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Bob, le due facce della notte

MARZO 2008

 

“When he shall die,

 

Take him and cut him out in little stars,

 

And he will make the face of heaven so fine,

 

That all the world will be in love with night

 

And pay no worship to the garish sun”.

 

Quando morirà, prendilo e ritaglia il suo corpo in tante stelline. E il firmamento diventerà tanto bello che tutto il mondo s’innamorerà della notte e cesserà d’adorare lo sgargiante sole…

 

Dicono sia stata Jacqueline a scegliere queste parole. O meglio: a prenderle in prestito dalla più bella tra le molte estasiate metafore che la Giulietta di William Shakespeare dedica al suo Romeo. Ma a pronunciarle – ed a pronunciale, ricordano le cronache del tempo, con la “voce monotona di chi non ha il dono dell’eloquenza e, insieme, con la forza di chi è sospinto dall’impetuosa corrente della Storia” – fu in realtà Robert Francis Kennedy. Lo scenario era quello della Convenzione democratica di Atlantic City, riunitasi il 27 agosto del 1964 per decretare – freschissima la memoria dell’omicidio di Dallas – la ricandidatura presidenziale di Lyndon Johnson. E, forse ancor più, per ricordare e riaffermare – con il fervore e, al tempo stesso, con la calcolata ipocrisia che alimenta ogni religione – il nascente mito di John Fitzgerald Kennedy. Bob aveva due mesi prima rassegnato le sue dimissioni da Attorney General ed ufficialmente annunciato la sua candidatura a senatore per lo Stato di New York. Ma era in effetti come “fratello”, anzi, come indiscutibile erede e come garante del mito, ch’egli s’era presentato innanzi ai delegati. Molto preciso il suo compito: quello di commentare il breve film che, in apertura dei lavori, doveva riaffermare, di fronte al partito e di fronte al mondo, il lascito e l’immagine del presidente assassinato.

 

Avrebbe dovuto essere, quella di Bob, una classica orazione agiografica. E tale in effetti fu, dopo i venti, interminabili minuti di “standing ovation” che salutarono la fine del film. Ma fu anche qualcosa di molto meno e, nel contempo, di molto più dell’appassionata e, a suo modo, scontata liturgia che molti s’attendevano. Molto meno perché la metafora shakespeariana era – ben lontano dalla rapita innocenza di Giulietta – un ovvio ed assai contingente messaggio in codice per Lyndon Johnson (l’usurpatore, il “sole sgargiante” indegno dell’adorazione degli uomini). E, insieme, qualcosa di molto più alto e duraturo della cerimoniale ovvietà della circostanza o della sincera commozione del momento. Perché, con le sue parole, Bob andava (più di quanto lui stesso potesse immaginare)marcando dubbi e passioni, emozioni destinate a durare ed a riproporsi nel tempo, come parte essenziale della storia americana.

 

Quarantaquattro anni e cinque mesi sono passati da quella serata ad Atlantic City. Ed oggi, 16 marzo 2008, cade il quarantesimo anniversario del giorno in cui, nell’atrio di Capitol Hill,, Robert Francis Kennedy ufficialmente dichiarò – in quello che molti oggi considerano il preludio d’una morte annunciata – la sua volontà di partecipare, in quel fatidico 1968, alla corsa per la presidenza. Ma ancora resta, pressoché intatta, anzi, rafforzata dagli eventi che seguirono, la forza di quei versi rubati a Shakespeare. Perché ancora, dopo più di quattro decenni, il mondo continua a chiedersi per quale motivo l’America – una parte d’America, o quella che molti considerano la sua parte migliore – resta perdutamente “innamorata della notte”. Ovvero: abbagliata non dall’appariscente, solare luminosità della propria possanza, ma dal mito tenue della propria potenziale bontà, dalla fiamma del “kennedismo”, dal fascino discreto ed irresistibile di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, di ciò che deve essere e che, ancora, può tornare ad essere. Come si spiega?

 

La prima e più immediata (quasi lapalissiana) risposta sta ovviamente nella morte dei due protagonisti del mito, nell’interruzione violenta d’un percorso politico oltre il quale si può immaginare, anche contro la logica della Storia, tutto ciò che si vuole. Gli studiosi del kennedismo hanno spesso sottolineato il contrasto – talora molto stridente – tra la realtà dei fatti, quasi sempre di piuttosto opaca tonalità, e lo splendore d’un mito basato su tre fondamentali pilastri: la battaglia per i diritti civili, la lotta per la giustizia sociale e la pace (pace nel senso storicamente specifico della fine della guerra del Vietnam e nel più generale senso di pace nel mondo). Il primo polo della contraddizione (la realtà dei fatti) ci racconta di una presidenza (quella di John Kennedy) certo marcata da fondamentali vicende (la Baia dei Porci e la crisi dei missili, l’apertura d’una nuova fase nei rapporti con l’Unione Sovietica e, per l’appunto, l’esplosione della battaglia per i diritti civili) ma troppo breve (e, nella sua brevità, troppo contraddittoria) per consentire giudizi definitivi. Pur evidentemente cosciente (come del resto era stato, prima di lui Eisenhower) dell’ineluttabilità e della giustezza del movimento anti-apartheid negli Stati dl Sud, John Kennedy fu, in effetti, un piuttosto tiepido sostenitore dei diritti dei neri (il grosso del lavoro lo avrebbe fatto, negli anni successivi, proprio l’ “usurpatore” Lyndon Johnson). E la guerra in Vietnam fu proprio lui – JFK, che la sua campagna, nel 1960, l’aveva fatta propugnando una più aggressiva politica anticomunista – ad iniziarla nella forma d’assistenza militare, lasciando poi, ben visibili, le sue impronte digitali nel golpe che, il primo novembre del ’63, (tre giorni, appena, prima della tragedia di Dallas),fu la vera premessa della successiva “escalation” bellica. Ovvero: nell’omicidio di Ngo Dinh Diem e nell’abbattimento del suo governo.

 

Ed ancor più complessa appare l’analisi comparativa tra realtà e mito se si esamina il “kennedismo” concentrando l’attenzione su Bob. Vale a dire: su quella che, del mito, è la parte più tortuosa ed inconclusa, più tenebrosa, per molti aspetti, ma anche più duratura. Arthur Schlesinger Jr., il grande storico che del kennedismo è stato un molto coinvolto ma anche molto lucido analista, così una volta descrisse la differenza tra i due fratelli : “John era, nel fondo, un uomo felice, in pace con se stesso. Bob era un uomo triste. John sembrava invulnerabile, un talento naturale qualunque cosa facesse. Bob appariva, invece, vulnerabile, cupo, infelice, permanentemente arrabbiato con se stesso…”. Ed è un fatto che davvero cupe – o, quantomeno, molto più ricche di ombre che di luci – appaiono le cronache dei suoi anni come Attorney General. Robert Kennedy fu, in effetti, tra il ’60 ed il ’64, molto più d’un segretario alla Giustizia. Fu un molto potente super-consigliere, una sorta di ruvido buttafuori all’interno dell’Ufficio Ovale, un personaggio anche da molti uomini dello staff kennediano considerato vendicativo e fanatico. Un autentico “falco”, si trattasse di tenera a bada i comunisti nel Sud Est asiatico, di perseguire la malavita infiltrata nelle trade unions, o di allearsi con quella medesima malavita per organizzare, con l’ovvio sostegno della Cia, attentati contro la vita di Fidel Castro (i dettagli della cosiddetta “operazione Mangoose” rivelano come uccidere il leader cubano fosse diventata per Bob, una vera e propria ossessione; ed è certo che questa ossessione era parte d’una visione della politica internazionale di cui, come testimoniato dal caso di Ngo Dinh Diem, l’omicidio politico era parte integrante).

 

Lo scrittore Gore Vidal, nel 1965, quando già Bob era senatore, così ebbe a descriverlo pubblicamente: “…un uomo pericoloso e spietato…una personalità degna di Torquemada capace soltanto, contrariamente al fratello, di vedere le cose in bianco e nero…”. Così era stato Bob nei suoi anni da Attorney General. Aggressivo con tutti coloro che vedeva come nemici. Si trattasse dei razzisti bianchi del sud o, per contro, dei “Freedom Riders” che proprio contro il razzismo si battevano con una radicalità ed una coerenza considerati non in sintonia con gli interessi della Casa Bianca. Si trattasse di attaccare il sindacalismo corrotto di Jimmy Hoffa, o di tenera a bada Martin Luther King (fu Bob Kennedy ad autorizzare l’intercettazione delle telefonate del leader nero). E così era stato prima, quando, raccomandato dal padre – convinto sostenitore, come il fratello John, della crociata anticomunista del senatore Joe McCarthty – Bob aveva lavorato come molto zelante investigatore del famigerato Senate Permanent Subcommittee on Investigation.

 

Dunque: come è accaduto che proprio quest’uomo triste e pieno di rancore diventasse un tanto radioso e duraturo simbolo di speranza? Per quale strano sortilegio della Storia, l’America, ritagliato il suo corpo in tante piccole stelline, resta ancor oggi, grazie a lui, “innamorata della notte”? Neppure la forza trasfigurante della morte riesce, in effetti, a spiegare appieno il fenomeno. E certo non lo spiegano – o non lo spiegano in modo razionale – neppure gli eventi incalzanti e tragici, davvero esaltanti e luminosi, che, nel 1968, marcarono gli ultimi mesi della sua vita incastonandosi per sempre nel mito. I fatti ci dicono che Robert Kennedy – che pure contro la guerra in Vietnam già aveva, nell’ultimo anno, pronunciato significative parole – entrò nella contesa tardi, solo dopo che la candidatura pacifista di Eugene McCarthy (che, per questo non ha mai cessato di considerarlo un “opportunista”), aveva rivelato al mondo la vulnerabilità di Lyndon Johnson. E nessuno può dire quel che sarebbe successo se la sua corsa non fosse stata interrotta da tre pallottole nelle cucine dell’hotel Ambassador di Los Angeles, la sera del 6 giugno. Quel giorno Bob aveva vinto le primarie della California dando alla sua corsa una spinta importante, ma tutt’altro che decisiva (il suo margine di vantaggio su McCarthy, 46 a 41, era molto sottile ed assai improbabile continuava ad essere una sua vittoria, nella Convention di Chicago, contro Huber Humphrey, sostenuto dagli apparati di partito).

 

Di certo c’è però il fatto (perché, a suo modo, anche questo è un fatto) che nell’immaginario collettivo questo è rimasto di Bob Kennedy. Non il fanatico maccartista degli anni ’50, né l’Attorney General che dava la caccia a Fidel Castro. E neppure l’opportunista che, prima di lanciarsi nell’ultima battaglia aveva, con studiata prudenza, succhiato le ruote del movimento pacifista. Ma l’uomo che, nel giorno della morte di Martin Luther King, era andato a parlare ai negri del ghetto. L’uomo che aveva portato la sua solidarietà ai braccianti ispani guidati da Cesar Chavez. Il paladino dei poveri e dei giusti. L’uomo della pace e della giustizia sociale. L’eroe di un’America che, fondata nel nome della libertà da proprietari di schiavi, cerca da sempre le ragioni per considerarsi buona, per salvare il mondo oltre il proprio passato e, probabilmente, oltre il proprio futuro. Non è questo, infondo, che si vede vivere oggi nella campagna di Barak Obama?

 

 

 

 

 

 

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