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7.000.000 volte “no”

Qualcuno lo ha chiamato “plebiscito”. Altri lo hanno definito un “referendum”. Altri ancora hanno optato per il termine “consulta popolare” o, con sardonici accenti, dal lato del governo, “consulta interna all’opposizione”. E non pochi (governo escluso) hanno finito per usare, alternandoli senza distinzione alcuna, tutti e tre i termini.

Ma certo è che – al di là d’ogni semantica sfumatura, dell’assenza d’ogni ufficialità e dell’ovvia inadeguatezza delle garanzie e dei controlli – questo è di fatto stato quel che il Venezuela ha vissuto domenica scorsa: un massiccio, inequivocabile momento di disobbedienza civile, un gesto di pacifica ribellione contro un governo che si definisce “rivoluzionario”, ma che da tempo non è che la dolosa appendice – sempre più protervamente impegnata a preservare se stessa – d’una catastrofe economica, politica, sociale ed etica.

Più esattamente (e andando alla sostanza): domenica scorsa più di 7 milioni di venezuelani hanno deciso – rispondendo ad una iniziativa della Mesa de la unidad democratica (Mud), la fragile coalizione dei partiti d’opposizione – di dire “no”, attraverso il voto, a un governo di minoranza che, per sopravvivere, proprio il diritto di voto ha di fatto deciso di abolire.

Sette milioni e passa di voti sono tanti in Venezuela. Sono, più o meno – nonostante il fatto che il numero dei seggi fossero meno d’un terzo di quelli d’allora, nonostante l’organizzazione improvvisata e nonostante le minacce ed i ricatti d’un governo che aveva vietato ogni forma di copertura mediatica del processo – gli stessi voti che Nicolás Maduro, l’erede del “comandante eterno” Hugo Chávez, prese quando, nell’aprile del 2013, vinse di misura le elezioni presidenziali.

Sono più del doppio dei voti con i quali, nel 1999, Hugo Chávez vinse il plebiscito che apriva la strada ad una nuova Assemblea Costituente, quella che infine redasse l’attuale Costituzione. Quella stessa Costituzione, la “più bella del mondo”, che il medesimo Chávez avrebbe poi stuprato in ogni sua parte, e la stessa che oggi Maduro vuole fraudolentemente abolire.

Sono tanti e, di certo, sono abbastanza – al di là d’ogni obiezione sulla legalità o sulla affidabilità dei risultati – per mettere ulteriormente a nudo l’arbitrarietà volgare e truffaldina del nuovo processo costituzionale innescato due mesi fa da Nicolás Maduro. Il prossimo 30 di luglio i venezuelani dovrebbero infatti, salvo improbabili ripensamenti del governo, andare alle urne per eleggere una nuova Asamblea nacional constituyente. E lo faranno (se lo faranno), attraverso un sistema elettorale che – più simile, in realtà, ad una burla che ad una frode – previamente garantisce la vittoria delle forze governative.

In sostanza: sfidando le minacce delle squadre paramilitari filogovernative (poi solo in piccola parte concretizzatesi, ma comunque capaci di provocare almeno un morto), domenica scorsa oltre sette milioni di venezuelani hanno detto “no” alla dittatura. E questo “no” è oggi di fronte al mondo, a dispetto di tutti gli anatemi e di tutte le affettate ironie dei boiardi di regime.

“Ieri, i dirigenti dell’opposizione hanno deciso quali fossero i risultati – ha detto Jorge Rodríguez, il numero tre del Gotha chavista – scrivendoli sul tovagliolino di carta d’un bar”. E subito dopo s’è affannato a divulgare video che non mostravano alcunché, ma che erano, a suo dire, la “prova” che un tizio aveva votato 17 volte (per avere un’idea di quella che secondo me è l’affidabilità delle “prove” fornite dal Rodríguez, vedi questo mio precedente post).

Al di là di numeri, di tovagliolini, di bar e di video, tutti hanno comunque visto. Domenica scorsa – vedi a tal proposito questo articolo di Aporrea, una delle poche pubblicazioni chaviste che abbia mantenuto, a mio parere, una qualche autonomia dal governo – la gente ha risposto in massa all’appello dell’opposizione.

E lo ha fatto anche in quelle parti del paese – a Caracas soprattutto – che erano fino a qualche anno fa considerati veri e propri bastioni del chavismo. Più ancora, lo ha fatto oscurando il “voto simulato” non a caso contemporaneamente convocato, in vista del 30 di luglio, dal Consejo nacional electoral. Con molta discrezione, domenica sera, la presidente del Cne, Tibisay Lucena, ha dichiarato che la partecipazione a questo “simulacro” è stata “massiccia”.

Ma ha accuratamente evitato di fornire alcun dato in proposito. Anche i ciechi, ormai, possono vederlo. Dovessero i venezuelani andare alle urne in un processo elettorale appena regolare, il governo non avrebbe scampo. E proprio per questo è ricorso alla frode di una nuova Costituente, grottescamente concepita a misura della sua preservazione. Così come, prima dell’imbroglio di questa Costituente, aveva, con trucchi da baraccone, impedito la realizzazione di quel “referendum revocatorio” che, espressamente previsto dalla Costituzione, avrebbe con sentito ai venezuelani di mandare a casa Nicolás Maduro.

Il vero problema o, se si preferisce, la vera tragedia del Venezuela è tutta qui: per mantenere se stesso nel potere, il regime chavista ha bisogno di negare il diritto di voto. Più ancora: ha bisogno dei poteri assoluti che la Costituente fraudolentemente eletta gli garantirebbe. Poteri assoluti – i poteri assoluti d’una sempre più ristretta minoranza – che sono anche, ben oltre i cento e passa morti degli ultimi tre mesi, la via più diretta verso una soluzione violenta della crisi. Come andrà a finire è impossibile dire. Ma tutto sembra indicare che andrà a finire malissimo.

 

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