21 gennaio 2010
di Gabriella Saba
Per la prima volta dopo cinquant’anni la destra cilena ha vinto, democraticamente, le elezioni presidenziali. Nel 1958 Jorge Alessandri guadagnò sui candidati Frei Montalva e Salvador Allende e da allora soltanto un golpe riuscì a riportare una coalizione di destra alla Moneda. Non si è trattato della disfatta clamorosa di cui hanno parlato i media (il margine di scarto è stato di circa tre punti: 51,6 per cento per Piñera e 48,4 per cento per Eduardo Frei-Ruiz Tagle, il candidato concertazionista e figlio dell’altro Frei) ma, per quanto risicata, la differenza ha sancito la voglia di cambio della maggior parte dei cileni, e l’entusiasmo per la vittoria ha fatto capire, a chi li governa, che il voto a Piñera non era tanto per fare ma era indicativa di una precisa volontà, di una sentita e condivisa voglia di affidare le proprie sorti (o almeno quelle del Paese), a un personaggio e a una coalizione che non fossero quelli che hanno governato per vent’anni. Da quando la sconfitta del Centro-sinistra ha cominciato (durante la campagna) ad apparire certa, la sinistra moderata non ha fatto che barcamenarsi tra autoelogi e auto da fé, esagerando in entrambe le cose e sconcertando gli elettori. E’ vero che, durante i quattro governi della Concertazione che hanno accompagnato il Paese dalla fine della dittatura a oggi, il Cile è cresciuto, la povertà è nettamente diminuita, la protezione sociale è migliorata e le battaglie per i diritti umani hanno compiuto decisivi passi avanti. Ma nessuno di quei gabinetti ha risolto, se non parzialmente, molti problemi di fondo come la insostenibile breccia tra ricchi e poveri, la divisione in classi, la latitanza di un serio welfare, l’iniquità di un’istruzione che, quando è decente, è troppo costosa per essere accessibile a molti, l’inadeguatezza di stipendi minimi che si mantengono intorno ai duecento dollari al mese. Sono queste le carenze che hanno spinto i cileni a votare a destra e sono dunque giustificate le ammissioni di colpa della Concertazione, quella che si mette in gioco sulle pagine dei giornali e nei lunghi, sofferti editoriali in cui ammette errori mai troppo accettati prima e a volte si flagella per colpe di cui le tocca adesso pagare il conto? E sul serio il Cile cerca a destra, e soprattutto in una destra come quella di Sebastián Piñera, una risoluzione di quelle mancanze, una risposta ai vizi di cui sopra? “Almeno, qualcosa cambierà e non può che cambiare in meglio”, mi dicono le decine di persone con cui parlo, e non si tratta di manager del Barrio Alto, i quartieri bene di Santiago, ma di autisti dei bus, di portinai delle recepcion, di commessi dei negozi, di segretarie di banca. Molti di loro hanno celebrato, con l’entusiasmo liberatorio destinato in genere alle vittorie dei Mondiali di calcio, i risultati delle elezioni la sera e la notte del 17: strombazzavano e agitavano bandiere con l’effige di Piñera e di Coalicion por el Cambio, gridavano “Abbiamo vinto” ed esultavano con la stessa foga dei biondi eleganti che sfilavano su Mercedes e Suv lungo la strada di Vitacura, una delle più eleganti della capitale, in una sorta di catartica trance che lasciava spiazzati gli osservatori stranieri.
“E adesso cambieremo tutto”, gridavano gli affiliati ai diversi gruppi sociali, che qui è come dire diverse confraternite. E molti, sull’altro fronte, rabbrividano al pensiero di un cambio. Eppure, che cambio potrà mai esserci, si chiedeva il giorno dopo dalla sua rubrica sul quotidiano Mercurio Carlos Peña, uno degli analisti politici più fini del Cile. “La modernizzazione del Cile sembra già definita nella sua parte fondamentale – si tratta di una modernizzazione indubbiamente capitalista .- e a meno che la destra smetta di essere la destra e Piñera smetta di essere Piñera, la sua gestione non cambiera nulla. Potranno esserci miglioramenti nella politica pubblica, più efficienza qui e là, e un miglior managment, però di cambio non ce ne sarà, manca lo spazio”
Un po’ di efficienza? Di certo non si limitano a questo le aspettative del quasi 52 per cento dei cileni che lo hanno votato, il loro ferovore nemetico, lo sguardo fiducioso verso il futuro promesso da Piñera che ha gia stabilito, con l’entusiasmo del dopo vittoria, di trasformare il Cile nel Paese migliore del mondo. Dunque, Sebastián Piñera. Nella semplificata visione generale è stato soprannominato il Berlusconi cileno. Con il premier italiano ha in comune il fatto di essere un imprenditore miliardario, proprietario di un canale televisivo (uno dei sette della televisione cilena) e di una squadra di calcio, e di essersi sottoposto a un certo numero di lifting mai dichiarati, ma per il resto la sua storia personale è assai diversa (per inciso, è anche proprietario di una linea aerea, la Lan Chile, o meglio di una quota che gli permette il controllo di questa e che ha promesso di vendere per non incorrere nel conflitto di interessi). Piñera è un economista di classe alta, con studi ad Harvard, per molti versi molto lontano dai toni urlati e goderecci dell’italiano. Vive da sempre con la stessa donna (da cui ha avuto quattro figli) e non hai mai dato adito a scandali ma, soprattutto, se i cileni lo hanno votato non è perché alimenta il loro sogno di diventare, un giorno, come lui. Lo vedono invece come un uomo forte che puo guidare il Paese, dare grinta all’economia, svecchiare le strutture dei partiti e debellare le lotte interne che hanno rappresentato il principale motivo di crisi della Concertazione, ridurre la piccola corruzione e l’inefficienza, e cioé le inevitabili magagne che porta con sé la troppo lunga permanenza al potere.
Piñera ha giocato molto bene, in campagna, le carte di una destra moderna, progressista, puntando sul fatto (vero) di essere stato antipinochetista e avere votato No al referendum dell’88. Afferma di guardare avanti anziche indietro, ed è riuscito a tacitare, durante la campagna, e far ingoiare molti rospi alla Udi, il partito della destra più reazionaria che lo ha appoggiato, rendendogli possibile la vittoria, visto che è il più votato in Cile. Molto legata a Pinochet, è intuibile che la Udi passerà a Piñera un conto salato, forte dei quaranta deputati del cui appoggio il nuovo Presidente avrà bisogno per fare approvare i suoi progetti di legge (per inciso, la Concertazione ha ancora la maggioranza al Congresso): quelli che occorreranno per spingere la produttività, favorire la crescita economica e creare quel nuovo milione di posti di lavoro che è stato uno dei punti di forza della sua campagna. L’obiettivo è che il Cile arrivi a diventare, nel 2018, un Paese sviluppato, con un tasso di crescita del sei per cento annuo, e un aumento delle entrate pro capite fino a 22.000 dollari all’anno, uguale a quello dei Paesi del Sud d’Europa.
Benché, in campagna, il nuovo presidente si sia guadagnato l’appoggio di molti gay promettendo una legge che legalizzerebbe le unioni di fatto, la sua politica sui diritti civili e le libertà sessuali è molto conservatrice, per esempio è contrario all’aborto. Molto vicino al presidente colombiano Alvaro Uribe e parzialmente anche ad Alan Garcia, Piñera ha realizzato una vistosa marcia indietro rispetto al precedente governo riguardo all’accesso al mare della Bolivia, che questa aveva perso alla fine della Guerra del Pacifico e che aveva causato la rottura delle relazioni diplomatiche con quel Paesi. L’ex presidente Michelle Bachelet aveva stilato una agenda di 13 punti con il suo omologo Evo Morales, all’inizio del suo mandato, ma le dichiarazioni del suo successore fanno pensare che resteranno lettera morta.
L’interrogativo più frequente di questa campagna (in particolare dopo la vittoria della destra), riguarda la poca correlazione numerica tra l’altissimo consenso riportato dalla Bachelet, di circa l’ottanta per cento alla fine del suo mandato, e i risultati elettorali. In altre parole, ci si chiede come mai l’approvazione non si sia “travasata” naturalmente dall’ex presidenta al candidato della Concertazione. In realtà, il carisma dellla Bachelet è stato soprattutto personale, basato su una empatia umana ed equanime. Anziché venire identificato con la Coalizione di governo, il suo successo è stato a volte “nonostante” la Concertazione, considerata sempre più un Olimpo, lontano dalla gente.
Che i cileni fossero stanchi, o delusi, è stato evidente d’altronde dall’inaspettato successo del candidato indipendente Marco Enríquez-Ominami, detto Meo, 36enne transfugo del partito socialista che, un anno fa, decise di candidarsi senza contare sull’appoggio della Concertazione e che conquistò al primo turno, inaspettatamente, il venti per cento dei voti. Anche Meo, un candidato trasversale molti dei cui consensi sono andati, al ballottaggio, al vincitore Piñera, puntava sul cambio, contando allo stesso tempo sulla sua giovane e fresca faccia di seminovellino della politica e su un back ground rilevante. Figlio di Miguel Enríquez, fondatore del Mir, morto ammazzato nel ‘74, e di una nota giornalista molto mondana, Manuela Gumucio, venne adottato dal secondo marito di questa, il popolare senatore socialista Carlos Ominami. Studiò filosofia e poi si diede al cinema, infine entrò in politica e venne eletto deputato per il Psi. Il suo programma, che nelle intenzioni ricalcava il centrismo pragmatico di stampo obamiano, gli attirò molti consensi nonostante non fosse, in realtà ben definito.
Accusato da molti di avere contribuito alla sconfitta della Concertazione, Ominami non ha fatto altro, in realtà, che scoperchiare la pentola (non fosse stato per lui è molto probabile, a giudicare dai numeri, che Piñera avrebbe vinto al primo turno). E’ vero che le sue sparate contro la Coalizione di governo sono state parecchio vivaci, ma il suo continuo appello al cambio ha attirato più elettori da destra che da sinistra. A incarnare, dunque, il cosiddetto vecchiume politico era rimasto solo (se si esclude la carismatica ma troppo schierata presenza di Jorge Arrate, il candidato della sinistra più dura), il 68enne Eduardo Frei-Tagle, democristiano già presidente della Repubblica e quindi un volto non certo inedito, e un governante il cui passaggio alla guida del Paese non ha lasciato un ricordo memorabile. Politico misurato, colto, molto serio e poco empatico, considerato universalmente fome, noioso, Eduardo Frei ha avuto vita dura nell’affrontare un pirotecnico Piñera che si esibiva in generose (e a volte difficilmente credibili) promesse elettorali così come in performance artistiche (cimentandosi quando richiesto in balletti alla Michael Jackson e in esibizioni canore). Molto civilmente, si è recato però, insieme alla sua famiglia, a congratularsi con il neo eletto appena i risultati della vittoria sono stati certi. Con altrettanta civiltà, e con la magnanimità del vincitore, Piñera ha lodato a sua volta l’avversario con cui fino a tre giorni prima si era verbalmente scannato, dichiarandosi convinto che farà una buona opposizione e una opposizione leale. Ha ricevuto in diretta televisiva le congratulazioni della presidente Bachelet (anche lei misurata, cordiale), e poi è andato a festeggiare con il suo staff. Nelle strade di Santiago si è scatenata la bagarre. Una bagarre irrazionale, emotiva e vagamente inquietante, come se il Cile si stasse liberando da chissà quale spaventosa, ventennale schiavitù, e dietro l’angolo ci fosse, sul serio, ad aspettare i cileni, il Paese migliore del mondo di cui parla Piñera.