Mentre Bush cercava (e non trovava) in Iraq armi di distruzione di massa, alle porte del suo ranch, in Texas, un paladino dell’America bianca preparava una bomba capace di radere al suolo un intero isolato – Breve storia del Ku Klux Klan e dei gruppi della supremazia bianca
24 marzo 2005
di Massimo Cavallini
Non è esatto sostenere – come da quasi tre anni molti vanno facendo con irruente superficialità – che George W. Bush non abbia, dopo l’invasione dell’Iraq, trovato alcuna delle armi di distruzione di massa che avevano reso “indilazionabile” l’attacco. E chiunque abbia oggi la voglia e l’onestà per rettificare quest’ormai consolidato pregiudizio, altro non deve fare che andarsi a leggere i (per la verità non molto visibili) resoconti che i media americani pubblicarono nei giorni immediatamente successivi al 17 novembre dell’anno 2003, quando ancora la “liberazione” dell’antica Mesopotamia era alle sue prime (ma già disastrose) battute. “All’interno dell’appartamento – informava infatti il New York Times – è stato trovato tutto il materiale necessario per la costruzione d’una bomba al cianide di sodio in grado di radere al suolo un intero isolato, oltre ad almeno una sessantina di bombe al plastico, un imprecisato numero di briefcase bombs, decine di armi da guerra ed più di mezzo milione di munizioni…”. Unico problema: tutto questo ben di Dio – ritrovato dal Fbi per caso, grazie ad un pacco mandato all’indirizzo sbagliato – non si trovava in alcun recondito anfratto dell’Iraq, bensì a Noonday, in Texas, non molto lontano da Crawford e da quel ranch di Prarie Chapel dove il presidente ama trascorrere il suo tempo libero segando arbusti di fronte alle telecamere. Ed era costudito, quel poderoso arsenale, non dalla famigerata Guardia Repubblicana di Saddam, bensì da un tal William Krar, poi risultato appartenere alla “New Jersey Militia”, una delle svariate organizzazioni armate che, negli Usa, inseguono una molto specifica ed assai tenace versione del “sogno americano”: quella della “supremazia bianca”.
Qualcuno – sfidando l’accusa di antiamericanismo – fece quasi subito notare l’incongruenza. Solo qualche settimana prima, l’allora Attorney General, John Ashcroft, aveva in tutta fretta (ed in tutta solennità) convocato una conferenza stampa per presentare al mondo il caso del cosiddetto “dirty bomb terrorist”. Ovvero: l’arresto di José Padilla, un giovane portoricano approdato sulle sponde più estreme dell’Islam. E – nel nome dell’Islam – apparentemente in procinto di colpire un non identificato obiettivo, dentro gli Stati Uniti, con una bomba radioattiva (o “sporca”) di cui, peraltro, gli inquirenti non avevano trovato traccia alcuna. Perché una tanto clamorosa differenza di trattamento? Per distrazione? Per scelta? Come si sarebbe comportato il segretario alla Giustizia – si chiesero i più audaci – se William Krar si fosse chiamato Mohammed al-Krar?
Per la cronaca: Josè Padilla, tenuto in carcere per oltre due anni come “nemico combattente” (ovvero senza diritto alcuno), è stato infine accusato per reati che nulla hanno a che fare con le ragioni del suo arresto. E la sua storia è, nel tempo, diventata uno dei più eclatanti esempi della illegalità (e della inettitudine) con cui l’Amministrazione Bush persegue la sua “guerra al terrorismo”. William Krar è stato invece condannato, nell’estate del 2004, a 11 anni di carcere per “detenzione di materiale pericoloso”. Nessun accenno, nella sentenza, a legami con organizzazioni terroristiche. Per gli inquirenti (e, conseguentemente, per la giuria che più tardi lo ha giudicato), Krar non era, in fondo, che questo: un deprecabile esempio di “collezionismo estremo”. Qualcuno ama raccogliere francobolli. A lui piaceva, invece, accumulare materiale esplosivo…
John Ashcroft – è appena il caso di sottolinearlo – non si peritò, in quei giorni, di rispondere alle flebili richieste di spiegazioni che salivano da piuttosto sparuti settori del quarto potere. E quelle domande finirono, inevitabilmente, per perdersi nei venti di guerra. Un po’ perché nessuno tornò a porre quei quesiti con forza sufficiente. E molto perché – vecchio ormai di quasi un decennio il massacro di Oklahoma City – sono da allora mancati i fatti di cronaca che, con ineludibile evidenza, aiutassero quelle domande a riemergere da un passato per nulla remoto. Daniel Levitas, che due anni fa pubblicò un libro dal titolo: “The Terrorist Next Door: The Militia Movement and the Radical Right”, calcola in 25.000 attivisti ed in 250.000 simpatizzanti la forza attuale della estrema destra americana. Ed il Southern Poverty Law Center di Atlanta – uno dei più attendibili tra i gruppi che raccolgono dati sulle organizzazioni del più violento razzismo – mantiene 708 “voci” nel suo database dedicato agli “hate groups” americani. Molti. Ma anche molti meno – e molto meno forti ed attivi – di quelli che operavano negli anni ’80 e ’90.
“L’attentato di Oklahoma City – dice Mark Potok del Southern Poverty Law Center – ha rappresentato, per la destra estrema, una sorta di zenith”. Da allora molti dei suoi leader più importanti sono scomparsi. William Pierce, autore di “The Turner Diaries” (un romanzo di fantascienza divenuto una sorta di bibbia per la più recente ondata degli “white supremacists” n.d.r.) e fondatore della National Alliance, è morto nel 2002, senza lasciare veri eredi. Richard Butler, gran capo di Aryan Nations, è morto anche lui nel settembre del 2004, lasciandosi alle spalle un’organizzazione già devastata dalle dispute interne. Privato dei suoi più carismatici personaggi, tutto l’arcipelago della “supremazia bianca” appare – dopo l’ondata d’indignazione seguita all’attentato di Oklahoma City – in piena ritirata. O meglio: appare più polverizzato e “fuori controllo” che mai. “Il che in ultima analisi significa – precisa Potok – che è malandato, ma vivo. Anzi: che, proprio perché malandato, è pronto a colpire nel più imprevedibile dei modi…”.
Come in un incubo ricorrente. O come una malattia cronica e ciclica. Lo si è visto (o, almeno, lo hanno visto i pochi che, non distratti dalle imprese belliche di Bush, si sono presi la briga di guardare) tre anni fa a Noonday. E, per contrasto, lo si è visto anche agli inizi di febbraio quando, in Alabama, in pochi giorni, ben 12 chiese sono state date alle fiamme. Solo una piccola parte delle congregazioni colpite era, in realtà, prevalentemente frequentata da neri. E nessun concreto indizio consentiva di ipotizzare che la motivazione del crimine fosse l’odio razziale. Eppure dalle ceneri degli incendi (e nel comune sentire) è immediatamente riapparso un fantasma dall’assai distinguibile profilo: quello del Ku Klux Klan, nell’immaginario collettivo riconosciuto padre americano della “supremazia bianca”. Ovvero: il fantasma – come qualcuno lo ha felicemente chiamato – d’un “vitalissimo defunto”, l’immagine di qualcosa che oggi non esiste più (o che esiste soltanto come l’ombra di se stesso), e che tuttavia continua a crescere come un male congenito, una sorta di peccato originale capace di sopravvivere alla propria morte. E, a dispetto della propria morte, di riprodursi. Dove stanno le vere ragioni di questa macabra vitalità?
Forse nel fatto che proprio come un fantasma era, in anni lontani, nato il Ku Klux Klan. La leggenda – a lungo coltivata dall’America razzista – vuole infatti che il Klan sia nato nel 1865 a Pulaski, nel Tennessee, per iniziativa di sei reduci dell’esercito confederato. E vuole anche che loro sia stata – non avendo a disposizione altro che lenzuoli – la scelta di quella divisa bianca con la quale, di notte, presero a cavalcare nelle campagne, dove gli ex-schiavi, terrorizzati, li scambiarono per gli spiriti infuriati dei soldati sudisti caduti sul campo di battaglia. Poco più di un anno più tardi, nella stanza numero 10 del Maxwell House Hotel di Nashville, il Klan avrebbe conosciuto il suo storico battesimo sotto gli auspici del suo primo vero capo, l’ex generale confederato Nathan Bedford Forrest. Stessa divisa, stesso obiettivo principale: terrorizzare i neri “liberati” per impedire che usufruissero dei loro nuovi diritti, a cominciare da quello di voto.
Ma ben più d’una semplice e sinistra forma di resistenza di fronte alla realtà del “dopo-schiavismo” era, in effetti, la nuova organizzazione. Nel Klan e nei molti raggruppamenti paralleli che sorsero sulla scia della guerra civile – la White Brotherhood, i Men of Justice, le Constitutional Union Guards, i Knights of the White Camelia – confluirono correnti di pensiero che andavano oltre la propria ovvia radice: quella che affondava nella “cultura del Sud” e nello spirito di quella Costituzione degli Stati d’America che i “cavalieri bianchi” intendevano ripristinare nella sua “originaria purezza”. La stessa, ovviamente, che, quasi un secolo prima, aveva sancito la piena legittimità della peculiare istituzione” della schiavitù. . Nell’anno 1844 s’era diffuso in gran parte del paese un movimento che, riunitosi sotto le bandiere dell’American Party (meglio noto come il “Know Nothing Party”) aveva dato voce ed idee – entrambe attribuite al Padreterno – alla montante marea xenofoba (bianca e protestante) contro le ultime ondate di immigrati (prevalentemente cattolici irlandesi ed italiani, nonché ebrei sfuggiti ai pogrom dell’Europa centro-orientale). Punto di fondo della nuova filosofia: la difesa d’una “Identità Cristiana” che, interpretata alla luce del Libro dell’Apocalisse di Giovanni, si vedeva minacciata dall’incedere delle “armate papali” e dall’ “Anticristo giudeo”. Prima che, nel Sud, cominciassero a bruciare le croci del Klan, in tutto il paese gli uomini del “Know Nothing Party” (e, prima di loro, altre organizzazioni xenofobe) avevano – nel nome del Gesù Cristo che s’apprestava a tornare per la finale resa dei conti con i nemici della fede – bruciato chiese cattoliche e profanato conventi, assassinato bottegai ebrei, nonché, ovviamente, impiccato neri. E proprio questa – quella della “Christian Identity – sarebbe per sempre rimasta, prima del Klan e dopo il Klan, la vera bandiera del razzismo americano. Dettaglio di non poca importanza: alla fine degli anni ’40 – a dimostrazione della “trasversalità” del problema del razzismo negli Usa – l’American Party sarebbe confluito nel Partito Repubblicano di Abraham Lincoln. Sicché questo divenne, in effetti, il molto decantato sistema bipolare americano: da un lato un partito – il democratico – che difendeva la schiavitù al sud, ma appoggiava al nord i diritti degli immigrati; e, dall’altro un secondo partito – il repubblicano – che propugnava (perlopiù moderatamente) l’abolizione della schiavitù, ma cavalcava la tigre della xenofobia anti-immigrati, anticattolica ed antisemita.
Nel 1870, un’inchiesta congressuale reclamata dall’ala abolizionista del partito repubblicano, rivelò appieno, in quantità e qualità, i crimini commessi dalla organizzazione “conosciuta come Ku Klux Klan o Impero Invisibile del Sud”. E sotto la presidenza di Ulysses Grant venne infine varata una legge che concedeva al governo federale ampi poteri d’intervento. Verso la fine degli anni ’70, il Klan era virtualmente scomparso. Un po’ per la repressione e molto per il fatto che l’Invisibile Impero s’era, in buona misura, “fatto governo”. Già nel 1866 il presidente Andrew Johnson aveva bloccato con un veto quel Civil Rights Bill che, reclamato dagli abolizionisti, garantiva ai neri (contro i cosiddetti Black Codes, approvati un po’ ovunque) il diritto di andare alle urne. E l’America avrebbe dovuto aspettare un altro secolo prima di vedere quei “diritti civili” diventare legge. Il Klan poteva scomparire per il semplice fatto che, in tutto il Sud, già aveva, a conti fatti, vinto la sua battaglia.
Ed infatti il Klan scomparve. Ma solo per riapparire, nel 1915, nella più “americana” delle vesti. Vale a dire: in un curioso miscuglio di ideologia e di business, di fervore religioso e di propaganda da baraccone. Autore di questo miracolo di risurrezione, un (a suo modo) geniale showman, William Simmons, il quale sull’onda del grande successo d’un libro pubblicato dieci anni prima – “The Clansman: An Historic Romance of the Ku Klux Klan – e della sua spettacolare versione hollywoodiana (il famoso “The Birth of a Nation” di D.W.Griffith) – capì che i tempi erano maturi per restituire all’America bigotta e razzista, con buon guadagno, il più rifulgente dei suoi miti. Il rilancio dell’antico marchio di fabbrica venne da Simmons affidato, con modernissima intuizione, all’esperienza di quelli che oggi si chiamerebbero due esperti di marketing, Edward Young Clarke ed Elizabeth Tyler. Furono loro, studiati gli andamenti del mercato, a suggerire le caratteristiche del nuovo-vecchio prodotto. Stesso odio per i “niggers” (ora rappresentati dalla NAACP, National Association for the Advancement of the Colored People), stesso antisemitismo, stesso anticattolicismo, con l’aggiunta, tuttavia, d’una forte venatura d’antisocialismo e di anticomunismo. Semplice il meccanismo di reclutamento. Prima sul posto venivano mandati i ministri del culto – per lo più pastori battisti – ad annunciare la prossima Apocalisse. E quindi arrivava lui, William Simmons, pronto ad invitarli, con la primitiva ma efficace retorica d’un venditore del balsamo della salute, ad arruolarsi, in vista dell’imminente biblica battaglia d’Armageddon, tra i bianchi cavalieri del Klan,. Nel 1925, il Klan vantava 4 milioni di iscritti ed era capace – come di fatto accadde nel 1923 a Kolomo, nel molto nordico Stato dell’Indiana – di far marciare per le strade d’America centinaia di migliaia di persone incappucciate.
Che cose spense, infine, questo sacro fuoco? Fu – rammentano gli annali – un incontro ideologicamente inevitabile e, al tempo stesso, storicamente fatale: quello con il nazismo. O, più esattamente: con una serie di affinità elettive – non d’amore ma d’odio – che la storia poneva in contrasto con lo spirito della Nazione. Nel 1938, quando ormai la Seconda Guerra Mondiale era alle porte, Arthur Bell, Gran Dragone del New Jersey, in un comizio, pubblicamente sostenne che la canzone “God Bless America” altro non era che un “un inno da bordello” scritto da un giudeo di nome Irving Berlin. E fu, quel grido, una sorta di temporaneo epitaffio per il Klan.
Il resto è, come si dice, storia d’oggi. E storia d’oggi sono le imprese con le quali, negli anni ’60, il Klan (o, per meglio dire, il razzismo americano) s’è violentemente contrapposto al movimento per i diritti civili. Storia di oggi sono il nuovo “survivalism” apocalittico, l’insorgere e la mitologia martirologica antistatale che, dopo l’incendio di Waco, ha portato alla strage di Oklahoma City. E, per ultimo, al ritrovamento dell’arsenale di Noonday. Quello che, invece, è storia di sempre è il permanente “humus” storico-culturale che, nelle sue varie forme, continua a sospingere le correnti del razzismo, il flusso che come una sorta di fiume carsico, non cessa di percorrere le viscere della società americana, per riapparire periodicamente alla superficie, improvviso e feroce, sempre diverso eppure sempre eguale a se stesso. Qualcuno ha scritto – e giustamente – che, per capire il Klan, oggi bisogna guardare, non ai vecchi cappucci bianchi, ma ai “minutemen” che vanno spontaneamente pattugliando la frontiera dell’Arizona a caccia d’immigrati. O al voto che solo un anno fa, in Alabama, ha bocciato la richiesta di cancellare dalla Costituzione dello Stato la norma che vieta il matrimonio tra bianchi e neri…
Molti ritengono – citando a proposito o a sproposito un saggio scritto anni fa da Samuel Huntington – che nel futuro dell’umanità vi sia un inevitabile “scontro di civiltà”. Forse è vero. Ma vero è anche che il fronte di questa nuova guerra attraversa come una lama, non il pianeta o le religioni, ma la stessa anima della Nazione, le più intime ragioni della sua esistenza. O, se si preferisce, la sua coscienza. In America. E non solo in America.