Gli hanno dato 13 anni, nove mesi, sette giorni e 12 ore di carcere. E va subito detto che si tratta, al di là d’ogni ragionevole dubbio, della più consona conclusione del processo che, negli ultimi 17 mesi, ha visto due grandi protagonisti: il leader dell’opposizione Leopoldo López, nelle vesti di imputato, e, nei panni dell’accusa, la Repubblica Bolivariana del Venezuela, creatura del defunto tenente colonnello Hugo Chávez Frías, oggi celebrato come il ‘comandante supremo ed eterno’. Perché la più consona? Per la semplice, lapalissiana ragione che un processo-farsa non poteva che concludersi con una condanna-farsa. O, a ben vedere, con qualcosa d’ancor peggio d’una farsa. Quel che infatti impietosamente emerge da questa lunga avventura (o disavventura) giudiziaria, è il fatto che il governo bolivariano – oggi guidato da Nicolás Maduro, ‘figlio’ ed ‘apostolo’ di Hugo Chávez – s’è rivelato del tutto incapace, non solo di governare un Paese trascinato sull’orlo dello sfascio economico, politico e morale, ma anche d’allestire un’appena decente (decente nel senso di non totalmente grottesca) parodia di giustizia. Più che ad una farsa, in effetti, il processo contro Leopoldo López è sembrato, in ogni sua fase, una barzelletta. Una barzelletta molto – davvero molto – mal raccontata.
Questi i fatti. López è stato formalmente condannato per incendio doloso, danneggiamenti e (questi i due reati più gravi) istigazione ed associazione a delinquere. Ma in realtà la storia del suo processo è stata, fin dall’inizio, la surreale, tenebrosa e tragicomica storia d’una preventiva sentenza di colpevolezza in cerca d’uno o più delitti. Tutto, narrano le cronache, cominciò il 12 febbraio del 2014, dopo che una manifestazione studentesca – convocata per protestare per l’arresto arbitrario di alcuni studenti – era terminata violentemente, causando la morte di tre persone. E proprio di quelle tre morti López – che alla manifestazione aveva aderito e che, giorni prima, aveva lanciato una campagna nazionale di proteste chiamata ‘La Salida’, l’uscita, nell’ovvio senso della uscita di scena del governo bolivariano – era stato originalmente accusato seguendo la più collaudata pratica della giustizia bolivariana. Ovvero: prima in diretta Tv dallo stesso Maduro, poi ufficialmente (e supinamente) dagli zelanti inquisitori di turno. Tutto questo a dispetto del fatto che, al momento degli eventi, López già avesse da tempo abbandonato la piazza. Gli incidenti mortali s’erano infatti verificati dopo che la manifestazione s’era sciolta. O, più esattamente, dopo che gli organizzatori, López tra questi, avevano invitato i dimostranti a disperdersi pacificamente.
Un’inchiesta del quotidiano ‘Últimas Noticias’ – di recente passato nell’orbita chavista, ma ancora in possesso, ai tempi, di qualche margine d’autonomia – dimostrò pochi giorni dopo, sulla base di inoppugnabili prove video e fotografiche, che le tre vittime erano state in realtà assassinate a sangue freddo da agenti del Sebin (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional). Ovvero: proprio da quello Stato che, con tanto televisiva sollecitudine, aveva il giorno stesso accusato López di omicidio. Ma nulla cambiò. La ‘fiscalia’ aprì formalmente un’inchiesta (che ora non si sa bene dove sia finita) contro gli agenti colti con le mani nel sacco. E López, che s’era spontaneamente consegnato alla giustizia (si fa per dire) il 18 febbraio, restò in carcere, in attesa che quella medesima giustizia (si rifà per dire) decidesse infine di che cosa fosse di fatto colpevole.
Il risultato? Un documento (qui lo trovate nella sua interezza) dal quale inoppugnabilmente risultava che López non aveva commesso nessuno degli atti criminali consumatisi in quel 12 di febbraio, ma che quei fatti aveva diabolicamente ‘ispirato’ attraverso messaggi ‘subliminali’ contenuti in discorsi ed in ‘tweets’, alcuni dei quali, tra l’altro, diffusi dopo gli eventi per i quali era sotto accusa. Ridicolo? Certamente.
Ma proprio questo, il ridicolo più sfacciato, è stato il permanentemente il marchio di fabbrica del processo che (rigorosamente chiuso al pubblico ed ai media) da questo indecoroso capo d’accusa ha poi preso le mosse. Qualche numero giusto per dare l’idea. Prima dell’avvio del dibattimento, l’accusa aveva presentato al giudice Susana Barreiros una lista di prove fondata sulla testimonianza di 108 persone (nella quasi totalità funzionari di governo), tutte ammesse senza problemi. La difesa ne aveva invece presentati, di testimoni a discarico, poco più della metà: 60. Tutti dichiarati dal giudice ‘inammissibili’. Tutti tranne due, ma solo per il fatto che erano stati inclusi anche nella lista dell’accusa. Ed il bello è che – come riferito dagli avvocati della difesa – nel corso del processo il giudice ha con grande zelo provveduto anche ad eliminare alcune delle ‘prove’ presentate dalla medesima accusa, allorquando s’è reso conto – è il caso di quattro filmati della manifestazione incriminata – che in realtà erano molto più scagionanti che incolpanti. Decisione impeccabile. Perché mai il tribunale avrebbe dovuto perder tempo con dettagli che contraddicevano una sentenza già scritta ed immutabile?
Il finale? Quattordici anni aveva chiesto l’accusa. E 14 anni ha concesso – con un generoso sconto di 99 giorni e mezzo – la signora Barreiros. Giustizia è fatta. Il ‘monstruo de Ramo Verde’ – come i media governativi chiamano López (con riferimento al carcere militare nel quale è rinchiuso) – pagherà infine il fio delle sue colpe. Sulla tolda del Titanic Bolivariano (che qualcuno continua a considerare un transatlantico ‘di sinistra’), oggi si balla, si ride e si stappano bottiglie di champagne…