Milei, 100 giorni istericamente vissuti

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Che cosa ha fatto Javier Gerardo Milei, primo presidente “anarco-capitalista” della molto travagliata storia argentina, nei suoi primi 100 giorni di governo?  La risposta è tutto è nulla. Tutto perché questo – tutto ed anche qualcosa di più – era quel che contenevano le sue prime due monumentalmente ambiziose iniziative legislative, il DNU, o Decreto de Necessitad y Urgencia e la cosiddetta legge omnibus, E niente perché queste onnicomprensive e totalizzanti, nonché, ovviamente messianicamente epocali iniziative, ancora si trovano (e non pochi sembrano convinti sia destinata a restare a lungo) nel limbo di un molto contrastato rapporto con il Parlamento. Di certo questi primi tre mesi e passa ci hanno offerto – o meglio, riproposto senza apprezzabili variazioni – una sola certezza. Dietro l’iconica, isterica riproposizione dello slogan “viva libertad, carajo”, si nasconde – o meglio, inequivocabilmente si rivela – la più sgangherata riproposizione, con tonalità mistico-libertarie, del più classico e sgangherato caudillismo latino-americano. Con quali finali effetti sulla fragile democrazia argentina è ancora tutto da vedere.

Clicca qui per leggere quel che scrive il proposito, sul New York Times, lo storico Uki Goñi.


Tutto da leggere anche questo articolo pubblicato dalla rivista Anfibia, la cui redazione è giorni fa andata completamente distrutta in un incendio. Ai suoi giornalisti tutta la solidarietà di 2Americhe.


Ed ecco come, nel suo numero di marzo, Critica Marxista Massimo Cavallini analizza, da un punto di vista storico-politico, il fenomeno Milei.


Chi è Javier Gerardo Milei, nuovo presidente della Repubblica Argentina? Rispondere a questa domanda è estremamente facile e, al tempo stesso, estremamente difficile. Estremamente facile perché Javier Milei è, notoriamente, un classico prodotto della più esibizionistica e scollacciata – “sgarbiana” potremmo definirla per italianizzare il concetto – cultura dei talk-show e reality-show televisivi, quella che, in un lascivo ed illusorio effetto “buco della serratura”, ai suoi protagonisti impone un’incondizionata, totale e compiaciuta rivelazione di sé stessi. Ed è, insieme, estremamente difficile perché difficile – difficile e per molti aspetti doloroso – è capire non solo le più immediate ragioni della rapida ed irresistibile ascesa di questo fino a ieri folclorico “showman” ai vertici d’uno dei più grandi paesi delle due Americhe, ma anche le radici storico-politiche del “fenomeno Milei”, il suo senso ultimo, oggi e in prospettiva, tanto in Argentina quanto in un mondo dove sempre più palese va facendosi la crisi della democrazia rappresentativa,

Milei in un momento di calma

Javier Gerardo Milei – il Javier Gerardo Milei “facile da raccontare” perché lui stesso s’è raccontato e riraccontato in tv o su Tik Tok – è per tutti “l’uomo della motosega”, il furente e scapigliato castigamatti della diabolica “casta” economico-politico-culturale sulla quale, in molto nebulosi ma implacabili termini, ricadono tutte le responsabilità dei moltissimi mali che affliggono l’Argentina. Di questo Milei nulla c’è da scoprire, perché – nel suo costante offrirsi senza veli, tra insulti e sceneggiate, talk-show dopo talk-show – nulla Milei ci ha risparmiato di sé e della sua vita. Dalla sua passione per il sesso tantrico, basato sulla ricerca dell’orgasmo senza eiaculazione (“me llaman la vaca mala”, mi chiamano la vacca cattiva, è andato in questi anni ripetendo dal piccolo schermo con ammiccante riferimento alla difficoltà di “mungerlo”), alla sua venerazione per Conan, il mastino inglese che – defunto tempo fa, ma dal vecchio padrone ancor oggi regolarmente contattato via sedute spiritiche – è stato poi clonato in quattro altrettanto venerate copie (Murray, Milton, Robert e Lucas, dai nomi e cognomi di alcuni dei più celebrati e da lui deificati economisti liberisti), tutto è regolarmente e reiteratamente entrato, per entusiasta volontà del protagonista, nel tritacarne della trash-tv. Tutto, compresi i più intimi risvolti di un’adolescenza a suo dire marcata a fuoco da un difficile e spesso violento rapporto con i genitori. Col padre in particolare. “Io mi considero un orfano”, ha detto e ripetuto Javier in questo suo omnicomprensivo concedersi ad una platea avida consumatrice di queste pubbliche e spettacolari confessioni, lasciando tra le righe intendere (“da allora nulla mi fa paura”) come proprio nelle violenze subite in famiglia vada ricercata l’origine della motosega. O, se si preferisce, dei suoi fumettistici “super-poteri”, della sua indomabile forza di giustiziere.

E se questa è la conosciutissima (perché raccontatissima) storia erotico-personal-familiare del Milei uomo, del tutto chiare – certo stravaganti, ma nella loro stravaganza chiarissime – sono anche le idee che hanno fin qui mosso e, si presume, continueranno in futuro a muovere gli ingranaggi della sua spietata motosega. Quali sono queste idee? Per coglierle nella loro essenza, assai utile è seguire il filo del discorso – un vero e proprio sermone – che, lo scorso 18 gennaio, il presidente argentino, da appena qualche giorno preso possesso della Casa Rosada, ha pronunciato di fronte al Foro Economico di Davos, riconosciuto tempio del capitalismo globalista ed annuale luogo d’incontro di capi di Stato, grandi imprenditori ed economisti di grido impegnati a discutere i destini del pianeta.

Non ha, come si dice, menato il can per l’aia il presidente argentino. Né ha, in alcun modo, peccato di timidezza o, ancor meno, di modestia, di fronte a tanto consesso. E al dunque, un sacro dunque, è venuto fin dalle sue primissime parole, in tutto degne, per la loro profetica forza, d’un biblico Messia – il “Bar Enash”, il Figlio dell’Uomo preconizzato nel Libro di Daniele 7:13 e più volte in prima persona riproposto dallo stesso Gesù di Nazareth, detto il Cristo, nei quattro Vangeli – disceso in Terra per annunciare la prossima Apocalisse e l’avvento del Regno dei Cieli. “Oggi sono venuto qui – ha esordito Milei con ieratici accenti – per dirvi che l’Occidente è in pericolo. Ed è in pericolo perché quanti dovrebbero difenderne i valori (una gran parte dei presenti in sala n.d.r.) sono stati cooptati da una visione del mondo che, inesorabilmente, conduce al socialismo e, conseguentemente, alla povertà…”. Questa visione del mondo – ha quindi proseguito Milei – si chiama “collettivismo”. Ed è proprio per meglio illustrare la demoniaca natura di questa concezione del mondo – nonché per indicare al popolo di Davos la via della salvezza – che il neo-presidente argentino è puntualmente e senza apprezzabili variazioni tornato a raccontare, come già aveva fatto innumerevoli volte in vari talk show e in centinaia di comizi, la storia, o meglio, la leggenda, d’una Argentina che seguendo la via maestra del liberismo economico fu a suo tempo “la prima potenza del mondo” e il “faro dell’Occidente”. Tale restando fino a poco più di cento anni fa, quando, ascoltata la voce del demonio e mangiata la mela del collettivismo, ha condannato se stessa ad una “decadenza” che si è fino ad oggi prolungata, aggravandosi fino alla catastrofe, di marca “kirchnerista”, degli ultimi venti anni.

Così Milei s’è presentato di fronte alla platea di Davos: con una messianica ouverture che il giorno dopo, con ovvii intenti satirici, qualcuno ha molto opportunamente paragonato a quel che si legge in Matteo 24:30: “…e allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo e si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e tutti vedranno il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria…”. 

Al di là delle nubi e della “potenza e gloria” – la stessa dei suoi comizi e delle sue apparizioni televisive – con cui Milei ha esordito a gennaio tra le nevi di Davos (peraltro accolto non da grida di giubilo, ma dai molto formalmente tiepidi applausi dei non troppo numerosi astanti) inevitabile è chiedersi: ha un senso, 35 anni dopo la caduta del muro di Berlino, presentarsi di fronte ai sacerdoti di Davos – il “riconosciuto tempio del capitalismo globalista” di cui sopra e, per molti versi, la pratica rappresentazione di quella che a suo tempo, svanita la Unione Sovietica, venne molto prematuramente chiamata la “Fine della Storia” – annunciando un’imminente (ed evitabile solo attraverso un incondizionato ritorno alla fede del libero mercato) apocalisse socialista? E, soprattutto: ha un senso la ricostruzione della Storia Patria che il presidente Argentino ha, in questo quadro, riproposto ai potenti della Terra come metafora dei destini del mondo? Assolutamente no, ovviamente, se ci riferisce a quei famosi “fatti provati” che d’ogni ricostruzione storica che si rispetti sono l’indispensabile base. Assolutamente sì, invece, se il problema è quello di inquadrare in termini storico-politici il fenomeno Milei.

Come sempre quando sulle scene appare un leader di estrema destra, una parte degli analisti politici legittimamente si chiede quanto corretto sia usare, nei suoi confronti, il termine “fascista”, etichetta che peraltro, nel caso specifico, Milei sempre ha respinto con sdegno, sventolando la bandiera d’un liberalismo radicale che in quanto tale è, a suo dire, intrinsecamente incompatibile con lo statalismo fascista. Un fatto è comunque – al di là d’ogni etichetta – assolutamente certo: con il fascismo, con tutti i fascismi, Javier Gerardo Milei comparte un essenziale connotato: il miraggio d’un mitico e “tradito” passato di gloria. Un passato da riconquistare, guidati da un grande leader, contro il contaminante, esiziale assalto di forze etnicamente, religiosamente ed ideologicamente impure. Forze del male di fronte alle quali non esistono che due alternative: distruggerle o esserne distrutti. Per Mussolini quel passato era una caricaturale riedizione della “romanità imperiale”, per Hitler una Germania ariana mai esistita, ma destinata per volere di Dio – Gott mit uns – a dominare il mondo a dispetto delle umiliazioni d’una guerra perduta e delle sordide trame di ebrei, comunisti, liberali ed altre subumane creature.

E per Milei? In cosa consiste, per Javier Gerardo Milei, questo passato di gloria? La risposta – come indicato anche nel discorso di Davos – è racchiusa in tre semplici parole: “grande potenza mondiale”. Questo infatti – una grande potenza mondiale, anzi, “la più grande potenza mondiale” – è stata in passato, per Milei, l’Argentina. E la più grande potenza mondiale tornerà ad essere sotto la sua guida. Proprio con questo slogan del resto – “Make Argentina Great Again”, ovvia rielaborazione del trumpiano “Make America Great Again” – il più eminente ed ingombrante tra i messianici leader in odore di fascismo che oggi popolano il pianeta (Donald Trump, per l’appunto, ex e forse prossimo presidente degli Stati Uniti d’America) ha salutato, lo scorso dicembre, la vittoria elettorale di Milei.

Per il neopresidente argentino, questa è la storia: c’era una volta un’Argentina che era “il più ricco e poderoso paese del mondo”. E c’è oggi un paese che in quel mondo s’è infine smarrito, perché soffocato dall’ingordigia d’un mostro chiamato Stato. Era un paese felice l’Argentina. Felice perché libero. E libero perché libera – libera perché privata – era la sua economia. Ed è a questo antico e perduto Eden, a questa universale e svanita grandezza che Milei vuole, con profetici e biblici accenti, ricondurre il paese.

Accenti in effetti molto letteralmente biblici, visto che, a dispetto della sua strenua fede cattolica – strenua al punto da non esitare a dettare, in materia di fede, la linea al suo connazionale papa Bergoglio, da lui ripetutamente definito “una rappresentazione del Maligno” per via delle sue “idee comuniste” – tra i suoi più influenti assessori Milei vanta anche un rabbino che lo aiuta a meglio cogliere, nel Vecchio Testamento ed in altri sacri testi, le pagine più affini (biblicamente affini) alla sua battaglia per il ritorno dell’Argentina alla terra promessa della “grande potenza” che (non) fu. “Io non sono venuto a pascolare agnelli, sono venuto a svegliare leoni”, questa è la frase, attribuita a Moisheh Ben Maimon, filosofo ebreo sefardita del 13esimo secolo, che Javier Milei – il leone Milei, perché proprio così, come un indomito leone dalla folta criniera il presidente argentino ama rappresentare se stesso – più spesso cita nei suoi discorsi. E direttamente dal Libro dei Maccabei vengono anche le “forze del cielo” che, da lui ad ogni mentre invocate, hanno finito per diventare il nome dell’organizzane che raccoglie i più giovani e ortodossi dei suoi seguaci. “Il trionfo in guerra non dipende dalla quantità di soldati – recita il sacro testo – ma dalle forze che vengono dal cielo”.

Dove si trova, in quale punto della Storia Patria va esattamente individuato, per Javier Milei, il Paradiso terrestre che l’Argentina ha perduto? E dov’è la Terra Promessa alla quale ritornare, sotto la sua illuminata guida, sospinti dai venti impetuosi della vera fede, quella del più incontaminato liberismo economico e della mistica, purissima riproposizione delle più estreme teorie neoliberali che, originalmente elaborate dalla “scuola austriaca” (Carl Menger, Ludwig von Mises, Friedrich Hayek) sono poi state riprese – sia pur con significative differenze – dalla scuola di Chicago (Milton Friedman, George Stigler, Gary Becker)?

Per Milei l’Argentina è, come il Buon Selvaggio di Jean Jaques Rousseau, nata libera. Libera ma, proprio perché selvaggia – anzi “barbara”, come ama definirla – ancora incapace di cogliere appieno i frutti economici della propria innata libertà. Lo storico evento che, secondo il Milei-pensiero, ha infine dischiuso, anzi, spalancato di fronte a quell’Argentina “barbara” le porte della civiltà e dell’abbondanza liberista, è stata la vergatura della Costituzione del 1853 – la prima e, seppur emendata in parti essenziali nel 1860, 1898, 1949 e 1994, per molti aspetti anche l’ultima dell’Argentina – il cui riconosciuto autore intellettuale, Juan Bautista Alberdi, l’attuale presidente sembra considerare una profetica anticipazione di se stesso, il primo e più importante dei suoi precursori nella storia d’auge, caduta e redenzione che con lui, Javier Gerardo Milei, sta finalmente entrando nella sua fase “estrema”. Quella della finale vittoria e della definitiva estinzione dello Stato. Con la Costituzione del 1853, afferma Milei, si apre per l’Argentina una luminosa – tanto luminosa, per l’appunto da diventare “il faro dell’Occidente” – storia di libertà, progresso e ricchezza destinata a durare 50 anni.

Risalendo alla fonte autentica del dogma, ecco quanto lo stesso Javier Gerardo Milei ebbe a dire, quando ancora non era che un emergente e pittoresco deputato “libertario”, durante quello che lui stesso ed i suoi più ossequienti biografi amano considerare il più significativo dei suoi discorsi. Chiamiamolo, giusto per restare negli evangelici territori a lui tanto cari, il suo “discorso della montagna”. Correva l’anno 2022 ed il primo di ottobre, parlando di fronte a diverse migliaia di fedeli nella città di San Miguel di Tucumán, con alle spalle una enorme gigantografia raffigurante proprio Juan Bautista Alberdi, queste furono le sue parole: “Quando, essendo ancora un paese barbaro, l’Argentina abbracciò le idee di Alberdi (con, per l’appunto, l’entrata in vigore della Costituzione del ’53 n.d.r.), in 35 anni divenne la prima potenza del mondo. Ed è a partire dal 1916, quando abbiamo cominciato ad abbracciare dosi crescenti di collettivismo, che ci siamo convertiti in un paese decadente”

Ipse dixit. E va da sé che, se valutato con il metro della scienza storica, il racconto di Milei non supera, in nessuna delle sue parti, la prova del ridicolo. Perché ridicola è la sua pretesa di cassare come una sorta di barbara ed indistinta preistoria tutte le complesse vicende che tra l’inizio della lotta per l’Indipendenza, nel maggio del 1810, e la Costituzione del ’53, hanno visto il lungo e spesso sanguinoso confronto tra gli “Unitarios”, sostenitori di un molto accentrato potere in quel di Buenos Aires, ed i “Federales” che favorivano molto ampi margini di autonomia per le Province. Quella che Milei descrive come una sorta di divina illuminazione da Alberdi ispirata non fu, in realtà, che il punto d’arrivo d’un molto tormentato processo, sfociato nel cruento scontro tra Juan Manuel de Rosas e Justo José de Urquiza (entrambi, peraltro, provenienti dalle fila dei “Federales”) e sigillato dalla vittoria di Urquiza nella battaglia di Caseros. Fu nel molto precario periodo di stabilità politica che seguì questa battaglia che nacque la Costituzione (peraltro, solo sei anni più tardi, con il Patto di San José de Flores, accettata, con gli opportuni emendamenti, anche dagli “unitarios” di Buenos Aires). Né è possibile incontrare, nei 35 anni seguiti alla promulgazione di quella prima (e ultima) Carta Magna, alcunché che consenta di definire l’Argentina, non solo “la prima potenza del mondo”, ma anche soltanto – e soltanto da un punto di vista economico – una vera potenza.

Quella che esce dalle pagine dei libri di Storia è, al contrario, un’Argentina che fu certamente, nei suoi momenti di maggior auge agro-esportatrice, un paese molto ricco. Ricco, anzi, ricchissimo, in termini puramente statistici (o per capita) grazie alla sua ancor scarsa popolazione. Ricco e terribilmente diseguale, come testimoniato, giusto per dirne una, dai dati della leva militare che nel 1902 – ovvero nel momento di massimo splendore economico della “grande potenza” argentina – rivelano come ben il 40 per cento dei possibili coscritti delle province della cosiddetta “pampa humeda”, la ricchissima parte agricola e “ganadera” d’un paese che proprio dall’agricoltura e dagli allevamenti di bestiame ricavava quasi il 90 per cento dei suoi introiti, fosse risultato “non arruolabile” per malattie dovute alla denutrizione. Ricco della fragile ricchezza di tutti i paesi agro-esportatori, troppo dipendenti, specie da un punto di vista finanziario, da fattori esterni per poter essere “potenza”. Ricco d’una ricchezza ancora molto coloniale, come impietosamente rivelato dalla proprietà straniera, in molto larga prevalenza britannica, della quasi totalità delle infrastrutture – trasporti, comunicazione – che in quegli anni andavano freneticamente sviluppandosi. Ricco – volendo forzare ai fini d’una maggiore comprensione del fenomeno i paragoni storici – come ricca, anzi, ricchissima era stata, sul finire del secolo diciottesimo, prima della furente e “giacobina” insurrezione degli schiavi negri (l’80 per cento della sua popolazione), l’isola “zuccherriera” di Saint Domingue, perla dell’impero coloniale francese.

Basta, per cogliere appieno la strutturale debolezza dell’Argentina di quegli anni – una debolezza mai di fatto superata – riesumare le cronache di quella che, nel 1890, fu la prima delle periodiche crisi che, da allora e fino ai giorni nostri, hanno scosso la “prima potenza del mondo”. Gli elementi – gli elementi della decadenza, verrebbe da dire alla Milei – già ci sono tutti. Una crisi finanziaria esterna, quella del “quasi fallimento” della Baring Brothers, una superbanca londinese, la cui onda d’urto scosse l’intero pianeta con la conseguente caduta, sui mercati mondiali, dei prezzi della lana e del grano. Una situazione interna marcata da un forte indebitamento pubblico, da una economia molto rigidamente dipendente, da una cronica debolezza istituzionale e da una ricorrente instabilità politica. E questo con le conseguenze di sempre: recessione ed inflazione, nuovi debiti, svalutazione della moneta. Scrivere la storia dell’economia argentina e delle sue crisi, disse negli anni ’80 Raúl Prebish, celebre studioso del problema del sottosviluppo latinoamericano, è la cosa più facile del mondo: basta cambiare le date e lasciare intatto quel che rimane del testo.

Quanto a Juan Bautista Alberdi – che in effetti fu uno dei più importanti intellettuali della storia argentina – non risulta che Javier Milei abbia nei suoi confronti usato il medesimo trattamento riservato a Conan, il suo venerato mastino inglese defunto anni fa. Vale a dire: nulla indica che, previamente alla sua nomina a grande precursore della Argentina libertaria di cui Milei è il profeta, Alberdi sia stato dal neopresidente debitamente consultato via seduta spiritica. Il che evidentemente ci nega la possibilità di conoscere, per via diretta – o via medium – che cosa l’Alberdi davvero pensi del ruolo di pre-fondatore dell’anarco-capitalismo mileiano d’ufficio assegnatogli dal neo-presidente. Due cose sono tuttavia, alla luce della Storia (quella vera) assolutamente certe.

La prima: la Costituzione del 1853, da Alberdi ispirata, a tutti gli effetti rispondeva, in linea con i tempi, ad una molto moderata logica repubblicana, marcata da molto limitati margini di democrazia. Il presidente veniva, in quella originale versione, eletto – sul modello dei collegi elettorali degli Stati Uniti d’America – solo in modo indiretto dai delegati delle varie Province. Ed Il voto era rigorosamente riservato – seguendo regole localmente dettate – ai maschi bianchi e maggiorenni che possedessero, in termini di proprietà e di educazione, determinati e, spesso, molto privilegiati criteri di selezione. E comunque in nessuno dei suoi punti – se non in una molto generica e nient’affatto originale difesa della proprietà privata – può, quella Costituzione, esser considerata, foss’anche nella più ampia e generosa delle prospettive, un modello di libertari propositi.

La seconda: contrariamente alle anarco-capitaliste fobie anti-Stato che caratterizzano il pensiero di Javier Milei, proprio questo sempre era stato il dichiarato obiettivo di Juan Bautista Alberdi: rafforzare lo Stato, creare, all’interno d’un ben definito quadro legale, uguale per tutti, istituzioni forti capaci di condurre la Nazione – da lui mai considerata una super-potenza – fuori dalla semi-coloniale dipendenza e dalla strutturale instabilità che, marcata dal predominio d’una molto arretrata ed avida oligarchia agraria, ne caratterizzava l’economia e la politica. Alberdi voleva creare uno Stato, non distruggerlo. E lo stesso dicasi – con tutte le differenze del caso ed in un processo mai davvero conclusosi positivamente – di tutti i presidenti che, approvata la Costituzione, hanno guidato l’Argentina lungo il mezzo secolo che Milei descrive come una sorta di età dell’oro o, meglio, come un mitico regno di libertà, abbondanza. e progresso. Tutti, da Justo José de Urquiza, a Bartolomé Mitre, da Nicolás Avellaneda a Domingo Faustino Sarmiento, da Julio Argentino Roca (il “Conquistatore del Deserto” che sterminò gran parte delle popolazioni indigene della Patagonia e che Milei annovera tra i suoi più eminenti ispiratori) a Carlos Pellegrini.

Il che ci riconduce ad una ovvia verità non solo negata, ma capovolta dal Milei-pensiero: alle origini della decadenza argentina – o, meglio, del cronico sottosviluppo dal quale mai l’Argentina è riuscita a uscire – non v’è affatto la soffocante e “collettivista” presenza dello Stato, ma la sua assenza o, quantomeno, la sua incompletezza. Perché, come sottolineato, con diversi accenti, dai più qualificati studi in materia, proprio nella forza e nella qualità delle istituzioni, nella loro democratica inclusività, vanno – non solo in Argentina – ricercate le ragioni dello sviluppo e del sottosviluppo. [1]

Tornando tuttavia al discorso di San Miguel di Tucumán, una domanda – la più importante ai fini della comprensione del senso ultimo della mileiana visione della Storia argentina – assolutamente s’impone. Per quale ragione l’attuale presidente indica nel 1916 l’inizio della discesa agli inferi d’un paese che, in virtù dei libertari principi della Costituzione del 1853, viveva in uno stato di paradisiaca libertà ed in un’abbondanza senza pari sul pianeta Terra? Che cosa è accaduto in quell’anno fatale? Quale terribile evento ha sospinto l’Argentina, allora “prima potenza del mondo”, lungo i tenebrosi sentieri della “decadenza”? Semplice è la risposta. Alla fine del 1916 ha inizio in Argentina, a fronte dell’insorgere di forti movimenti di massa, il primo vero esperimento di governo democratico. O, se si preferisce, il primo tentativo di dare alla molto elitaria forma di governo repubblicano definita dalla Costituzione del 1853, una più ampia e partecipativa base popolare. Quattro anni prima, il Congresso aveva approvato la legge Sáez Peña, che finalmente sanciva il suffragio universale (relativamente universale, visto che per il voto alle donne l’Argentina avrebbe dovuto aspettare fino all’anno 1947, secondo dell’era peronista), nonché segreto ed obbligatorio. E la discesa dei ceti meno abbienti nell’arena politica aveva portato al trionfo elettorale della Unión Cívica Radical di Hipólito Yrigoyen, il cui programma elettorale prevedeva, oltre ad una modesta espansione “partecipativa” delle istituzioni repubblicane, anche la creazione di una minima struttura di welfare state: pensioni minime, educazione pubblica, sanità.

La Storia – quella che si basa sui summenzionati fatti accertati – ci racconta come questo esperimento sia passato, tra molte difficoltà, per tre presidenze: la prima di Yrigoyen, seguita da quella, già molto più conservatrice negli intenti, di Marcelo Torcuato de Alvear, e la seconda di Yrigoyen, interrotta infine da un colpo di stato che, diretto da José Félix Uriburu, un generale di dichiarate simpatie fasciste, il 6 settembre del 1930 aprì l’infausta stagione del diretto intervento delle Forze Armate nelle vicende politiche dell’Argentina, di fatto chiudendo un processo democratico che solo 53 anni dopo, con la caduta della Junta Militar, la vittoria di Raúl Alfonsín ed il processo del “Nunca Más” si sarebbe davvero riaperto.

Da quel 6 settembre del 1930, molte cose sono accadute. Dopo vari andirivieni, nel 1943, al termine di quella che, per molte e validissime ragioni, è passata agli annali come la “decada infame”, un altro golpe – ispirato anch’esso da un gruppo di ufficiali di dichiarate simpatie nazi-fasciste – avrebbe preso il potere. Ed uno di loro, Juan Domingo Perón, avrebbe assunto prima l’incarico di ministro del Lavoro e poi, nel 1945, con un altro golpe, quello di capo di Stato, dando il via a riforme che, modellate a immagine del corporativismo fascista, avrebbero non solo trasformato la struttura delle Stato, ma creato un onnivoro sistema di potere – e, insieme, un movimento di massa – che, trasformando la dialettica politico-sociale argentina  in un enigmatico “unicum”,  è stata al tempo stesso governo ed opposizione, rivoluzione e conservazione, corruzione e pulizia, destra e sinistra, tutto ed il contrario di tutto.

Nel 1955 un nuovo golpe  autodefinitosi “Revolución Libertadora”, lanciato con la dichiarata intenzione di “ripristinare la democrazia”, ma aperto dall’indiscriminato e sanguinoso bombardamento della folla riunita nella Plaza de Mayo, costrinse Perón ad un esilio non per caso da lui consumato, lungo 18 anni, come gradito ospite delle peggiori dittature latine: da Alfredo Stroessner in Paraguay, a Leonidas Trujillo nella Repubblica Domenicana ed a Marcos Pérez Jiménez in Venezuela, per finire poi in Spagna, alla corte di Francisco Franco. L’unico tangibile risultato di questa “cacciata del tiranno”, fu però la sostituzione del governo in carica con una dittatura civico-militare molto più autoritaria e violenta, perché priva dell’appoggio popolare che, pur nella sua “mostruosità”, il peronismo manteneva. Cosa questa che si è poi ripetuta, in ancor più cruenti termini, nel 1976, quando un altro ed ancor più violento golpe militare rovesciò, in una logica da “soluzione finale”, il peronismo tornato trionfalmente al potere tre anni prima, ma solo per divorare ferocemente se stesso e tutte le speranze di democrazia di cui, pur nelle sue strutturali ambiguità, era stato portatore.

I fatti sono noti. Il peronismo cominciò ad autodistruggersi – e a distruggere la ripristinata democrazia – il giorno stesso in cui Peròn tornò dall’esilio. Fu quel giorno che, per dargli il benvenuto, le sue contrapposte fazioni, di destra e di sinistra, si fronteggiarono armate massacrandosi nei dintorni dell’aeroporto di Ezeiza. Ed a distruggere se stesso e la democrazia il peronismo ha continuato in un bagno di sangue nel quale è andato, per tre anni, recitando tutte le parti in copione. Tutte, naturalmente, tranne quella che i vertici militari e la Cia erano nel frattempo andate perfezionando – neppure tanto “dietro le quinte” – nell’ambito di quella “Operazione Condor” che, negli anni settanta, partendo dal Cile di Salvador Allende, avrebbe distrutto, in pratica, ogni forma di democrazia nel “cortile di casa” degli Usa. Peronista era il governo. Peronista era la guerriglia dei Montoneros che gli esiti della rivoluzione misurava, in una logica militar-fascista, non dalla profondità dei cambiamenti apportati, ma dalla quantità di violenza che generava. E peronista era, infine, la famigerata “Triple A”, la Alianza Anticomunista Argentina i cui squadroni della morte, diretti da José López Rega, segretario personale di Juan Domingo Perón, eliminavano, omicidio dopo omicidio, tutto quel che aveva un sia pur vago odore “di sinistra”.

Tutto questo – e molte altre cose – sono accadute da quel 6 settembre del 1930. Ma queste – il suffragio universale, la partecipazione popolare, le pensioni minime, l’educazione e la sanità pubblica, la tassazione progressiva dei redditi – restano le “crescenti dosi di collettivismo” che, a detta di Milei, hanno trasformato l’Argentina, fino ad allora la “più grande potenza del mondo” in un “paese decadente”. E questo ci porta al cuore, chiamiamolo così, “lessicale” del problema. Laddove parla di “collettivismo” – termine che tutti gli uomini di poca fede di norma associano con le più estreme forme di comunismo o, comunque, di totalitarismo statalista – Javier Milei intende, in realtà, ”democrazia”. Perché proprio la democrazia sempre è in ultima analisi stata – in tutta la originale visione liberista ed ancor più, ovviamente, nella sua mistica e fondamentalista rielaborazione mileiana – il vero pericolo, il vero nemico. Friedrich Hayek – che per due volte, nel ’77 e nell’81 ha visitato il Cile insanguinato dalla dittatura militare, in entrambi i casi intrattenendo cordiali colloqui con il generale Augusto Pinochet – lo ha anche, a suo tempo, apertamente teorizzato: meglio una dittatura che garantisca la piena libertà di mercato, ha sostenuto, che una democrazia che la limiti. Ed è certo che proprio alla corte di Pinochet alacremente ed entusiasticamente lavorarono, nel nome della libertà di mercato, i “Chicago Boys” di Milton Friedman.

Quanto a Milei, è noto come, pur venerando tutti i maestri del neoliberalismo austriaco e di Chicago, in uno in particolare si sia sempre riconosciuto con religioso fervore. Ovvero: nel meno noto e più estremo, Murray Rothbard, al quale di deve, non solo il nome del primo dei quattro mastini inglesi da Milei clonati, ma anche il conio dell’espressione “anarco-capitalismo” della quale Milei è diventato l’evangelizzatore argentino. E davvero esemplare, per capire il nuovo presidente argentino, è seguire la parabola politica che, negli anni, ha portato Rothbard a sposare la sua originale fede libertaria, protesa ad una totale abolizione dello Stato, con le idee della destra americana più grettamente razzista, nazionalista, xenofoba e cristianamente bigotta (da lui definita “paleolibertaria”). Rothbard è stato, sul terreno politico, un nemico giurato di ogni battaglia per i diritti civili e contro il razzismo, un feroce antifemminista ed un fanatico antiabortista, non disdegnando ambigue frequentazioni dei più accesi antisemiti e negatori dell’Olocausto. Nel 1992, tre anni prima di passare a miglior vita, aveva incondizionatamente appoggiato la candidatura presidenziale di David Duke, Gran Dragone del Ku Klux Klan.

È di fronte a questo specchio che Milei ha elaborato la sua visione del passato e del futuro. Ed è guardando l’immagine riflessa di Rothbard che è andato, in questi anni, negando tutto quel che avesse un sia pur vago sapore di progressismo. Nega, Milei, la realtà del cambiamento climatico. Nega i diritti civili – l’aborto, il matrimonio paritario, la parità salariale tra uomo e donna, il femminismo e quant’altro – conquistati negli ultimi anni. Nega che la salute sia un diritto garantito da pubbliche e gratuite strutture. Nega la necessità d’un sistema di educazione pubblica. Durante la pandemia ha, con i consueti esagitati toni, negato la necessità del lockdown – da lui considerata la più grave violazione dei diritti umani consumatasi in Argentina – e della campagna di vaccinazione. Ed un’altra cosa – partendo da questa visione – nega Javier Gerardo Milei: l’esistenza della dittatura militare che, tra il ’76 e l’83, governò nel sangue l’Argentina. Per lui – e soprattutto per la sua vice-presidente, Victoria Villaruel, che in questo campo detta la linea – non vi fu in Argentina nulla degno di questo nome. Non vi furono violazioni di diritti umani, ma soltanto “eccessi”, pochi e tutti consumati nell’ambito d’una “guerra civile” le cui vittime vanno celebrate, se proprio è necessario celebrarle, in termini assolutamente paritari.

Ed è proprio qui, in quest’ultima negazione, che Milei meglio rivela la sostanza, politica ed umana, d’una filosofia che ripudia ogni forma di Stato, laddove lo Stato eroga pensioni, servizi sanitari o – orrore! – prebende per i più poveri, ma poi (inevitabilmente, date le premesse) sostiene o, quantomeno, tollera il terrorismo di Stato. E tollerandolo – difendendolo o, addirittura promuovendolo, laddove serve a difendere l’unico diritto dalla sua religione contemplato, quello alla proprietà – rompe i fragili equilibri sui quali da quarant’anni si fonda la ritrovata democrazia argentina. Per l’appunto: quelli definiti dal “Nunca Más”, dalla verità sugli orrori consumati sotto le insegne del “Proceso de Reorganizacion Nacional” (così l’ultima dittatura chiamò se stessa) dalla comune volontà di non ripetere, al di là delle differenze politiche, quella tragica esperienza.

Ma tornando al tempio di Davos ed al discorso di iniziazione internazionale di Milei. Come già accennato, non sono mancate, nei commenti del giorno dopo, sarcastiche considerazioni non solo in merito agli apocalittici toni del discorso, ma anche al fatto che il neopresidente avesse senza alcuno sforzo d’approfondimento usato, per rivolgersi ai capi di Stato, ai supermanager e ai cervelloni economici lì riuniti, le stesse parole, gli stessi toni e gli stessi concetti spesi, agitando la motosega, in talk show e in lezioni impartite a platee pressoché ignare di cose economiche. Ma non si è trattato che di sterili polemiche, incapaci di andare alla sostanza delle cose. Per il “Figlio dell’Uomo” Javier Milei, quelle elaborate da Mises, Hayek, Friedman e, soprattutto, da Rothbard e da lui stesso, non sono teorie economiche. Sono testi sacri. Ed i testi sacri non si cambiano. Verrebbe mai in mente a qualcuno di cambiare le parole d’una delle parabole evangeliche? Avrebbe alcun senso farlo?

Evidentemente no. E nessun senso avrebbe, trattandosi di sacre scritture, fare distinzioni, cogliere qualsivoglia sfumata discrepanza tra quanti da queste inalterabili verità s’allontanano. Il peccato di eresia non conosce distinguo. E per gli eretici, per chi nega la vera fede, comunque la neghi, non può esserci, senza differenziazioni di sorta, che un’unica condanna divina. Una condanna eterna. Tutti sono colpevoli. Colpevoli e decadenti. Tutti, “si dicano apertamente comunisti, socialisti, socialdemocratici, democristiani, neokeynesiani, progressisti, populisti, nazionalisti o globalisti”. E tutti – si chiamino Pol Pot, Willy Brandt, Aldo Moro o Hipólito Yrigoyen poco importa – devono finire tra le fiamme dell’inferno…

Parole troppo severe? No, perché in realtà Il Figlio dell’Uomo Milei – dopo un veemente, savonaroliano attacco contro femminismo e qualsivoglia forma di ambientalismo – ha concluso il suo sermone con una nota di luminosa speranza. Se Gesù era a suo tempo, pochi giorni prima d’esser crocifisso, entrato nel tempio di Gerusalemme per cacciare i mercanti, Milei è al contrario entrato nel Tempio di Davos per dire ai mercanti che a loro appartiene il Regno dei Cieli. “Voi – ha detto rivolto agli imprenditori presenti a Davos e a quelli dell’intero Universo – siete i veri benefattori sociali. Voi siete i veri eroi e che nessuno osi dire che le vostre ambizioni sono immorali…”. Andate, arricchitevi e propagate nel mondo la Buona Novella…

Questo è il messaggio col quale Milei s’appresta – con universali ambizioni – a governare un’Argentina, oggi nel pieno d’una delle peggiori delle sue periodiche e croniche crisi. Lo fa spacciando per nuove vecchie ricette, Alla fine degli anni ’80, dopotutto, il peronista Carlos Menem aveva seguito la stessa strada neoliberale ed il tutto era sfociato, nel 2001, nella crisi del “corralito”, la più grave della storia argentina. Lo fa usando parole e concetti che, ripescati dalla notte dei tempi, nel nome dell’antipopulismo seguono il più vieto e stantio copione del populismo.

Quali che siano gli esiti immediati della sua politica, questo è Javier Gerardo Milei: l’ultimo – ed il più sgangherato – dei “caudillos” latinoamericani. Una reliquia del passato. Un pericolo per la democrazia.


[1] Vedi, a tal proposito “Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty” di Daron Acemoglu e James A. Robinson; e “The Wealth and Poverty of Nations: Why Some Are So Rich and Some So Poor” di David S. Landes.

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