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Il fantasma di FDR tra le macerie di Wall Street

Il più grande intervento pubblico a sostegno di un economia devastata dagli eccessi delle banche d’affari chiude per sempre la stagione della “deregulation” – Se vorrà davvero governare la crisi, il prossimo presidente dovrà, chiunque egli sia, seguire la strada di Franklin Delano Roseevelt

 

18 settembre 2008

di M.C.

 

Lo spot televisivo – regolarmente approvato, a viva voce, dal candidato John McCain – continua imperterrito ad apparire sui piccoli schermi. Ma sembra, in realtà, provenire da un’altra epoca, come una sorta d’incontrollata deriva del tempo. O come una di quelle fotografie che, proverbialmente “ingiallite dagli anni”, riempiono gli album dei bei tempi andati, pronti a restituire, tra risatine e rimpianti, la memoria di vecchie abitudini e di mode dimenticate. Ed è infatti proprio da un’altra epoca che quelle immagini e quei suoni arrivano, ingialliti non dagli anni – cosa impossibile visto che non hanno che qualche giorno d’età – ma dal livore che sempre anima le campagne elettorali. E carichi, non di nostalgia, ma di tardiva (ed involontariamente ridicola) tracotanza. “Barack Obama – recita una voce dai toni studiatamente sarcastici, mentre sullo schermo scorrono orrendi primi piani del candidato democratico – the most liberal senator in the US Congress”. Barack Obama, il più liberale dei senatori nel Congresso degli Stati Uniti”.

Negli Usa, com’è noto, “liberal” significa (grossomodo) “di sinistra”. Ed essere “di sinistra” a sua volta significa, in questa parte di mondo, favorire l’intervento del governo nella gestione dell’economia, perorare i lacci e lacciuoli (o “red tapes”, come si dice a Wall Street) di regole tese a frenare ed incanalare le impetuose (ed immancabilmente sane) correnti del “libero mercato”. O meglio: significa, da un più preciso punto di vista storico-politico, essere ancora legati ai principi redistributivi del New Deal rooseveltiano (o alle teorie del keynesianesimo economico), vero paradigma d’un liberalismo divenuto, nel tempo, una sorta d’insulto, un vecchio abito dal quale chiunque, a qualunque livello, volesse fino a ieri vincere elezioni di sorta, doveva liberarsi in fretta e con ostentato disgusto.

Orbene: al termine di quest’ultima settimana – breve lasso di tempo che, con un eufemismo, definiremo “turbolento” – sembra che il vero problema del senatore Obama, candidato democratico alla Casa Bianca, non sia più quello di scrollarsi di dosso l’etichetta di “liberal”, bensì quello di spiegare a suoi elettori per quale ragione lui (e, soprattutto, il suo partito) liberal non sia stato abbastanza. Più in concreto: per quale ragione, lui ed il suo partito abbiano fatto tanto poco per incanalare le correnti, certo impetuose, ma tutt’altro che sane, del libero mercato. Il tutto con l’unico vantaggio d’avere di fronte a sé avversari (i repubblicani e John McCain) che da questo punto di vista hanno – incomparabilmente – molti più panni sporchi da lavare di fronte alla pubblica opinione.

I fatti sono noti. Venerdì scorso, in una drammatica apparizione televisiva, con l’ormai impresentabile George W. Bush a fare da spaesata comparsa, il segretario al Tesoro, Henry Paulson, ed il direttore della Federal Reserve, Ben Bernanke, hanno presentato un piano di salvataggio del sistema finanziario – ormai in procinto d’annegare, affondato dal peso dei crediti immobiliari senza adeguate garanzie (i cosiddetti “subprime mortgages”) – per la stratosferica cifra di 700 miliardi di dollari. Ovvero: hanno esposto, con drammatici accenti, il più grande intervento pubblico a sostegno dell’economia dai tempi (fino a ieri vituperati) di Franklin Delano Roosevelt (specie se ai 700 miliardi annunciati venerdì si aggiungono gli 85 stanziati per salvare dal baratro AIG, il gigante ferito delle assicurazioni). Con la differenza che questa volta – a conferma dell’oggettiva insostenibilità della situazione – non erano i perfidi “liberal”, ma gli stessi sacerdoti del “libero mercato” a profferire la bestemmia. O quella che, fino a ieri, avrebbero considerato una bestemmia.

Né questa era stata la fine dell’ondata blasfema. Perché le bestemmie (o quelle che fino a ieri sarebbero state considerate tali) erano in effetti destinate a trasformarsi, solo qualche ora più tardi, in una sorta di coro celestiale. Come è di fatto accaduto, allorquando Goldman Sachs e Morgan Stanley – le due ultime banche d’affari rimaste pur barcollanti in piedi, dopo le cadute di Lehman Brothers (fallita), Merrill Lynch (comprata per due soldi da Bank of America) e Bear Sterns (inglobata da JP Morgan Chase con il sostegno di pubblico denaro) – avrebbero annunciato la loro decisione di tornare ad essere semplici banche commerciali. Vale a dire: di rientrare, come pecorelle smarrite, proprio in quei recinti (red tapes) che, con la complicità del potere politico, avevano abbandonato per poter liberamente pascolare nelle grandi praterie della finanza d’assalto. O, più specificamente: all’interno dei limiti definiti da quel Glass-Steagall Act che – approvato agli inizi della Grande Depressione e fino a ieri considerato una sorta di campo di concentramento della “vecchia economia” – reclama adeguate coperture finanziarie a fronte di ogni operazione.

Quello che pochi avevano previsto – la fine della seconda “Gilded Age” – è all’istante divenuta un dato di fatto. In un “drammatico week-end di paura”, la “nuova età dell’oro”, apertasi negli anni ’80 con il trionfo del reaganismo, s’è chiusa per sempre. Chiusa al punto che a scriverne il necrologio sono stati – di fronte alle attonite masse dei fedeli – gli stessi guardiani del tempio. Immaginatevi – per farvi un’idea dell’accaduto – San Paolo di Tarso che ammette di non essere mai andato a Damasco, di non aver visto, lungo la strada, una luce accecante, né udito voce alcuna. E pensate, quindi agli effetti che questa rivelazione (o contro-rivelazione) avrebbe sui credenti cristiani. È vero: nel fuoco della crisi finanziaria, un’epoca si è chiusa – prima e più traumaticamente di quanto fosse stato previsto -, cosi come il crash del 1929 aveva, a suo tempo, chiuso la prima Gilded Age. Ed il problema – il vero problema – è che nessuno sembra davvero pronto a voltar pagina. Per parafrasare, ad un tempo, Friederick Nietzsche e Woody Allen: Dio è morto, ed anche Barack Obama non sta troppo bene…

Ieri, nel suo editoriale, anche il Wall Street Journal ha, con un comprensibile eufemismo, ammesso che “un modello finanziario” ha chiuso il suo ciclo. Ed ha – altrettanto comprensibilmente e, quel che più conta, con qualche ragione – cercato di “spalmare” sull’intera società le responsabilità dell’apocalisse. Raccontare la favola secondo la quale – scrive in sostanza l’editorialista – esisteva un mondo felice, prospero e giusto poi rovinato dagli orchi di Wall Street impadronitisi del mondo dopo l’avvento di Ronald Reagan negli anni ‘80, può forse servire per far addormentare bambini e cattive coscienze. Ma quello che è accaduto è, in realtà, stato il frutto della convergenza di diversi fattori, con Washington (il potere politico, nel più “bipartizan” senso della parola) sempre in primo piano. Giusto. Nessuno, in questa storia è davvero innocente. Neanche i giudici. O i dottori. Anzi: i giudici e i dottori meno di tutti.

Basti guardare al caso dell’uomo che ha di fatto annunciato la fine dell’ultima età dell’oro e, insieme, la terapia per curarne i mali. Henry Paulson, oggi segretario al Tesoro, è stato, fino al 2006, alla guida proprio della Goldman Sachs. Ed i maligni oggi rammentano come, in 32 anni di servizio – e soprattutto nelle sue vesti di Chief Executive Officer, tra il ’95 ed il 2006 – egli abbia accumulato una fortuna personale di 700 milioni di dollari. Un millesimo della somma oggi in procinto d’essere stanziata per salvare Goldman Sachs, Morgan Stanley e tutte le altre banche d’affari da una catastrofe destinata a trascinare con sé la traballante salute dell’intera economia mondiale. Qualcuno, inevitabilmente, ha fatto notare come – fosse il mondo dell’economia un po’ meno complesso ed un po’ più giusto – si potrebbe risolvere la crisi obbligando un migliaio (o giù di lì) di “grandi manager “ del denaro (i “master of universe” di cui parlava un celebre romanzo) a rendere il maltolto.

Non sarà così ovviamente. Un po’ perché, in questo mondo, troppo spesso quel che è giusto non è fattibile. E molto perché – come fa notare il Wall Street Journal – la “spalmatura” delle responsabilità è, a suo modo, un fatto reale. Robert Rubin, grande architetto della politica economica di Bill Clinton, era stato anche lui CEO della Goldman Sachs. E, tornato al sistema finanziario (alla Citibank) dopo i suoi anni di pubblico sevizio, è oggi il più in vista tra i consiglieri economici del candidato Barack Obama. Non per caso, visto che proprio da “centristi” e fervidi sostenitori del “libero mercato” – come Jason Furman, Austan Goolsbee e David Cutler – è formato il consiglio di grandi saggi assemblato dal senatore dell’Illinois nella sua marcia verso la casa Bianca.

In sostanza: la profondità della crisi ci ha regalato, nelle ultime ore, un’accelerazione degli eventi che ha colto – chi più, chi meno – tutti impreparati. La moderazione della politica è entrata – con imprevedibili conseguenze – in rotta di collisione con la radicalità delle soluzioni imposta da un cambio d’epoca. Dire chi vincerà, tra Obama (il “più liberale dei senatori”) e McCain (l’antiliberal che oggi, in ridicola polemica con se stesso, si riscopre populista senza rinnegare il proprio passato) è, allo stato delle cose, impossibile dire. Ma certo è che, chiunque vincerà, dovrà – se vorrà governare – scegliere la strada di Franklin Delano Roosevelt. Quella che, fino a ieri, portava alla perdizione…

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