“I have a dream”, 60 anni dopo il sogno resta tale

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“I have a dream…”, disse un giorno il reverendo Martin Luther King Jr., pastore della Ebenezer Baptist Church di Atlanta, nello Stato della Georgia. E, nel tempo, quel suo “sogno” uscì dal tempo. O meglio, entrò nell’immaginario collettivo del mondo intero come un eterno, universale simbolo di speranza, come il luminoso e perenne annuncio di qualcosa che ancora non c’è, ma che sta per arrivare, d’una “terra promessa” – queste sono le parole che lo stesso King avrebbe usato prima di morire – non ancora raggiunta, ma già visibile “from the mountaintop”, dall’alto d’una montagna scalata al prezzo di sangue e di dolore. I libri di Storia ci dicono però che quel sogno, quella “terra promessa” fuori dalla Storia ha, in effetti, una precisa età – 60 anni esatti – ed una precisa collocazione nella catena di eventi che, tra il 1963 ed il 1968, marcarono, negli USA, la battaglia per la conquista dei diritti civili.

“Let freedom ring…”

In quel ribollente pomeriggio del 28 agosto 1963, una folla immensa aveva riempito l’intero National Mall di Washington D.C – il gigantesco viale, disegnato da Pierre l’Enfant nel 1791 a imitazione dei giardini di Versailles – che corre lungo le due miglia che separano Capitol Hill da quel Lincoln Memorial che, per l’occasione, fece da simbolico pulpito al discorso di King. E questo era stato il sogno che il pastore di Atlanta aveva svelato a chi l’ascoltava. “I have a dream”, aveva detto. Il sogno di un’America finalmente all’altezza dell’idea di libertà che l’ha fondata. Un’America nella quale “i figli di chi è stato schiavo ed i figli di chi ha posseduto schiavi possano infine sedersi, senza distinzioni, intorno al tavolo della fratellanza” e dove, come Dio comanda, ciascuno venga giudicato in base “ai suoi meriti e non al colore della sua pelle”. “Let freedom ring” aveva detto e ripetuto MLK. Lasciate che i rintocchi della campana della libertà risuonino ovunque, perché ovunque, lungo le valli tortuose della California come lungo le sponde del Mississippi, la libertà di ciascuno si può finalmente specchiare nella libertà di tutti. E perché, in questa Nazione che ha finalmente ritrovato se stessa, “tutti i figli di Dio, bianchi e neri, ebrei e non ebrei, protestanti e cattolici possono infine prendersi per mano e cantare insieme le parole dell’antico spiritual negro: Free at last. Free at last. Thank God almighty, we are free at last…”.

Molte cose erano accadute prima di quel discorso. Era accaduto, ovviamente, il “peccato originale” – un peccato originale senza cacciata dall’Eden – della nascente democrazia americana (proverbialmente “la più antica del mondo”). Più esattamente: era accaduta la schiavitù, la “peculiare istituzione” – così sarebbe stata in seguito chiamata con molto melensa ipocrisia – che aveva raggiunto le sponde della Virginia, allora nulla più che una remota e trascurata colonia dell’impero britannico, agli albori dell’Anno del Signore 1619. E che un secolo e passa più tardi si sarebbe trionfalmente incontrata con il sorgere della rivoluzione industriale e con la impetuosa crescita del capitalismo, diventando – da fenomeno marginale – parte integrante dell’economia americana. Nel 1776 quando gli Stati Uniti si staccarono dall’Impero nel nome dei “diritti naturali” e della eguaglianza – We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal… recita, in un lampo di illuministica e repubblicana bellezza, la Declaration of Indipendence – era il cotone raccolto nelle piantagioni dagli schiavi (500.000 anime, il 20 per cento della popolazione totale delle 13 colonie) che riforniva di materie prime le fabbriche di Manchester dove altri schiavi, o semi-schiavi (i reietti del nuovo proletariato industriale) lavoravano la materia prima. La “peculiare istituzione” era molto poco peculiarmente parte di un sistema che non aveva alcuna intenzione (e forse nemmeno la possibilità) di mettere in discussione se stesso nel nome di quella libertà che, pure, con tanta forza andava proclamando. E s’integrò pertanto senza scosse – al di là di qualche problema di coscienza in alcuni dei padri fondatori – in quella che, col tempo, sarebbe diventata la più potente nazione del mondo.

La “nuova America” nasceva così. Formata da “uomini liberi” – quelli di sesso maschile e di pelle bianca – che liberi erano resi dal possesso di beni (perché questo, il possesso di beni, era in realtà “the Pursuit of Happiness” la ricerca della felicità cui accennava la dichiarazione d’indipendenza). E da altri uomini che tali in realtà non erano perché, per l’appunto, non erano che beni. Non uomini, ma proprietà. Come le vacche ed i maiali, come la terra che coltivavano e come il cotone, il tabacco o le canne da zucchero che raccoglievano.

C’erano state, dopo la schiavitù, la Guerra Civile e la Emancipation Proclamation di Abraham Lincoln (1863). E c’era stata la speranza – una breve parentesi – generata dalle modifiche costituzionali che, attraverso il 13esimo, 14esimo e 15esimo Emendamento, avevano restituito agli ex-schiavi lo stato di uomini e quello di cittadini. Quindi, morto assassinato Lincoln e chiusasi la fase della “Reconstruction”, si era aperta quella che i fautori dell’egemonia bianca avevano molto cristianamente battezzato “the Redemption”, la redenzione. Ovvero: la fase del Ku Klux Klan e dei massacri, dei linciaggi, della segregazione (soprattutto al Sud, ma non solo al Sud) e della negazione del diritto al voto. Quella – così venne sancita nel 1896 in una sentenza della Corte Costituzionale, la Plessy vs Fergusson – del “separated but equal”, separati ma eguali. Laddove, ovviamente, la separazione era un dato di fatto e l’eguaglianza null’altro che una burla crudele. Un sistema di anticostituzionale ma paradossalmente legalissima iniquità passata alla Storia come “Jim Crow”.

“Segregation now, segregation tomorrow, segregation forever”

Di questa fase e di questa America, l’America della “redenzione”, erano figlie – 187 anni dopo la Dichiarazione di Indipendenza e 87 anni dopi la Emancipation Proclamation – la grande manifestazione del 28 agosto 1963 ed il discorso di Martin Luther King. Di questo e della resistenza a tutto questo. Solo qualche mese prima, il movimento per i diritti civili, guidato dalla Southern Christian Leadership Conference (SCLC)aveva deciso di portare la battaglia per l’emancipazione nella più ferocemente ed ostentatamente segregata delle città americane: Birmingham (o “Bombingham”, come la chiamavano per la frequenza con cui bombe incendiarie venivano lanciate contro le chiese ed i locali frequentati dai neri), in quello Stato dell’Alabama il cui governatore, George Wallace, proprio questo “Segregation today, segregation tomorrow, segregation forever” – aveva dichiarato il giorno del suo insediamento. C’erano stati cortei e manganellate a raffica. C’erano state marce pacifiche e c’erano stati i cani lanciati contro i manifestanti da Theodophilous Eugene “Bull” Connor, il Commissioner of Public Safety della città, destinato ad entrare nella Storia come un simbolo di sopraffazione e, per contrasto, anche delle buone, sacre ragioni dei sopraffatti. C’erano stati sangue ed arresti. Tra gli altri anche quello del medesimo King. E l’intera America – un’America che la TV finalmente poneva di fronte allo specchio della propria feroce, strutturale diseguaglianza razziale – aveva visto quel che accadeva.

Fu per questo che, poche settimane dopo, l’11 giugno, nel celebrare il centenario della Emancipation Proclamation, il presidente John Kennedy mise da parte ogni prudenza politica – prudenza più che spiegabile considerato che proprio il suo Partito Democratico era, al Sud, l’architrave politica della segregazione – e in un messaggio alla Nazione denunciò, con parole inequivocabili, la “insostenibile immoralità” del Jim Crow, la sua intrinseca ed ormai intollerabile natura “anti-americana”.

Southern strategy e maggioranza silenziosa

Il sogno era cominciato. O, almeno, sembrava sul punto di cominciare a camminare, traballante ed insanguinato ma sicuro, tra nuove violenze e nuovi omicidi (su tutti quello dello stesso John Kennedy, nel novembre di quello stesso anno, a Dallas). Solo un paio di settimane dopo il discorso di Martin Luther King, nella medesima Birmingham, il Ku Klux Klan aveva fatto saltare per aria con una bomba la chiesa Battista della sedicesima strada, assassinando quattro bambine nere. E giusto il giorno dopo il discorso di Kennedy, il 12 giugno, a Jackson, in Mississippi, Medgar Evers, uno dei più importanti leader della lotta per i diritti civili, era stato assassinato a fucilate davanti a casa. Nei due anni che seguirono l’ “I have a dream”, vennero approvate, con Lyndon Johnson alla presidenza, leggi – il Civil Rights Act del 1964 e il Voting Rights Act del 1965 – che, almeno da un punto di vista legale, chiusero per sempre l’era del Jim Crow. Non però quella della diseguaglianza e dell’ingiustizia. Non quella, incistata nella storia degli Stati uniti d’America, del razzismo. Già nel 1968 la “southern strategy” – politica d’ammiccante comprensione verso gli orfani della segregazione e dell’incontrastata egemonia bianca – era divenuta, insieme agli appelli alla famosa “maggioranza silenziosa”, il punto focale della vittoriosa campagna presidenziale di Richard Nixon. E non molti anni più tardi, nel 1980, Ronald Reagan avrebbe, per così dire, ribadito il concetto, aprendo ufficialmente la sua campagna elettorale a Philadelphia. No, non “quella” Philadelphia. Non la capitale della Pennsylvania dove venne approvata la Costituzione nel 1791, ma la sua omonima del Mississippi, la cittadina dove, nel giugno del 1964 – come puntualmente raccontato nel bellissimo film “Mississippi Burning” – tre attivisti dei diritti civili erano stati assassinati dal Ku Klux Klan. Bianchi del Sud, io sono con voi. Questo era – l’ancora subliminale, ma non troppo – messaggio di Reagan. Un messaggio che oggi, ai tempi di Donald Trump – o, meglio, della definitiva “trumpizzzazione” del Partito Repubblicano, vale a dire d’una metà del sistema democratico Usa  – non solo continua (e non più subliminalmente) a risuonare, ma che sembra esser diventato, nella sua fideistica foga, la caricatura di se stesso. Più che mai ridicolo. E, proprio per questo, più che mai pericoloso.

La schiavitù? Un programma di avviamento al lavoro per razze inferiori tenutosi con successo tra il 1776 – anno della nascita degli Stati Uniti d’America – ed il 1865, anno in cui venne abolito…No, non sono ovviamente queste le parole con le quali, non più di qualche mese fa, il Florida Department of Education ha redatto – su indicazione di Ron DeSantis, governatore e fino a ieri considerato un molto serio aspirante alla nomination repubblicana – il nuovo curriculum per l’insegnamento della storia patria nelle scuole pubbliche dello Stato. Proprio questo è però, nella sostanza, quello che i pargoli del Sunshine State – messi finalmente al bando i testi “woke” che “alimentano la divisione razziale” – dovranno apprendere negli anni a venire: che la schiavitù ebbe, per chi fu schiavizzato, anche un lato positivo, in quanto – e qui la citazione è davvero letterale – molti di loro ebbero, da schiavi, “l’opportunità di apprendere mestieri che avrebbero poi utilizzato a proprio vantaggio”. O, per usare le parole del medesimo DeSantis: perché molti di loro, abbandonate le piantagioni per grazia del padrone, “sono poi diventati, fabbri e falegnami”.

Un’aberrazione? Un’idiozia già sepolta da una collettiva sghignazzata? Per nulla. Nel parlar di fabbri e falagnami, DeSantis stava soltanto facendo legna – normalissima legna, legna d’uso quotidiano, legna per accendere il fuoco delle più correnti passione tra l’elettoratoi trumpiano – al fine di guadagnare qualche punto nella sua sempre più problematica corsa (Donald Trump sembra ogni giorno di più imbattibile) alla nomination repubblicana in vista delle presidenziali del prossimo anno.

Ritornare Memphis, sul luogo del delitto

Per capire davvero il senso del sogno, la logica del suo trionfo e quella della sua disfatta, la realtà di quel che fu, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, bisogna tuttavia, come nei romanzi gialli, abbandobare per un attimo il presente e tornare sul luogo del delitto. Ovvero: tornare là dove è morto – morto ammazzato – il sognatore. Bisogna tornare a Memphis, alla balconata di fronte alla camera numero 306 del Motel Lorraine, dove, alle sei e un minuto in punto del pomeriggio del 4 aprile 1968, un colpo di fucile sparato non si sa da chi – quasi nessuno, ormai, crede che il vero colpevole sia davvero quel James Earl Ray che, condannato per quel delitto, è morto in carcere nel 1998 dichiarandosi innocente – uccise Martin Luther King.

Chi oggi torna in quel motel trova ogni cosa al suo posto. Tutto è rimasto là dove si trovava allora, come sacralmente pietrificato nell’attimo di quelle sei e un minuto del 4 aprile di 55 anni fa: la balconata, il numero della stanza, il colore delle pareti, il cortile e, oltre la strada, la Bessie Brewer boarding house da una delle cui finestre era partito il colpo mortale. Tutto uguale. Tutto diligentemente congelato nella religiosa immobilità d’un museo – il National Civil Rights Museum – che pur non vantando la marmorea solennità d’un monumento, come un monumento (o come un mausoleo) ha il compito di congelare, nella fredda ed artefatta realtà del mito, il senso ultimo, le più profonde ragioni del ricordo. “Tornare a Memphis” significa proprio questo. Non per ascoltare il Martin Luther King-robot che, in una stanza del museo, ripropone la registrazione dei suoi più famosi discorsi. Ma per ma per ritrovare le ragioni umane e politiche che, in quel giorno d’aprile, avevano spinto King verso la più grande città del Tennessee.

C’era uno sciopero in corso a Memphis, in quell’inizio di primavera del 1968. E non si trattava d’uno sciopero qualunque. Ad incrociare le braccia erano stati, tre settimane prima, gli ultimi degli ultimi. Ovvero: i lavoratori delle immondizie, 1200 anime, uomini “invisibili” in grande maggioranza di pelle nera, che, lungo le strade secondarie o immersi nelle fognature, raccoglievano i rifiuti della città. E che come rifiuti vivevano e, non di rado, morivano. Proprio per questo, infatti, la sera del 12 febbraio, lo sciopero era cominciato. Per il cattivo funzionamento d’uno dei camion della raccolta, due lavoratori erano stati risucchiati, come immondizia, dagli ingranaggi che triturano il sudiciume. Le cose che i “garbage men” chiedevano erano legate, nel modo più semplice e diretto, alla difesa della vita e della dignità umana. Chiedevano più sicurezza. Chiedevano una doccia per potersi lavare al termine del turno di lavoro ed un posto dove poter orinare. Chiedevano orari meno massacranti (la giornata lavorativa poteva arrivare a 14 ore, senza straordinari) e salari che consentissero di sopravvivere. Chiedevano la fine della discriminazione (solo ai lavoratori di pelle bianca venivano pagate le giornate perdute a causa del maltempo). Ma per il sindaco della città, Henry Loeb – un personaggio il cui ritratto spicca nella galleria dell’America più reazionaria e razzista – erano soltanto dei “comunisti”, nemici della Patria e dell’ordine. Sovversivi da rimettere al loro posto. La sua amministrazione aveva compensato con un mese aggiuntivo di salario (300 dollari) e con un assegno di 500 dollari le vedove dei due lavoratori morti. E tanto doveva bastare. Nessuna concessione, nessuna trattativa.

Il Martin Luther King che era disceso a Memphis per dare il suo appoggio ai lavoratori in lotta era già, a tutto tondo, una “celebrità” politica. Ma era, nel contempo, un uomo molto diverso da quello che aveva lanciato il suo “I have a dream..” dal pulpito del Lincoln Memorial. E molto diverso, anche, da quello che nel 1964 aveva ritirato – a riconoscimento della sua battaglia per i diritti civili dei negri d’America – il premio Nobel per la Pace. Lo sfondo della sua visita – uno sfondo turbolento, luminoso e cupo al tempo stesso – era quello del 1968, l’anno nel quale tutti i nodi della Storia d’America era parsi collidere nel medesimo crocevia. L’anno cruciale della protesta contro la guerra nel Vietnam. L’anno della ribellione nei campus, delle rivolte nei ghetti urbani e, sull’altra sponda, l’anno del consolidamento della “maggioranza silenziosa”. Martin Luther King era, in quei giorni di fuoco, un uomo alla ricerca di nuovi cammini, di nuove verità. Ed era, a suo modo, un uomo solo.

La “Poor People Campaign”

Esattamente un anno prima di quello che sarebbe diventato il giorno della sua morte, il 4 aprile del 1967, nella Riverside Church di New York, King aveva definito in un memorabile discorso – consegnato alla Storia sotto il titolo “Beyond Vietnam”, oltre il Vietnam – le ragioni filosofiche, politiche e religiose della sua opposizione ad una guerra “assurda ed ingiusta”. E questo aveva tagliato, in pratica, tutti i ponti che, nel corso della battaglia per i diritti civili, erano stati gettati tra lui ed il presidente Lyndon Johnson. O, per meglio dire, tra lui e l’establishment bianco progressista. “Calunnie demagogiche che assomigliano a comunicati di Radio Hanoi”. Così il settimanale Time aveva definito le sue parole contro la presenza americana in Vietnam. E subito il Washington Post aveva fatto eco sottolineando come quelle stesse parole avessero irrimediabilmente “sminuito l’utilità della causa” di cui King era divenuto simbolo. Tra i neri d’America era, intanto, andata crescendo l’influenza di quelle che King chiamava “le sirene della separazione e della violenza”. Vale a dire: la forza del “Black Power” che ratificava la “inconciliabilità” tra gli interessi dell’America nera e quelli dell’America bianca, rimarcando la necessità del ricorso alla forza. In questo quadro, la nuova e tormentata frontiera di Martin Luther King si chiamava, in quella primavera del 1968, “Poor People Campaign”, campagna contro la povertà. E, contro la povertà, contro la “umiliazione del bisogno e della diseguaglianza” King stava cercando di forgiare una nuova coalizione sociale “senza distinzione di razza”, capace, senza violenza, di “ricostruire la società americana” sulla base del nuovo paradigma d’una “giustizia che non ha colore”. Ed il suo obiettivo era, per l’appunto, come nel 1963, una nuova grande marcia su Washington. Una marcia per la pace e la giustizia.

Non era la prima volta che King arrivava a Memphis. Solo due settimane prima, il 18 marzo, proprio lui aveva condotto un corteo per le vie della città. Ed aveva, in quell’occasione, potuto ascoltare e vedere le “sirene della separazione e della violenza”. Ai margini della manifestazione, gruppi di giovani – chiamati “The Invaders”, gli invasori – avevano fracassato vetrine e rovesciato automobili, consentendo alla stampa locale e nazionale di descrivere sardonicamente “il pacifista reverendo King” come un proverbiale “lupo nella pelle d’agnello”. Martin Luther King era dunque tornato tra gli uomini della spazzatura, tra gli ultimi degli ultimi, per ribadire, una volta di più, il suo “sovversivo” credo di non violenza, la sua fede in una giustizia sociale che fosse, senza distinzioni – ed oltre gli antichi confini dei diritti civili – giustizia per tutti.

“I have been to mountaintop…”

Raccontano le cronache come King fosse arrivato in città, esausto dopo un lungo viaggio, la sera del 3 di aprile. E come avesse, per stanchezza, deciso di non partecipare all’assemblea che, quella notte, era stata programmata nel Mason Temple, affidando a Ralph Albernathy, il più in vista dei suoi seguaci, il compito di parlare alla gente. Ma non ci fu nulla da fare, i “garbage men” di Memphis volevano sentire lui e solo lui. Sicché a King altro non rimase che lasciare la sua stanza d’albergo e, giunto nel Mason Temple, improvvisare un discorso. Fu così, seguendo d’istinto il filo dei suoi pensieri e dei suoi tormenti, che pronunciò parole (le sue ultime) destinate a restare – come il suo sogno di cinque anni prima – scolpite nella pietra. Parole piene di poesia e di forza. Parole profetiche. Gli annali rammentano quel discorso sotto il titolo “I’ve been to the Montaintop”, sono stato in cima alla montagna. Ma al centro del discorso c’era – come spesso nei discorsi di King – una parabola evangelica: quella del buon Samaritano che, lungo la strada che porta Gerico, assiste un viandante derubato e picchiato dai banditi. Anche l’America, aveva detto King, sta camminando lungo la via Gerico, tutti noi, bianchi, neri, gialli e marroni, stiamo camminando lungo la via Gerico…

Martin Luther King aveva parlato anche di se stesso, del suo cammino. Ed aveva raccontato del giorno in cui, a New York, una squilibrata l’aveva accoltellato. La lama, disse, era penetrata nel petto e si era fermata a meno di un millimetro dall’aorta. Sarebbe bastato uno starnuto e lui sarebbe morto dissanguato. Ma così non fu. Ed oggi – aveva aggiunto – “sono contento di non avere starnutito perché ho potuto continuare a camminare lungo la strada di Gerico”. Perché ho potuto vedere il boicottaggio degli autobus di Montgomery, la sfida di Birmingham e la resurrezione della grande marcia su Washington. Ho potuto vedere Selma. Sono contento di non avere starnutito perché ho potuto venire qui, a Memphis, dove altri viandanti, picchiati ed umiliati, hanno bisogno di amore e di giustizia. “Non so quel che accadrà ora…ma non m’importa perché io sono stato in cima alla montagna…Anch’io, come tutti, vorrei vivere una lunga vita…ma non è a questo che penso ora, perché io voglio fare la volontà di Dio…Dio mi ha permesso di raggiungere la cima della montagna. E dalla montagna io ho guardato ed ho visto la terra promessa. Forse io non la potrò raggiungere insieme a voi. Ma voglio che voi sappiate che noi, come popolo, raggiungeremo la terra promessa. E per questo, stasera io sono felice. Sono felice e non ho paura di nulla, non temo nessuno. Perché i miei occhi hanno visto la gloria e l’avvento del Signore”.

Questo disse Martin Luther King Jr. la notte del 3 aprile 1968, prima di morire ammazzato. E questo, 55 anni dopo resta di lui. Resta senza età, consegnato all’eternità della Storia, il suo sogno. Resta, incastonata nel cuore dell’umanità, l’idea di giustizia ed eguaglianza che di quel sogno era la luce e che nessun curriculum, nessuna pallottola può spegnere. E resta Donald Trump, mediocre e volgare personaggio che tuttavia è diventato ricettore e simbolo d’una crisi epocale della democrazia americana. Resta un’America i cui curriculum scolastici descrivono, tra gli scroscianti applausi della destra, la schiavitù come un corso di formazione professionale.

La terra promessa che, in quella notte a Memphis, il pastore della Ebenezer Baptist Church aveva visto dalla cima della montagna è ancora oltre la linea dell’orizzonte. Lontana ed invisibile. Il sogno, sessant’anni dopo, resta un sogno.

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