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Il Natale di Emmanuel

12 dicembre 2006

di M.C.

 

Doveva essere una bella storia di Natale. Ma è finita malissimo. Anzi: non è finta affatto. Il che inevitabilmente significa che il peggio – quello stesso peggio che, in Colombia, sempre occorre considerare come la più alta delle probabilità – deve, a tutti gli effetti, ancora venire. Il “regalo” che le Farc avevano promesso al presidente Chávez non è stato consegnato né per la “Nochebuena”, né per il Capodanno. E, probabilmente, anche quest’anno l’Epifania tutte le feste si porterà via senza che alcuno degli ostaggi “canjeables” – neppure i tre annunciati dalla guerriglia – tornino in libertà. I quattro elicotteri venezuelani rimasti per oltre una settimana in attesa di buone notizie sulla pista dell’aeroporto di Villavicencio sono ormai mestamente ritornati alla base, preceduti dal triste esodo di tutti i notabili internazionali, l’ex presidente argentino Néstor Kirchner in testa, mobilitatisi per l’occasione. E quello che resta non è, a questo punto, che il “carbone” d’un racconto surreale e crudele: la storia di un bambino che doveva essere liberato insieme a sua madre. E che invece, insieme a sua madre (ma da sua madre probabilmente lontano), continua ad essere l’oggetto d’un gioco feroce e, per molti aspetti, incomprensibile.

Proviamo a riassumere. Lo scorso 18 dicembre, attraverso un comunicato originalmente diffuso dall’agenzia di stampa cubana Prensa Latina (e quindi ripreso dall’ANNCOL), le Farc avevano comunicato la propria decisione di consegnare nelle mani del presidente venezuelano, o “a persona da lui designata”, Hugo Chávez tre dei 45 ostaggi considerati dall’organizzazione guerrigliera “scambiabili” nel quadro di possibile “accordo umanitario”. Quegli ostaggi erano Clara Rojas, prima collaboratrice di Ingrid Betancourt ed insieme a quest’ultima sequestrata il 22 febbraio del 2002, suo figlio Emmanuel, nato in cattività nel 2004, e l’ex deputata Consuelo González de Perdomo, nelle mani dell’organizzazione dal 10 settembre del 2001. Chávez s’era immediatamente messo in movimento annunciando la sua piena disponibilità a ricevere le tre persone liberate ed elaborando un piano prontamente accettato dal governo colombiano. In sostanza: due elicotteri (poi diventati quattro) dell’aviazione venezuelana sarebbero atterrati, con le insegne della Croce Rossa Internazionale, nell’aeroporto di Villavicencio (200 chilometri da Bogotà), in attesa che le Farc fornissero le coordinate del luogo nel quale i tre ostaggi potessero, infine, essere rimessi in libertà in condizioni di sicurezza. Ed a garantire l’assoluta trasparenza dell’operazione umanitaria avrebbe provveduto una commissione di alti esponenti dei governi di Francia, Argentina, Brasile, Cuba, Bolivia ed Ecuador. Tempo previsto: un paio di giorni, forse tre.

Una nuova ventata d’ottimismo aveva, all’istante, dissipato gran parte delle ceneri (ancora fumanti) lasciate dalle infuocate polemiche che, solo qualche settimana prima, avevano accompagnato la repente cancellazione dell’opera mediatrice di Chávez da parte del governo colombiano. E ciò a dispetto del fatto che assai arduo – ad una razionale analisi degli eventi – fosse intendere quanto quella delle Farc rappresentasse una nuova apertura e quanto, al contrario, la conferma d’un fallimento ormai consumato. L’annunciata liberazione dei tre ostaggi, dopotutto, veniva dalle Farc presentata non come un “primo passo” verso una ripresa dei negoziati, ma come la sanzione della fine dei negoziati. O meglio: come unsorta di premio di cosolazione alla buona fede ed alla buona volontà d’un “mediatore” che le Farc apprezzavano e che dal governo colombiano era stato messo da parte. Compensazione peraltro accompagnata – altro segnale inequivocabilmente negativo – da un netto rifiuto alla proposta, appena avanzata da Uribe, di creazione d’una “zona d’incontro” (vedi articolo).
Fosse o meno giustificato l’ottimismo della vigilia, le cose hanno comunque, e da subito, cominciato a complicarsi. Le Farc hanno ripetutamente rinviato la comunicazione delle coordinate a causa – questa la ragione ufficialmente addotta – delle “intense attività militari” in tutta l’area designata al rilascio dei prigionieri. E, quando ormai non mancavano che poche ore alla fine del 2007, hanno infine annunciato, con una lettera al presidente Chávez (da quest’ultimo letta in tv) la sospensione “sine die” della liberazione. Il tutto mentre lo stesso Uribe, giunto in quel di Villavicencio, offriva al mondo una “ipotesi”, o meglio, un “coup de theatre” che neppure la fervida mente del miglior sceneggiatore di telenovelas avrebbe potuto immaginare. La probabile ragione per la quale le Farc andavano posponendo il rilascio dei prigionieri – aveva annunciato ai giornalisti presenti il presidente colombiano – non andava ricercata nelle attività militari (inesistenti) ad arte attizzate dal governo colombiano, ma nel fatto che uno dei tre ostaggi – Emmanuel, il più piccolo ed il più atteso – non si trova in realtà nelle mani dei guerriglieri (o dei “terroristi” come Uribe è solito chiamarli), bensì in quelle dell’ Istituto Colombiano del Bienestar Familiar (ICBF). Ovvero: in un orfanatrofio dello Stato, ivi condotto, nell’anno 2005, dall’uomo al quale le stesse Farc aveva affidato il pargolo, incapace di reggere alle privazioni della vita nella giungla.

Vero? Falso? Un primo esame comparato del Dna del bambino e di Clara de Rojas, madre di Clara Rojas, ha confermato – con un’approssimazione di circa l’80 per cento (vedi gli articoli di El espectador e di El Tiempo) – la tesi avanzata dal presidente colombiano. Juan David Gómez Tapiero (questo il nome con cui il bambino è stato registrato presso l’ICBF) ed Emmanuel sono, con quasi assoluta certezza, la stessa persona. Ed assai probabile – a dispetto dei dubbi avanzati dal governo venezuelano e degli irridenti commenti della Farc (vedi nota dell’Agencia Bolivariana de Prensa) – è che, tra qualche settimana, questa conclusione venga confermata dai laboratori europei chiamati ad una verifica. Resta tuttavia il fatto che – quali che siano i responsi della scienza – ogni cosa continua ad apparire, in questa storia, completamente priva di senso. Per quale ragione le Farc – che dispongono di almeno 750 ostaggi, oltre ai 45 “canjeables” – avrebbero dovuto annunciare la liberazione di un sequestrato non in loro possesso?

Impossibile rispondere. Ma a sostegno della versione degli eventi tanto spettacolarmente avanzata da Uribe (e ribadita dai primi esami del DNA), vi sono anche almeno due decisive testimonianze: quella dell’uomo che ha a suo tempo affidato Juan David Gómez Tapiero (o il piccolo Emmanuel) all’ICBF, e che dall’ICBF ha recentissimamente (ma invano) tentato di recuperare (evidentemente per riconsegnarlo alle Farc); e quella di John Frank Pinchao (vedi articolo de El Espectador), un soldato colombiano che, un anno fa sfuggito alla prigionia nella giungla, aveva suo tempo incontrato il piccolo Emmanuel, descrivendone caratteristiche (in particolare un braccio rotto ed una cicatrice sul volto dovuta alla lehismaniasis, una malattia contratta nella selva) che quasi perfettamente corrispondono a quelle di Juan David.

Tutta una montatura? Soltanto un tentativo di “dinamitare lo scambio umanitario”, come ha sostenuto a suo tempo Hugo Chávez? Difficile crederlo. Non solo, e non tanto, per le prove (pur piuttosto numerose e consistenti) fin qui accumulate, quanto per una quasi lapalissiana considerazione. Quali che siano le manovre di Uribe – sulla cui volontà di pace sono in molti ad avere moltissimi ed assai fondati dubbi – la “prova delle prove” resta, in questo caso, saldamente nelle mani delle Farc. Se davvero il governo sta mentendo, perché il gruppo guerrigliero non rimette in libertà il “vero” Emmanuel? Nessuna persona il cui quoziente di intelligenza s’approssimi alla media può davvero credere che non lo facciano – rischiando un catastrofico colpo d’immagine per se stesse e per il governo di Chávez – solo perché l’esercito colombiano mantiene “intense attività”…

Più di un organo di stampa (vedi, a titolo d’esempio, l’Articolo dell’argentino Pagina 12) ha in queste ore fatto notare una singolare (e tragica) coincidenza. Nel suo messaggio di fine d’anno alle truppe – un messaggio datato 24 dicembre e diffuso dalla Agencia Bolivariana de Prensa – il leader storico delle Farc, Manuel Marulanda Vélez, annuncia a chiare lettere una nuova “offensiva generale”, senza neppure un vago accenno alla questione – a quel punto ancora apertissima – della liberazione degli ostaggi promessi a Chávez. O, ancor meno, a quella d’una possibile prospettiva di pace. Il che – come ben ricordava Antonio Caballero in questo bell’articolo dei primi di dicembre, scritto quando un ben più ampio “accordo umanitario” pareva, grazie alla mediazione di Chávez, giusto dietro l’angolo – ci riporta al durissimo nocciolo del problema. O, se si preferisce, all’ancor più duro cuore di questa interminabile tragedia. Il governo di Uribe e la guerriglia, ovvero entrambi i protagonisti di un possibile processo di pace – e, ancor prima, di qualsivoglia “accordo umanitario” – stanno, in modi diversi ma, entrambi, inequivocabili, preparando la guerra. Anzi: a dispetto delle grida che si levano in ogni parte del mondo, la guerra la stanno entrambi – e senza alcun “tacitiano” sottinteso – combattendo senza alcuna umanitaria concessione. Emmanuel potrà forse presto tornare, senza sua madre, nella casa dove sua madre nacque. Ma Clara Rojas resta, senza suo figlio, progioniera nella selva. Come Ingrid Betancourt e come gli altri 43 “canjeables”. Come le centinaia di sequestrati senza nome ( e forse già senza vita) sui quali le Farc hanno apposto l’etichetta d’un prezzo in denaro. Ostaggi, come tutta la Colombia, di una guerra la cui fine appare oggi più lontana di ieri, più lontana di sempre.

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