6 febbraio 2007
di Massimo Cavallini
All’unisono (vedi qui gli articoli di El Tiempo, El Espectador e El Colombiano) i media colombiani l’hanno definita “la più grande mobilitazione di massa nella storia del paese”. Anzi: la più grande “al di là del paese”, visto che manifestazioni – grandi, piccole e, talora, piccolissime, ma comunque esistenti, visibili ed udibili – si sono tenute ai quattro angoli del pianeta, da Parigi a Pechino, da Sidney a Tokyo. Ed assai probabile è che non sia affatto, quest’aggettivazione degli eventi, un’iperbole propagandistica. Basta, del resto,un’occhiata alle fotografie per comprendere come – al di là d’ogni storica graduatoria – quella vissuta il 4 di febbraio dalla Colombia sia stata, a tutti gli effetti, una giornata storica, l’indimenticabile e, a suo modo, permanente riflesso d’un sentimento popolare che da stolti sarebbe attribuire soltanto alle “manipolazioni del governo di Uribe”. Organizzata da un “signor nessuno” attraverso il portale d’interscambio sociale Facebook – per questo ormai sospettato, dai soliti complottologhi, d’essere una “agenzia della Cia” – la chiamata ad una giornata di protesta “contro i sequestri e le Farc” ha portato in piazza molte centinaia di migliaia di persone solo a Bogotà. E, nel resto del globo terraqueo (a partire dalle altre grandi città colombiane), ben più del “milione di voci” (quasi cinque volte tanto, secondo gli organizzatori) ipotizzato dall’iniziale appello alla mobilitazione.
A sinistra qualcuno, chiusi gli occhi e tappatosi le orecchie, l’ha chiamata “marcia dell’odio”, bollandola come una “tipica adunata totalitaria” o, meglio, come una sorta di isterica “chiamata alle armi”, non solo contro le Farc, ma contro qualsivoglia scambio umanitario, contro Chávez e, soprattutto, contro qualsiasi ipotesi di soluzione pacifica del conflitto (vedi l’articolo pubblicato dalla pagina web di Latinoamerica). E certo è che, con un po’ di buona volontà, anche in queste molto parziali (spesso grossolane e sempre esagitate) analisi è possibile reperire qualche isolato brandello di verità. Il governo di Uribe non ha infatti, com’è ovvio, fatto nulla per ostacolare una manifestazione che, oggettivamente, non poteva che giungergli gradita. Ed è un fatto anche che, almeno a Bogotà, gli uffici pubblici e le scuole sono state chiuse per consentire una maggiore partecipazione alla “grande marcia”. Ma bisogna davvero essere ciechi e sordi per non vedere come questi – peraltro assai blandi – elementi di “mobilitazione di regime” non siano, in realtà, che gli isolati alberi (o gli sparuti arbusti) d’una foresta la cui vista panoramica rivela una semplicissima ed ineludibile verità: le Farc sono oggi , anzi, sono ormai da molti anni, detestate da una larghissima maggioranza della popolazione colombiana (il 96 per cento secondo un recentissimo sondaggio). Anzi: sono, nel senso comune della gente, a torto a ragione (forse più a torto che ha ragione, ma questo ben poco cambia le cose), identificate con la guerra e con i suoi orrori. Ed è qui che, lasciando da parte ogni ridicola teoria cospirativa, va ricercata la ragione vera, profonda del grande successo della marcia di martedì 4 febbraio.
Perché le Farc sono tanto impopolari? Anche qui è bene mettere subito da parte ogni scempiaggine (vedi ancora l’articolo di Latinoamerica) sui “poveri colombiani” ingannati dalla “martellante propaganda delle televisioni commerciali”. Perché il fatto ovvio per chiunque abbia occhi per vedere ed orecchie per sentire (e sia disposto a farne uso con un minimo d’onestà intellettuale) è che le Farc questa devastante impopolarità se la sono, in effetti, gloriosamente conquistata sul campo, senza bisogno di alcun aiuto esterno. Come? Attraverso i mezzi più semplici ed immediati. Vale a dire: usando a piene mani ed a pieni polmoni, spesso con ostentata crudeltà (vedi, a titolo d’esempio, questo articolo pubblicato dall’Unità nel 2002), mezzi di lotta, o meglio, mezzi di lucro, assolutamente infami. Su tutti: il sequestro di persona. Non solo quello (in qualche misura legittimo) “di guerra” (contro soldati e poliziotti), o politico (contro parlamentari e pubblici funzionari in genere), ma – in grande prevalenza statistica – quello per vil danaro, praticato in modo indiscriminato (vedi l’articolo Oltre Ingrid e questa bella inchiesta del settimanale Cambio) attraverso le cosiddette “pesche miracolose”. Il tutto per un reddito annuale (vedi questo articolo pubblicato da Diario nel gennaio del 2001) molto vicino ai 200 milioni di dollari all’anno.
La verità – l’ovvia verità per chiunque abbia una qualche conoscenza della Colombia e non sia accecato dai propri pregiudizi politici – non sta nell’assioma secondo il quale Uribe ha, con la complicità di mezzi d’informazione asserviti, creato l’odio per le Farc, bensì nel fatto, storicamente verificabile, che, all’opposto, è stato l’odio per le Farc a creare Uribe. Ed a mantenerlo alla presidenza con un indice di gradimento calcolato, alla vigilia della marcia, ai suoi massimi storici: l’80 per cento. Nel 1998 il conservatore Andrés Pastrana aveva condotto la sua vittoriosa campagna presidenziale sulla base di una semplice promessa: l’avvio di un processo di pace – allora reclamato da un’ampia maggioranza della popolazione – con le Farc. Nel 2002 Álvaro Uribe ha vinto – rompendo con l’establishment liberale e spezzando la vecchia ed inamidata logica “bipartidista” che reggeva la Colombia dai tempi della Violencia – con una piattaforma diametralmente opposta. Perché? Elementare e tragica la risposta: perché nel mezzo c’è stata l’esperienza – un’occasione criminalmente perduta (e perduta, nel sentire comune, per quasi esclusiva responsabilità delle Farc) – del Caguán. Ovvero: i tre anni d’un negoziato di pace che, mai davvero cominciato, ha tuttavia regalato all’organizzazione guerrigliera tre anni di assoluto controllo su un’area (quella del Caguán, per l’appunto) grande come la Svizzera.
Va da sé che le ragioni ed i torti del fallimento dei negoziati pace (o del loro aborto in slow motion) non possono essere separate – di qui tutto il bene, di là tutto il male – con il coltello. Ma è un fatto che proprio il periodo del Caguán è stato, in Colombia, il periodo di maggior auge dei sequestri di persona. Ed è un fatto che, a torto o a ragione (più a ragione che a torto, in questo caso) la pubblica opinione (la stessa che aveva originalmente salutato con entusiasmo il processo di pace) ha finito per indissolubilmente collegare i due fenomeni. Vale a dire: è, del tutto legittimamente, giunta alla conclusione che le Farc abbiano usato il territorio loro concesso nel nome di una pace di cui neppure si è vista l’ombra come retroterra delle loro lucrose attività criminali (vedi, a questo proposito, l’interessante articolo dell’ex guerrigliero Joaquin Villalobos, a suo tempo uno dei massimi leader del FMLN salvadoregno).
Questo – con buona pace degli amanti delle teorie cospirative – è quello che davvero sta dietro la più grande mobilitazione popolare della storia della Colombia. E questa è la vera domanda che oggi occorre porsi: in che modo è possibile riscattare il processo di pace colombiano dalle ceneri del Caguán? E qual è davvero stato, in questa prospettiva, il significato della mobilitazione del 4 febbraio? Contrariamente a quanto scritto dai commentatori più superficiali e prevenuti – specie, come visto, sulle italiche sponde – la pace (e non l’odio, o lo guerra) è stata la forza portante d’una manifestazione i cui toni sono in realtà apparsi, anche nei giorni della preparazione, alquanto sfumati. Tanto sfumati che, alla vigilia della manifestazione, il presidente Uribe si era addirittura preso il lusso – con la forza dei nervi distesi tipica dei sicuri vincitori e con ovvio riferimento a Hugo Chávez – d’invitare i partecipanti ad evitare qualunque irrispettosa espressione nei confronti dei governi di “paesi vicini e fratelli”. Ma l’avversione per le Farc – individuate come principali nemiche della pace – era comunque evidente già nello slogan (“no más Farc”, basta con le Farc) di convocazione della marcia. E l’ostilità nei confronti di Chávez (vedi “foto del giorno”) era comunque palpabile. Inevitabilmente palpabile, considerata l’aggressività con la quale, nelle ultime settimane, con tutt’altro che inconsueta logorrea, Chávez si è giocato ogni residua possibilità di mediazione di fatto identificandosi con la causa delle Farc (vedi, a tal proposito, questo interessante articolo in cui, La Semana, si chiede quale, oltre l’apparente demenzialità delle parole, sia, in effetti, il “gioco di Chávez”).
Il fatto è che – quali che siano stati gli slogan gridati in questa globale mobilitazione per lapace (o in questa adunata totalitaria)– la manifestazione è tornata a rivelare, con grande passione e con inevitabile ambiguità, il vero, tragico paradosso della situazione colombiana: l’impopolarità della Farc è ormai tanto pronunciata e, a questo punto, irreversibile, da rendere alquanto problematico ogni progetto di reinserimento civile dell’organizzazione. E chiaro è come, senza una concreta possibilità – o, se si preferisce, senza un autentico interesse – di ricongiunzione con il gioco democratico, molto difficile diventa ipotizzare qualsivoglia processo di pace. Che ruolo potrebbero avere le Farc – ci si chiede – in un paese che, semplicemente, le detesta? Continuando lungo il filo del paradosso, si può affermare che, in tema di pace, il problema delle Farc sia parallelo ed opposto a quello delle famigerate formazioni paramilitari delle AUC . Perché se le prime appaiono oggi difficilmente integrabili per la loro impopolarità, le seconde – sebbene altrettanto impopolari – appaiono, nella prospettiva della pace, difficilmente “disintegrabili”. Nel senso che, proprio il processo di disarmo negoziato messo in atto dal governo di Uribe negli ultimi due anni, ha dimostrato (o meglio, confermato con un’agghiacciante abbondanza di truci dettagli) la macabra profondità dei loro rapporti con un potere oligarchico di cui erano e restano, per molti aspetti, il feroce braccio armato.
Difficile orientarsi in questo ginepraio di contraddizioni. E difficile dire è quanto, in effetti, questa manifestazione per la pace, gigantesca e storica nelle sue dimensioni, abbia davvero avvicinato la pace in Colombia. Di certo c’è, invece, il fatto che, in questo ginepraio, sembra drammaticamente ridursi – come testimonia il fallimento della contromanifestazione del Polo – lo spazio per le “terze posizioni”. E che – a dispetto della prossima liberazione di altri tre ostaggi, anch’essi “regalati” dalle Farc a Chávez – anche un accordo umanitario appare molto lontano. Perso tra le oceaniche dimostrazioni di avversità alle Farc e l’insultante (e a questo punto indecifrabile) retorica bellicista di Hugo Chávez.
La Colombia ha vissuto, lunedì scorso, la più grande mobilitazione popolare della sua storia. Ma la speranza di un futuro di pace non è mai stata, probabilmente per quelli che hanno marciato e per quelli che non hanno marciato – più piccola e lontana.