanto una leggenda – lo percosse a sangue con il suo bastone da passeggio. Dettaglio significativo: tra gli uomini che, in quell’occasione, misero in condizione di non nuocere tanto l’attentatore, quanto il presidente – che venne trattenuto e calmato dai presenti – c’era un personaggio che, in piazza del Duomo, avrebbe potuto molto validamente rafforzare la distratta scorta di Berlusconi. Ovvero: il mitico David Crockett, per l’occasione senza il tradizionale cappello di pelliccia. Un pazzo – un mitomane convinto d’avere diritto alla carica di ambasciatore a Parigi, fu l’uomo che, il 2 luglio del 1881, sparò a James Garfield in una stazione ferroviaria di Washington. Il presidente sarebbe morto ben 11 settimane più tardi per un’infezione, consegnando alla Storia la sua morte più come una testimonianza dell’imperizia dei medici che lo curarono (e per l’invenzione di un’ancor rudimentale ma funzionante versione di aria condizionata, installata alla Casa Bianca per alleviare i tormenti del presidente ferito nei bollori dell’estate) che per le conseguenze politiche del gesto. Un pazzo – e come tale rinchiuso in un ospedale psichiatrico – fu John Hinkley Jr., l’uomo che, il 30 marzo del 1981, sparò a Ronald Reagan ferendolo sotto l’ascella.

Un pazzo – un proprietario di saloon con visioni religiose – fu John Flamman Schrank l’uomo che, il 14 ottobre del 1912 tentò di uccidere Theodore Roosevelt durante un comizio elettorale a Milwakee, nel Wisconsin. Roosevelt – che aveva governato tra il 1901 ed il 1909 – era allora, per la verità, soltanto un ex presidente. O, per meglio dire, il candidato del Progressive Party, o Bull Moose Party, il partito dell’alce, soprannome dovuto al fatto che, nel lanciare l’iniziativa, Roosevelt si era, per l’appunto, definito “forte come un alce”. Il Bull Moose Party era, in effetti, una costola scissionista uscita dal corpo repubblicano e decisa a dare battaglia, nel nome dell’uomo della strada, a quelli che oggi, in Italia, vengono usualmente definiti i “poteri forti” (le grandi corporazioni, in primo luogo). L’attentato fu – come, di norma, tutto quello che accadeva in presenza di Ted Roosevelt – assolutamente spettacolare. Colpito in pieno petto, il presidente si salvò grazie alla voluminosità del discorso da lui preparato – cinquanta fogli di carta piegati in quattro ed infilati nel taschino della giacca – e ad una buona dose di fortuna. La pallottola non penetrò a fondo e non colpì alcun organo vitale. O, almeno, questo è quello che si pensa, visto che il proiettile rimase fino alla morte di Roosevelt – sopraggiunta nel 1919, per trombosi coronaria – nel corpo del ferito. Memore della tragica esperienza di McKinley (del quale era stato vicepresidente) Roosevelt rifiutò, infatti, ogni operazione di rimozione. E quel giorno, incurante del panico altrui e del dolore, insistette per portare a termine il suo comizio. “Ci vuole ben più d’una pallottola per fermare un alce” disse. E cominciò a parlare.

Domanda: avrebbe potuto accadere qualcosa di simile a Silvio Berlusconi? Difficile immaginarlo. Non per altro: la frase “Ci vuol altro che un duomo di Milano per fermare Berlusconi”, sembra degna d’entrare assai più nel canovaccio d’uno spettacolo satirico che nel mito. Il che ci riporta a bomba. Inutile cercare analogie, similitudini ed esempi. Inutile comparare. Meglio limitarsi, anche in questo caso, a studiare le lezioni della Storia.

 

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