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La democrazia USA nelle mani degli avvocati?

Gli americani hanno votato. E lo hanno fatto in una misura senza precedenti, nel pieno d’una pandemia. Calcoli ancora incompleti – tutto è ancora incompleto nei caotici, balcanizzati panorami di quella che ama definire se stessa “la più grande democrazia del mondo“ – dicono che almeno 161 milioni di cittadini hanno depositato (direttamente o, più ancora, per posta) il proprio voto nelle urne. Come vuole una frase fatta: il popolo ha parlato. Ma ora saranno gli avvocati a decidere quanto e come può e deve essere ascoltato. Il che significa che, se ancora non si sa chi ha vinto, già si sa che, finisca come finisca questa storia, la democrazia ha perduto.

Quando il sole già da diverse ore illumina gli orizzonti della prima giornata post-elettorale, questa è la situazione. Come largamente previsto, Joe Biden ha vinto il cosiddetto “voto popolare”. Ovvero: come già accaduto quattro anni fa a Hillary Clinton (e come già era accaduto ad Al Gore nell’anno 2000) ha sicuramente raccolto – nonostante i conteggi ancora in corso – più consensi del presidente in carica, Donald J. Trump (probabilmente più dei tre milioni che, molto platonicamente, avvantaggiarono Hillary). Ma la stravagante, obsoleta e democraticamente iniqua aritmetica dei “collegi elettorali” è, allo stato delle cose, bloccata su questi numeri: Joe Biden 224, Donald Trump 213. Ancora lontani, entrambi dal fatidico “270” che apre le porte della Casa Bianca. Al conteggio ancora mancano i voti elettorali di Arizona (10), Nevada (6), Georgia (16), North Carolina (15) e soprattutto quelli dei tre stati della cosiddetta “rust Belt” – Wisconsin (10), Michigan (15) e Pennsylvania (20) – che già decisero, per una millimetrica differenza di 77.000 voti, le sorti della contesa nel 2016.

E questo è, allo stato delle cose, il campo di battaglia. Da un lato un candidato, Joe Biden che, chiedendo pazienza, pretende che ogni voto venga contato. E, dall’altro, il presidente in carica che, già proclamatosi vincitore, grida alla frode – “non permetteremo che rubino le elezioni” – reclamando l’immediata interruzione del conteggio. Perché nel modo alla rovescia di Donald Trump, presidente di quella che, grazie a lui, è ormai una democrazia alla rovescia, proprio questo – contare i voti – è l’equivalente di una frode.

Come andrà finire è impossibile prevedere. Ma qualcosa – e qualcosa di molto triste – già si può dire. Questo scenario d’assoluta incertezza – uno scenario largamente previsto e temuto – poteva essere evitato solo da una vittoria di ampio margine (popolare e elettorale) – quello che negli Usa chiamano “landslide”, una valanga – del candidato democratico. E questa “valanga” non c’è stata. Vinca chi vinca, non c’è stato il “voto di ripudio” a Donald Trump ed a quello che Donald Trump ha, in questi anni, incarnato, spesso oltre i limiti della caricatura. Per l’appunto: la crisi della democrazia americana, finita (e non per caso, come anche i risultati di oggi confermano) nelle mani d’un personaggio che pensa, parla e si muove come il più vieto dei dittatorelli da repubblica bananera. I voti che mancano al conteggio sono, perlopiù, voti postali che ampiamente favoriscono Joe Biden. E che, se contati, molto probabilmente gli darebbero la vittoria. Ma verranno questi voti contati? È più che possibile che a decidere sia una Corte Suprema che – contro ogni democratica decenza e cambiando ogni regola – la maggioranza repubblicana del Senato ha, solo una settimana fa, provveduto a rimpinguare con un nuovo membro, la super-conservatrice Amy Coney Barrett, il cui voto potrebbe essere decisivo.

Si contino o non si contino i voti, questo è certo. In questi quattro anni è accaduto di tutto. E questo tutto è stato, negli i ultimi mesi trasfigurato da una pandemia che, impietosamente, ha rivelato, non di rado in chiave di farsa, l’inadeguatezza del presidente in carica, il suo pantagruelico fallimento di fronte alla crisi. Ma nulla è cambiato. Con poche varianti, la scena sembra la stessa del 2016. Donald Trump, dovessero tutti i voti esser contati, può perdere queste elezioni. Ed è certo che, prima di perderle trascinerà l’America nella tenebrosa spirale d’una lunga battaglia legale (e, forse, non soltanto legale). Ma queste elezioni hanno confermato che il trumpismo – orrida trasfigurazione del partito di Lincoln nel partito del culto di Trump – resta una realtà solida, palpabile, qualcosa che, come un virus, scorre nel profondo del sistema sanguigno della democrazia Usa. E, con questo virus, l’America ed il mondo dovranno, vinca chi vinca, convivere a lungo.

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