Milei presidente: “la libertad retrocede, carajo!”

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“I’m very proud of you”, sono molto orgoglioso di te. Con queste parole, sobriamente vergate sulle pagine di Truth Social – la rete da lui creata per l’esclusiva diffusione del suo pensiero – Donald J. Trump ha salutato, domenica notte, il trionfo di Javier Gerardo Milei nella contesa presidenziale argentina. Ed assai probabile è che quest’ultimo abbia, non solo apprezzato, ma accolto con genuina, umana commozione il molto paterno tono di queste parole d’incoraggiamento. Un po’ perché proprio questo – “el Trump de las Pampas” – è notoriamente, tra i suoi molti pseudonimi, il più comunemente speso dai media d’ogni colore. E ancor più per un aspetto della sua personale storia che, come vogliono le regole dei più triviali tra i talk-show televisivi – quelli, per l’appunto, che dell’ascesa di Milei sono stati, insieme a Tik-Tok, il brodo di coltura – il “Trump de las Pampas” ha regolarmente dato in pasto in pasto, negli ultimi tre anni, ai suoi affamati televedenti.

Nulla, in questo suo costante offrirsi senza veli nel florilegio d’insulti e sceneggiate che hanno caratterizzato le sue performance televisive, Javier Gerardo Milei ha risparmiato di se medesimo. Dalla sua passione per il sesso tantrico, basato sulla ricerca dell’orgasmo senza eiaculazione (“me llaman la vaca mala”, mi chiamano la vacca cattiva, ama ripetere con ammiccante riferimento alla difficoltà di “mungerlo”), alla sua venerazione per Conan, il mastino inglese che, defunto tempo fa (ma regolarmente contattato via sedute spiritiche) è stato da lui fatto clonare in quattro copie (Murray, Milton, Robert e Lucas, dai nomi e cognomi di alcuni dei più celebrati e da lui venerati economisti liberisti), tutto è regolarmente e reiteratamente entrato, per entusiasta volontà del protagonista, nel tritacarne delle tv-trash. Tutto. E, nel tutto, uno specifico risvolto delle sue intimità familiari – e qui veniamo al dunque – ha in questi anni fatto la proverbiale parte del leone: un’adolescenza marcata a fuoco (“nulla può, da allora, farmi paura”) da un difficile e spesso violento rapporto con i genitori. Col padre in particolare.  “Io mi considero un orfano”, ha detto e ripetuto Javier in questo suo incondizionato concedersi ad una platea avida consumatrice di queste pubbliche, spettacolari confessioni. Il tutto con un turbamento che, per quanto ostentato, ingeneroso sarebbe chiamare insincero.

Più che possibile è dunque che, in questo momento di personale e politica gloria, Javier Gerardo Milei, ormai 53enne e pronto ad indossare la banda presidenziale democraticamente conquistata al culmine d’una fulminante ascesa, abbia infine trovato nella rassicurante, virile dolcezza di quel “sono molto orgoglioso di te” – oltretutto profferita da un personaggio che sempre, nelle parole e nei fatti, lui ha considerato un esempio ed una guida – la tenerezza della paterna presenza che un destino cinico e baro sempre gli aveva negato.

“Make Argentina Great Again”

E qui è bene fermarsi, prima di cominciare a rotolare lungo i pendii di dilettantesche analisi psichiatriche, inevitabilmente condite dalle medesime banalità di cui i già menzionati talk show sono generosi distributori. Molto più utile è, invece, esaminare l’altrettanto paterna, ma molto più politicamente pregnante parte del messaggio col quale “papà Donald” ha due sere fa salutato la vittoria del suo figlioccio pampero. “You will turn your country around and truly Make Argentina Great Again”, tu farai svoltare il tuo paese e farai l’Argentina grande di nuovo. Il tutto con le maiuscole al posto giusto, al fine di ricreare la sigla – MAGA per l’appunto – che del trumpismo è in questi anni diventata la bandiera. Benvenuto figlio mio – e benvenuto da vincitore – in quella che sempre è stata la tua casa.

Quale casa? Quella abitata da una destra estrema e fondamentalmente antidemocratica storicamente alimentata – si voglia o meno chiamarla fascista – dal miraggio d’un mitico e “tradito” passato di gloria. Un passato da riconquistare, guidati da un grande leader, contro il contaminante, esiziale assalto di forze etnicamente, religiosamente ed ideologicamente impure. Forze del male di fronte alle quali non esistono che due alternative: distruggerle o esserne distrutti. Per Mussolini quel passato era una caricaturale riedizione della “romanità imperiale”, per Hitler una Germania ariana mai esistita, ma destinata per volere di Dio – Got mit uns – a dominare il mondo a dispetto delle umiliazioni d’una guerra perduta e delle sordide trame di ebrei, comunisti, liberali ed altre subumane creature. Per Donald Trump – il cui unidimensionale mondo, privo d’ogni storica profondità e d’ogni ideologia, con lui comincia e con lui finisce, quel passato altro ovviamente non è che lui, Donald Trump. Lui e la sua personalissima rivalsa a fronte d’una sconfitta elettorale subita a causa d’una frode indimostrabile perché mai esistita, ma comunque ormai divenuta parte della vittimistica narrazione e della nostalgica aggressività di un America bianca e cristiana in cerca di riscatto

L’Argentina come “grande potenza mondiale”

E Milei? In cosa consiste, per Javier Gerardo Milei, questo passato di gloria? Qual è lo storico abbaglio che, in un paese disperato, dilaniato da un’inflazione prossima al 150 per cento, da una povertà pari ormai a quasi la metà della popolazione e da un decennio di decrescita, ha sospinto la sua inattesa, fulminea e vincente corsa verso la Casa Rosada? La risposta è racchiusa in tre semplici parole: “grande potenza mondiale”. Questo infatti – una grande potenza mondiale – è stata in passato, per Milei, l’Argentina. E questo tornerà ad essere sotto la sua guida. Per il neopresidente questa è la storia: c’era una volta un’Argentina che era “il più ricco e poderoso paese del mondo”. E c’è oggi un paese che in quel mondo s’è infine smarrito, perché soffocato da un satanico mostro chiamato Stato. Era un paese felice l’Argentina. Felice perché libero. E libero perché libera – libera perché privata – era la sua economia. Ed è a questo antico e perduto Eden, a questa universale e svanita grandezza che Milei vuole, con profetici e biblici accenti, ricondurre il paese.

“Non sono venuto a pascolare agnelli, sono venuto a svegliare leoni”

Accenti in effetti molto letteralmente biblici, visto che, a dispetto della sua strenua fede cattolica – strenua al punto da dettare la linea al suo connazionale papa Bergoglio, da lui ripetutamente definito “una rappresentazione del Maligno” per via delle sue “idee comuniste” – tra i suoi più influenti assessori Milei vanta anche un rabbino che lo aiuta a meglio cogliere, nel Vecchio Testamento ed in altri sacri testi le pagine più affini (biblicamente affini, per l’appunto) alla sua battaglia per il ritorno dell’Argentina alla terra promessa della “grande potenza” che (non) fu. “Io non sono venuto a pascolare agnelli, sono venuto a svegliare leoni”, questa è la frase – attribuita a Moisheh Ben Maimon, filosofo ebreo sefardita del 13esimo secolo – che, da leone, Javier Milei più ama ripetere. Ed è direttamente dal Libro dei Maccabei che vengono le “forze del cielo” che, tanto spesso da lui citate, hanno finito per diventare il nome dell’organizzane che raccoglie i più giovani e ortodossi dei suoi seguaci. “Il trionfo in guerra non dipende dalla quantità di soldati – recita il sacro testo – ma dalle forze che vengono dal cielo”. Proprio così infatti, “le forze del cielo”, si chiama oggi l’organizzazione giovanile del suo partito, La Libertad Avanza (LLA). Quella che Milei, motosega alla mano, ha in questi due anni proposto all’Argentina, non è, in fondo, che questo: una molto sguaiata riedizione in chiave messianico-religiosa delle teorie della cosiddetta scuola austriaca che, in auge ai tempi di Ronald Reagan e Margareth Thatcher, hanno in realtà più di recente perduto, un po’ ovunque – e per molto concrete ragioni – gran parte del loro iper-capitalistico fulgore.

Quanto queste teorie siano, allo stato delle cose, ancora attuali e quanto, al contrario, siano state, soprattutto negli ultimi anni, screditate dalla Storia, è ovviamente materia d’un dibattito che, ancora aperto, tale resterà negli anni a venire. Ma, al di là delle opinioni sul pensiero di Friedrich Hayek, Milton Friedman, Ludwig Von Mises o Murray Newton Rothbard (quest’ultimo l’originale e super reazionario “anarco-capitalista” al quale più direttamente si ispira Milei), una cosa è assolutamente certa. Messa da parte ogni mitologia ed ogni fede religiosa, non v’è traccia, nella Storia, della “Argentina grande potenza mondiale” che Milei vuole messianicamente ricostruire. Quello che si incontra è, invece, un paese agro esportatore che fu certamente molto ricco – il prodotto interno lordo dell’Argentina era in effetti, agli inizi del XX secolo, pari o superiore a quello di Germania e Francia – ma non propriamente “potente”, considerata, per l’appunto, la sua totale dipendenza, perdipiù limitata ad un molto ristretto numero di prodotti agricoli, dai mercati esterni. E tutti i dati rivelano come la decadenza di questo ricco ma fragile paese sia in realtà cominciata poco meno d’un secolo fa, quando a fronte della Grande Depressione degli anni ’30, l’Argentina mancò l’appuntamento con il proprio rinnovamento e con la creazione, a fronte di ragioni scambio radicalmente cambiate, d’una adeguata struttura industriale. Non per colpa della presenza dello Stato – il mostro che San Giorgio Milei si propone di trafiggere con la sua libertaria lancia – ma per l’esatto contrario. Ovvero: per l’assenza, o l’inadeguatezza, di pubbliche istituzioni e forze politiche capaci di guidare, in un paese marcato da grandi diseguaglianze e dominato da una oligarchia agraria avida ed arretrata, il necessario processo di rinnovamento. Lì è di fatto cominciato il ciclo tragico delle crisi argentine, di cui oggi si vive l’ultimo atto.

Argentina, il paese del “mai esistito”

In un recente articolo pubblicato da El País di Madrid, lo scrittore Martín Caparrós ha sottolineato, giusto commentando le bibliche ambizioni di Javier Milei, come il “mai esistito” sia in realtà, nel perenne riprodursi d’un auto-mitologica esaltazione, sempre stato una costante dell’identità della Nazione. A cominciare dal suo nome, derivato da un bene, l’argento per l’appunto, che, a dispetto delle illusioni dei primi conquistadores, mai è stato trovato, perché mai è esistito, a quelle latitudini. O che, in quelle latitudini, non è storicamente stato che un passeggero riflesso, visto che, a partire dal XVII secolo, proprio dal Rio de la Plata passavano, diretti verso la Spagna, i carichi d’argento estratti, o più propriamente saccheggiati dalla corona di Spagna in quel di Potosí, nell’attuale Bolivia.

In Argentina non è mai esistito l’argento, non è mai esistita alcuna “grande potenza mondiale” e, ovviamente, non è mai esistito lo Stato che questa potenza ha satanicamente distrutto. La storia che, non solo Milei, ma l’intera destra argentina (la peronista esclusa, ovviamente) ama raccontare è notoriamente quella che, in un isterico ritornello, individua nell’avvento del peronismo il punto nel quale – per parafrasare la celebre frase con cui Mario Vargas Llosa aprì, riferito al Perù, il suo splendido “Conversación en la catedral” – “se había jodido Argentina”, s’era fottuta l’Argentina. In questa specifica e molto diffusa cosmogonia nazional-reazionaria, è il peronismo il mostro, il grande peccato.

Ma – per quanto mostruosa si sia in effetti rivelata la magmatica, appiccicosa e per molti aspetti morbosa realtà del peronismo – è di qualcosa che mai è esistito che ancora una volta si parla. Quello che i fatti raccontano è altra cosa. È il tentativo d’un movimento – quello, giust’appunto, guidato in forma autoritaria ed iper-carismatica da un militare di fede fascista, Juan Domingo Peròn – che, agli inizi degli anni ’50 acquistò in un paese illiberale ed ingiusto, dimensioni di massa mai prima conosciute in Argentina. E che – su basi, per l’appunto, corporativo-fasciste – ha in effetti provato, senza riuscirci, a creare, nel quadro d’una molto fragile politica di industrializzazione fondata sui concetti della “sostituzione di importazioni”, la struttura d’un “welfare state” nel tempo gradualmente trasformatosi in una gigantesca, camaleontica, corrotta ed onnivora macchina di potere. Un “tutto” – e conseguentemente anche un niente, visto che di questo tutto il peronismo è riuscito, ad ogni svolta, ad essere anche l’esatto contrario – nel quale l’Argentina ha perduto, non tanto la “libertà”, mai esistita, alla quale si appella Milei, quanto la possibilità d’una normale dialettica democratica.

Dalla padella del peronismo, alla brace dell’anti peronismo

La Storia – la Storia di quel che davvero è esistito ed esite in Argentina – proprio questo rivela. Come i punti più acuti di questa perenne, cronica crisi siano in realtà regolarmente coincisi con i tentativi di riaffermare, contro il “mostro” peronista, la libertà di cui sopra. Particolarmente quando di libertà economica si è trattato. È stato così durante l’ultima dittatura militare, grazie alla politica di privatizzazioni di José Alfredo Martinéz de Hoz. E poi con la “parità cambiaria” – di fatto una dollarizzazione dell’economia – architettata da quel Domingo Cavallo che, a conferma della fregoliana natura del movimento, lo statalismo peronista volle combattere, regnante Carlos Menem, da peronista. Sempre, ovviamente, nel nome di una libertà che, mai esistita, si è poi tragicamente e sistematicamente trasfigurata, nel confronto con la realtà, nell’esatto contrario del proprio miraggio. È accaduto nel 1955 quando quella che, dopo aver bombardato e massacrato il popolo nella Plaza de Mayo chiamò se stessa “Revolución Libertadora”, costrinse Perón ad un esilio non per caso consumato in Spagna, per 18 anni, all’ombra del franchismo. Il tutto col risultato di sostituire il governo in carica con una dittatura civico-militare molto più autoritaria e violenta perché priva dell’appoggio popolare che, pur nella sua “mostruosità”, il peronismo manteneva. Cosa questa che si è poi ripetuta, in ancor più cruenti termini, nel 1976, quando un altro ed ancor più violento golpe militare rovesciò, in una logica da “soluzione finale”, il peronismo tornato trionfalmente al potere tre anni prima, ma solo per divorare ferocemente se stesso e tutte le speranze di democrazia di cui, pur nelle sue strutturali ambiguità, era stato portatore.

I fatti sono noti. Il peronismo cominciò ad autodistruggersi – e a distruggere la ripristinata democrazia – il giorno stesso in cui Peròn tornò dall’esilio, quando, per dargli il benvenuto, le sue contrapposte fazioni, di destra e di sinistra, si fronteggiarono armate massacrandosi nei dintorni dell’aeroporto di Ezeiza. Ed a distruggere se stesso e la democrazia il peronismo ha continuato in un bagno di sangue nel quale è andato, per tre anni, recitando tutte le parti in copione. Tutte, naturalmente, tranne quella che i vertici militari e la Cia nel frattempo erano andate perfezionando – neppure tanto “dietro le quinte” – nell’ambito della Operazione Condor. Peronista era il governo. Peronista era la guerriglia dei Montoneros che gli esiti della rivoluzione misurava, in una logica militar-fascista, non dalla profondità dei cambiamenti apportati, ma dalla quantità di violenza che generava. E peronista era, infine, la famigerata “Triple A”, la Alianza Anticomunista Argentina i cui squadroni della morte, diretti da José López Rega – segretario personale di Juan Domingo Perón durante l’esilio in Spagna e poi ministro del Bienestar Social – eliminavano, omicidio dopo omicidio, tutto quel che aveva un sia pur vago odore “di sinistra”.

Ora, quarant’anni esatti dopo il faticoso ritorno della democrazia, è proprio la bandiera di questa falsa libertà che, in chiave biblicamente “anarco-capitalista”, torna sventolare nelle mani – anzi, nella mano visto che l’altra è occupata dalla motosega – del nuovo presidente democraticamente eletto. Javier Milei vuole molte cose. Vuole distruggere la “casta” che ha fin qui condotto “alla decadenza” quella che mai fu una “grande potenza mondiale”. Vuole che l’Argentina torni ad essere la “grande potenza mondiale” che non è mai stata. E lo vuole invocando una misura – la dollarizzazione dell’economia – che priverebbe l’Argentina di quella sovranità monetaria che, non solo delle “grandi potenze”, ma di qualunque nazione indipendente è, da sempre, un’indispensabile, basica condizione d’autonomia.

Molte cose nega Milei. Anche se stesso…

Molte cose vuole e ancor più cose nega Javier Gerardo Milei. Nega la realtà del cambiamento climatico. Nega i diritti civili – l’aborto, il matrimonio paritario, la parità salariale tra uomo e donna, il femminismo e quant’altro – conquistati negli ultimi anni. Nega che la salute sia un diritto garantito da pubbliche e gratuite strutture. Nega la necessità d’un sistema di educazione pubblica. Durante la pandemia ha, con i consueti esagitati toni, negato la necessità del lockdown – da lui considerata la più grave violazione dei diritti umani consumatasi in Argentina – e della campagna di vaccinazione. Ed oggi nega persino se stesso e la sua vocazione di distruttore della “casta”, come ci raccontano le alleanze da lui strette con la tradizionale e “super-castizzata” destra tradizionale nell’ultimo tratto della sua campagna elettorale. Il partito di Milei non ha, nel parlamento che una ristretta minoranza – 37 su 275 – di deputati. E molti sembrano convinti che, al di là dei biblici propositi di resurrezione dal profeta millantati, sarà infine proprio la casta di Mauricio Macri e di Juntos por el Cambio (JxC) a dettare la politica del nuovo governo.

Scorrendo, ad appena qualche giorno dalla chiusura dei seggi, la lista dei possibili ministri, c’è addirittura chi, considerando come in questa Argentina tutto sia possibile, ipotizza che il nuovo governo di Milei possa alla fine gattopardescamente fungere da veicolo d’una ennesima reincarnazione del peronismo. Tra i più sconcertanti risultati delle ultime presidenziali risalta, infatti, il mancato ritorno alla base – ovvero in direzione di Sergio Massa – dei voti del peronismo dissidente di Juan Schiaretti, il gran boss della città di Córdoba, dove Milei ha infine vinto con un debordante 75 per cento dei voti. Ed è un fatto che tra i possibili nomi dei prossimi ministri di Milei spuntano con insistenza quelli di non pochi peronisti delle più accese correnti contrapposte a quella – la “kirchnerista” – che ha dominato l’ultimo ventennio. “Casta casta, casta!” verrebbe da gridare, motosega alla mano, imitando il Milei che fu e, almeno a parole, ancora è.

Un’altra cosa nega infine – ed è qui che meglio si rivela la sua vera natura – Javier Gerardo Milei: l’esistenza della dittatura militare che, tra il ’76 e l’83, governò nel sangue l’Argentina. Per lui – e soprattutto per la sua vice-presidenta, Victoria Villaruel, che in questo campo detta la linea – non vi fu in Argentina nulla degno di questo nome. Non vi furono violazioni di diritti umani, ma soltanto “eccessi”, pochi e tutti consumati nell’ambito d’una “guerra civile” le cui vittime vanno celebrate, se proprio è necessario celebrarle, in termini assolutamente paritari. Quello che, nel nome della ricostruzione di un’Argentina mai esistita, Milei ed i mileisti vanno qui negando sono, semplicemente, le dolorose verità  su cui poggia il fragile equilibrio del “nunca más”, la base di quella che, con tutti i suoi limiti e tutti i suoi storici, strutturali intralci, da quarant’anni è la democrazia argentina.

Gli annali di norma fanno coincidere la nascita di questa democrazia con l’elezione di Raùl Alfonsín, nel dicembre del 1983. Oppure la fanno risalire al processo – quello del “nunca más”, per l’appunto – che, poco più d’un anno dopo, condannó i generali della Junta. Ma forse più giusto sarebbe spostarne ancor più in avanti la data. Ovvero: all’aprile del 1987 quando, durante la settimana santa, di fronte all’insurrezione armata dei “carapintadas” di Aldo Rico – golpista dalle dichiarate simpatie peroniste – i peronisti di Antonio Cafiero si unirono ai radicali in difesa di Alfonsín e del suo governo. Fu il 19 aprile di quell’anno, quando Alfonsín, insieme a Cafiero, si affacciò al gran balcone della Casa Rosada che davvero nacque la democrazia argentina: “Felices Pasquas – disse quel giorno il presidente – La casa està en orden y no hubo derrame de sangre en Argentina…”.

È ancora in ordine, la casa della democrazia?

È ancora in ordine, la casa della democrazia, ora che Milei ha vinto le elezioni? Una prima risposta è arrivata quando, poche ore dopo l’annuncio del risultato delle presidenziali, un ex militare – subito applaudito da Victoria Villaruel – ha esaltato ammiccando, sui social, le virtù della Ford Falcòn (l’auto comunemente usata dagli sgherri della Junta Militar) nel cui bagagliaio, ha scritto, “entravano, anche se un po’ sacrificate, ben sette persone”. Sette delle migliaia di persone che vennero arrestate, torturate, caricate sugli arei dei “voli della morte” e fatte scomparire nelle acque limacciose del Rio de la Plata…

Se quello che Milei e la LLA stanno portando in Argentina è davvero la “Libertad” – la stessa alla quale Milei sempre inneggia con tanto di “carajo!” – si tratta a tutti gli effetti di una libertà che arretra. E che arretra al punto da assomigliare terribilmente al più tenebroso passato che ritorna. Non sono necessarie narici particolarmente sensibili per percepirne, già ora, l’inconfondibile, mortifero tanfo.

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