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Edwards, campagna morta, idee vive

L’ex senatore del North Carolina è caduto prima del “super Tuesday” – Ma le sue idee sono oggi parte essenziali dei programmi di Hillary e di Obama

 

5 maggio 2008

 

di M.C.

 

Paul Krugman, professore di economia a Harvard e columnist del New York Times, lo chiama “effetto Edwards”. E così, in sintonia con molti altri commentatori, spiega nel suo bisettimanale commento sul più prestigioso quotidiano d’America le ragioni che- cosa assai rara nella politica americana – lo spingono a rendere l’onore delle armi ad uno sconfitto: “Molto più di quanto sia oggi la regola – scrive Krugman – John Edwards ha posto le idee al centro della sua campagna. Ed anche se la sua corsa verso la Casa Bianca s’è prematuramente interrotta, le sue idee hanno trionfato. Perché entrambi i candidati rimasti in gara stanno oggi, in larga misura, confrontandosi sulla base della piattaforma che proprio da Edwards è stata costruita…”. In sostanza: se la contesa per la nomination democratica, apertasi all’inizio del 2007 all’insegna della moderazione, ha oggi al suo centro il tema della giustizia sociale – vecchio e dimenticato cavallo di battaglia del partito – questo proprio a John Edwards si deve. E proprio a John Edwards si deve il fatto che Hillary Clinton e Barak Obama, i due sopravvissuti duellanti, vanno in questi giorni misurandosi in egual tenzone usando, entrambi, la sciabola di contrapposti piani per il raggiungimento di quella che, a tutti gli effetti, è l’Araba Fenice della politica americana. Ovvero: un sistema di assistenza sanitaria “universale”, quell’ “universal healthcare system” che – da decenni divenuta una sia pur imperfetta e spesso traballante realtà, un’ovvietà quasi , in tutte le democrazie capitaliste avanzate – è sempre rimasta un’irraggiungibile meta (o una sorta di satanica eresia, se vista dal lato repubblicano) nel paese che delle democrazie capitaliste è l’indiscusso capofila.

Le cronache parlano, su questo specifico punto, un inequivocabile linguaggio. Era il marzo 2007. Barak Obama ancora non aveva ufficialmente annunciato la sua discesa in campo, e Hillary Clinton ancora si crogiolava al sole della propria “inevitabilità”. Il primo impegnato a misurare le concrete possibilità d’una corsa che non fosse soltanto una meteora. La seconda intenta ad oliare la macchina politica destinata a dare irresistibile impulso alle sue “dinastiche” ambizioni. Fu allora che John Edwards, già da due mesi ufficialmente in corsa, lanciò una molto dettagliata proposta di “universal coverage”, basata sulla creazione d’una assicurazione pubblica in concorrenza con un sistema privato ormai divenuto – a dispetto dei molti luoghi comuni sull’intrinseca efficienza del mercato – non solo una permanente fonte d’ingiustizia e d’insicurezza, ma anche un costosissimo ed inestricabile pastrocchio burocratico, un autentico “buco nero”, socialmente ed economicamente parlando, nel cuore del capitalismo americano. Soltanto a fine maggio Barak Obama, ora a tutti gli effetti candidato alla nomination, aveva reso pubblica una più moderata (e, molti sostengono, tutt’altro che “universale”) proposta di sistema sanitario. E solo a settembre inoltrato Hillary – che pure, proprio alla creazione di un “universal healthcare system” aveva legato i primi due anni della sua permanenza alla Casa Bianca nelle vesti di First Lady – era saltata sul carro con un progetto quasi in tutto simile a quello di Edwards. Lo aveva fatto da par suo, con grande intelligenza e con una testimonianza di competenza politica molto prossima alla perfezione, superando entrambi i suoi rivali – da ineguagliabile “secchiona” della politica – in materia di fattibilità e credibilità. E, soprattutto, lo aveva fatto riscoprendo una parte di se stessa che, fino ad allora, aveva preferito occultare nelle pieghe della storia, nel nome d’una delle più ferree regole della politica americana (e non solo americana): mai identificare se stessi con una sconfitta. E lei, Hillary Rodham Clinton, la sua “battaglia per la salute” l’aveva, tra il ’93 ed il ’94, rovinosamente perduta…

Né solo da questo, tuttavia, era composta l’originalità – una molto stimolante originalità, come si è visto – della presenza di John Edwards nella contesa per la nomination. La sua riforma sanitaria era infatti partita da una più ampia visione della realtà fondata su un concetto – quello delle “due Americhe” – tutt’altro che nuovo, ma decisamente dimenticato o, peggio, considerato elettoralmente del tutto controproducente, nonché pubblicamente vilipeso come “populismo”. Da un lato l’America dei ricchi, sempre più ricca e sempre più padrona della democrazia. E dall’altro l’America dei poveri, sempre più povera e sempre più lontana dalla politica, sempre più vittima della prepotenza di “grandi corporazioni” le cui potentissime lobbies fanno, in quel di Washington, il bello ed il cattivo tempo. Da un lato l’America di George W. Bush – un presidente che cinque anni fa, parlando ad un convegno di multimiliardari esordì dicendo: “Qualcuno vi chiama ‘i superricchi’, io vi definisco la mia base politica” – e dall’altro quelli che “fanno fatica ad arrivare a fine mese”.

In un’arena politica nella quale l’identificazione con un progetto (anche solo molto genericamente) “di classe” è considerata una sorta di suicidio politico, John Edwards era sceso in campo non solo agitando la bandiera della lotta alla povertà, ma – cosa del tutto inusuale – apertamente schierandosi, con “militante” passione, dalla parte dei poveri. Meglio ancora: schierandosi “contro” l’altra America. In qualche misura si può affermare che la sua filosofia politica, per quanto molto simile dal punto di vista delle proposte, fosse (e sia) l’antitesi di quella che, lanciata da Barak Obama, sta in questi giorni entusiasmando le platee democratiche (e non solo democratiche), facendo riscoprire a molti (o scoprire per la prima volta) il gusto della partecipazione e – vero o illusorio che sia – il fascino delle “grandi svolte”. Mentre, infatti, sulla scia di Edwards, Obama riscopre la realtà delle “due Americhe” per negarla – anzi, per superarla, o “trascenderla” come ama ripetere, nel quadro di una grande proposta di riconciliazione e nel consolidamento di una “nuova maggioranza” destinata a cambiare i paradigmi della politica americana – Edwards sceglie apertamente il conflitto. Ed è nel conflitto che – come Krugman rileva – ha davvero cambiato il corso di una campagna presidenziale che lo ha visto perdente.

Resta ovviamente una domanda. Perché John Edwards ha perso? O meglio: perché è toccato ad altri, e non a lui, continuare una corsa alla quale ha, per quasi universale ammissione, dato un’indelebile impronta? Molti politologi mettono l’accento sul problema d’una personalità incompiuta, incapace di conciliare completamente se stessa con il messaggio di cui era portatrice. Edwards, fanno notare, era stato nel 2004, come “runningmate” di John Kerry, l’anima moderata di un ticket (quello per l’appunto che si era contrapposto alla rielezione di Bush-Cheney) che proprio al cappio della propria moderazione e della propria paura di “spaventare l’America” aveva finito per impiccarsi. Il che ha inevitabilmente minato alle radici la sua credibilità come nuovo “tribuno del popolo”. Anche perché, sottolineano altri, vi è sempre stato in lui, anche a prescindere dai suoi precedenti come senatore del North Carolina (eletto sulla base d’una piattaforma molto conservatrice) e come aspirante vice presidente – un problema di “fakeness”, un che di artificiale e forzato. Troppo bianco, giovane (a dispetto dei suoi cinquanta e passa anni) e bello. Mai un capello fuori posto (a suo tempo fecero scandalo, nel pieno della sua campagna antipovertà, i 400 dollari da lui spesi per una visita ad un superparrucchiere per ricchi e famosi). Troppo “avvocato”, troppo incapace di liberarsi da modi (e dall’inevitabile alone d’ambiguità) del suo passato di “trial lawyer” o, come dicono i suoi detrattori, di “ambulance chaser” (cacciatore di ambulanze: la specialità di Edwards furono infatti le cause per risarcimento danni in caso di infortuni).

Tutto vero, ovviamente. Ma la più immediata tra le molte ragioni che hanno imposto ad Edwards di abbandonare il campo – e di abbandonarlo proprio nel momento in cui l’incombere di una recessione dalle imprevedibili conseguenze rende ancor più profetica ed urgente la sua proposta – sta nel fatto che questo ex avvocato dall’impeccabile pettinatura e dal scintillante sorriso non è riuscito, in tempi di politica-spettacolo, a dare sufficiente spettacolarità alla sua battaglia politica. Molti, in queste ore, hanno fatto notare come, in questo lungo anno di campagna presidenziale, i media non abbiano concesso ad Edwards che una frazione del tempo dedicato a Hillary e ad Obama. E come, paradossalmente, gli stessi media abbiano riscoperto (talora battendosi il petto in laceranti autocritiche, ma questo ben poco cambia le cose) il valore e la storica importanza del suo messaggio solo nel momento – questo sì “spettacolare” – della sua caduta.

Queste sono le implacabili leggi della politica moderna. Per trovare la luce dei riflettori – e per mostrare al mondo la bontà e l’imprescindibilità delle sue idee – il “populista” John Edwards ha dovuto, politicamente parlando, tirare le cuoia. O meglio: lasciare la scena ad attori che, per personale carisma (Obama) o per storica celebrità (Hillary), fossero in grado di raccontare all’America la favola bella del “grande cambiamento”. Come si usa dire degli eroi caduti sul campo: speriamo che, almeno, non sia morto invano…

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