Molti sono stati i pericoli che, nel corso del tempo, hanno avuto per bersaglio la democrazia Usa. Ed a ciascuno di questi pericoli la Storia ha assegnato un suo preciso colore. Ci fu, fin dalle origini, il “pericolo nero”. E ci fu, poco più tardi, il “pericolo giallo”, a breve seguito, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, da due successive ondate di “pericolo rosso”. Nero, giallo e rosso. Nessuna possibilità di cromatici equivoci. Tutto chiaro, tutto senza sfumature né chiaroscuri. E tutto terribilmente (spesso tragicamente) serio.
Nero, giallo, rosso e…biondo-fragola
Altri tempi. Oggi il “pericolo”, o la “minaccia”, torna infatti a presentarsi non solo in termini politicamente capovolti e, proprio per questo politicamente molto più assillanti (vedremo più avanti perché), ma anche sotto le insegne d’un un colore molto più sfuggente ed indecifrabile – il “biondo-fragola” – che di primo acchito sembra richiamare non tanto possibili sanguinose rivolte, o cruente sovversioni dell’ordine democratico (anche se proprio di questo si tratta), quanto le tranquille immagini d’una antico ed elegante negozio di parrucchiere per signora, con i suoi innocui pettegolezzi muliebri sotto il casco della permanente ed i suoi inconfondibili profumi d’essenze e di balsami. “Come glieli faccio, signora? Biondo-fragola?…”.
Breve excursus storico per meglio inquadrare il problema. Il “pericolo nero” fu, ovviamente, quello che, da subito, ma particolarmente dopo la rivolta degli schiavi in Saint Domingue (in quella che poi sarebbe diventata Haiti) tormentò i fondatori della nuova e rivoluzionaria repubblica che, sebbene nata sulla base d’un luminoso principio d’eguaglianza, economicamente funzionava grazie al lavoro in catene di esseri umani importati a forza dall’Africa e degradati a semplici “proprietà”. Il successivo “pericolo giallo” – che, in realtà, non fu che la punta di diamante d’una più ampia ventata xenofoba chiamata “nativismo” – fu, invece, quello che assalì gli Stati Uniti tra il finale del XIX e l’inizio del XX secolo.
I nemici erano in questo caso – come il colore suggerisce – i cinesi. Ovvero: quegli stessi immigrati col cui sangue era stata costruita la prima grande ferrovia transoceanica americana – gli storici calcolano in “almeno duemila” i lavoratori di “pelle gialla” morti in corso d’opera, tra il 1863 ed il 1869 – ora divenuti un’intollerabile minaccia per l’etnica purezza della Nazione. E questo al punto che nel 1882, il Congresso aveva approvato a grande maggioranza quel Chinese Exclusion Act che avrebbe precluso l’entrata agli immigrati dalla Cina per più di 60 anni. Ed al punto, anche, che un grande scrittore come Jack London – da tanti di noi amato come una delle più affascinanti ed avventurose espressioni della “America migliore” – s’era lasciato trascinare dall’onda scrivendo, nel 1911, quello che è di gran lunga il più brutto dei suoi romanzi: “The Unparalleled Invasion”, l’incomparabile Invasione, basata, per l’appunto, su una immaginaria invasione militare cinese degli Stati uniti d’America.
La prima e la seconda “paura rossa’
“Rosso” fu invece – ed ancora per molti aspetti è, perché si tratta d’una malattia endemica con alti e bassi, ma non estirpabile – il pericolo anarco-comunista che, sotto il nome di “Red Scare”, si dipanò, ancora una volta in chiave xenofobico-anti-immigratoria, negli anni immediatamente seguenti la Rivoluzione d’ottobre (andare a vedere le cronache del processo a Sacco e Vanzetti per avere una più chiara idea del fenomeno). O meglio: sotto il nome di “First Red Scare”, prima “paura rossa”, perché una seconda (e per molti aspetti anche più feroce) replica, meglio nota come “maccartismo”, avrebbe percorso gli Stati Uniti lungo tutti gli anni ’50, per poi – una volta caduto in disgrazia Joe McCarthy, il senatore repubblicano del Wisconsin che di questa caccia alle streghe fu il riconosciuto condottiero – riprodursi grazie alle indefesse attività della “John Birch Society”, poderoso (e tenebroso) gruppo di pressione assai attivo dentro il G.O.P., scioltosi solo nel 2009.
Come si è passati, dunque, dal nero, giallo e rosso, al biondo-fragola? E perché questo nuovo pericolo tanto cromaticamente innovativo rappresenta anche un capovolgimento logico-politico rispetto alle minacce del passato? Per rispondere alla prima domanda occorre esaminare nei dettagli – quelli dove notoriamente si nasconde il diavolo – il “mugshot”, la foto segnaletica, di Donald J Trump, diffusa nei giorni scorsi dopo il suo (molto spettacolare e molto temporaneo) arresto nello Stato della Georgia, in virtù delle imputazioni (13 in tutto) inerenti il tentativo di frode elettorale da lui consumato prima, durante e dopo il conteggio dei voti nel corso delle presidenziali (da lui perdute) del 2020. Quella foto segnaletica è contraddistinta, nelle intenzioni del fotografato, da un’implacabile, minaccioso ed orgoglioso sguardo da angelo vendicatore. Il tutto, però con effetti molto doversi a seconda dell’osservatore. Molti hanno creduto di cogliere nell’espressione invelenita di Trump gli inequivocabili tratti del famoso “Uomo Nero” che i genitori d’una volta usavano per intimorire i figli-bambini disobbedenti. A chi scrive ha invece ricordato, per ragioni logistico-generazionali, una pubblicità che regnava sovrana sui tram della Milano anni ’50. Mostrava, quella pubblicità, la foto del volto d’un uomo incupito da un estremo dolore, sormontata da uno slogan che così recitava. “Poveretto, come soffre! Non ha mai usato il callifugo del dott. Ciccarelli”. In ogni caso, quale che fosse l’impressione suscitata dal “mugshot”, questo era, tra i dati del reo – tutti riportati per indicazione del medesimo, assicurano le cronache – il colore dei suoi capelli: “strawberry-blond”. Per l’appunto: biondo-fragola.
Donald Trump e Nicole Kidman, stessi capelli
Biondo-fragola? Chiunque abbia seguito anche solo distrattamente le cronache politiche americane degli ultimi anni sa come la capigliatura di Donald Trump sia stata e sia – quasi sempre in chiave di scherno – uno dei più dibattuti segreti di Pulcinella. Segreto perché – a dispetto di molte ipotesi – nessuno sa con certezza di quali procedimenti sia frutto la “cosa” che, saldamente collocata sul suo capo, Trump ama definire “i miei capelli”. E di Pulcinella perché chiunque guardi quella “cosa” può facilmente constatare – pur senza conoscerne il materiale e pur senza poterne individuarne il vero colore data la molto camaleontica ma sempre innaturale natura del medesimo – come non di capelli (e certamente non di capelli suoi) si tratti. Per avere un’idea di come davvero si presenti alla vista il colore “strawberry-blonde”, assicura chi di queste cose se ne intende, bisogna pensare a Nicole Kidman quando ancora, giovanissima e bellissima, non era che una stella nascente nel firmamento hollywoodiano. E proprio questo, in rete, molti hanno malignamente fatto: da un lato il “mugshot” di Trump, dall’altra la foto di Nicole Kidman giovane. Troppo facile – davvero! – far ridere in questo modo.
Nel presentare se stesso a compendio della sua foto segnaletica, Donald Trump ci ha del resto regalato, al di là del colore dei capelli, anche altri miracoli dei suoi. Rispetto a soltanto qualche mese fa, quando si consegnò al Tribunale di New York per un altro procedimento giudiziario – quello per i denari illegalmente pagati per comprare il silenzio di una pornostar con la quale aveva avuto una relazione extraconiugale – Donald Trump è cresciuto. No, non cresciuto nei sondaggi, come in effetti è avvenuto, almeno dal lato repubblicano. Cresciuto di statura, cosa invero straordinaria per chi, come lui ormai settantasettenne, dovrebbe al contrario aver da tempo cominciato a rattrappirsi. Quasi quattro centimetri in più. Il che non può che stimolare, tra i più maliziosi, il sospetto che, in qualcuna delle stanze della suo castello di Mar-a-Lago – magari le stesse dove l’ex presidente ha illegalmente nascosto documenti top-secret, reato oggetto d’un altro processo in corso – esista una parete sulla quale, come si fa con i bambini, la moglie Melania va di mese in mese marcando con il lapis i centimetri guadagnati.
Più alto e più snello: un fisico da atleta
I centimetri guadagnati ed i chili persi. Rispetto alla recentissima ed analoga esperienza newyorkese, infatti, Trump – cosa assolutamente impercettibile a vista – risulta, numeri alla mano, molto più snello e leggero. Perché di chili ne ha dichiarati venti in meno. Tanto che, sempre in Rete, di questi tempi abbondano i meme che dimostrano come l’attuale rapporto altezza-peso di Donald Trump sia, secondo il da lui dichiarato, in tutto e per tutto paragonabile a quella di alcuni tra i più famosi campioni di football americano ancora in attività.
La domanda di gran lunga più importante è tuttavia la seconda. In che senso perché questo nuovo pericolo tanto cromaticamente innovativo rappresenta anche un capovolgimento logico-politico rispetto alle minacce del passato? Per una semplicissima ragione. In passato il vero pericolo per la democrazia americana non era il colore, ma la paranoia che quel colore denunciava come “anti-americano”. Gli schiavi neri nelle piantagioni del Sud, il “pericolo nero”, non erano una minaccia per la democrazia, ma erano, con la loro presenza e col loro dolore, lo specchio di una democrazia negata. E quel pericolo all’establishment bianco faceva paura perché, a dispetto delle dichiarazioni, proprio questo temeva: la democrazia. I cinesi non hanno mai, tra l’800 e il 900, minacciato la democrazia degli Stati Uniti. A minacciarla erano, al contrario, proprio i “nativisti” che gridavano al “pericolo giallo”. E la storia ha inequivocabilmente passato agli annali come veri nemici della democrazia, non gli anarchici ed i comunisti la cui “sovversione”, sempre più immaginaria che reale, mai ha davvero sfiorato, in America, una rivoluzione, ma gli inquisitori che, per prevenire questa immaginaria rivoluzione, mandarono alla sedia elettrica Sacco e Vanzetti; e quelli che, negli anni ’50, furono protagonisti della caccia alle streghe maccartista.
Un tempo era la paranoia della politica americana a denunciare il “colore”. Oggi la paranoia ed il colore – il biondo-fragola dei capelli di Trump – coincidono. E, insieme, rappresentano una minaccia nuova, epocale ed esistenziale per la “più antica democrazia del mondo”. Perché della più antica democrazia del mondo la paranoia ha stabilmente occupato una metà. E perché proprio questo, ridotto all’osso, è il trumpismo: la definitiva, paranoica e sovversiva uscita del Partito Repubblicano dalla cultura democratica, il definitivo confluire del razzismo, del nativismo e dell’anticomunismo – un anticomunismo fittizio che è semplice negazione d’ogni forma di giustizia sociale – nella realtà di un grottesco culto della personalità alimentato da teorie cospirative che solo qualche anno fa erano considerate “the fringiest of the fringe”, le più lunaticamente marginali tesi complottologiche acquisibili al mercato della follia politica. All’ombra del trumpismo ed in posti chiave del G.O.P. allignano oggi seguaci di QAnon, una setta il cui credo si può così riassumere: gli Stati Uniti sono governati da una cricca satanica di pedofili cannibali (partito democratico, “deep State”, divi hollywoodiani e chi più ne ha più ne metta) con ingannevoli sembianze umane (si ratta in realtà di rettili extraterrestri) che solo Trump, prescelto dalla divina Provvidenza, può oggi nel nome di Dio sconfiggere. Ed un sondaggio condotto dal Pew Research Center nel 2021 ha rivelato come il 15 per cento dei potenziali elettori repubblicani – una quantità mostruosa considerato l’oggetto della domanda – considera “perlopiù o totalmente accurate” le teorie propugnate della setta.
“Potrei uccidere qualcuno in piena Quinta Strada…”
Nel 2016, quando era ormai sul punto di stravincere, contro ogni previsione, le primarie repubblicane per le presidenziali di quell’anno, Donald Trump disse una frase a suo modo diventata profetica: “Potrei uccidere qualcuno in piena Quinta Strada e non perderei un solo voto di consenso”. Da allora sono passati sette anni e le cronache – quelle più recenti in particolare – ci confermano come, metaforicamente parlando, quell’omicidio nel bel mezzo della più importante arteria di Manhattan, Trump l’abbia compiuto non una, ma 91 volte. Tante quante sono, in quattro diversi processi, le imputazioni che gli sono state contestate. Il tutto per una potenziale condanna (nella del tutto improbabile ipotesi che riceva il massimo della pena prevista per ogni reato) a quasi 700 anni di carcere.
Trump ha in questi anni sparato, per 91 volte, contro la summenzionata “più antica democrazia del mondo”. Ed è giustamente sotto gli occhi del mondo che l’ha fatto, senza filtri o dissimulazioni. Le inchieste giudiziarie non hanno, in sostanza, che confermato quello che tutti avevano visto e sentito, prima, durante e dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Giuridicamente, fanno rilevare gli esperti, il processo, anzi i processi – in particolare quelli relativi alle ultime presidenziali ed all’ovvio tentativo di capovolgere l’esito del voto – potrebbero, nonostante l’assoluta chiarezza degli eventi, non concludersi con una condanna del reo. E questo per gli amplissimi margini che, per tradizione, il sistema costituzionale americano concede al Primo Emendamento. Ovvero: alla libertà di parola, alla libertà di protesta attraverso la parola e, insieme, al famoso principio della colpevolezza “al di là d’ogni ragionevole dubbio”. Tutto – dicono questi esperti di cose di legge, potrebbe, al momento del verdetto, dipendere dalla risposta ad una fondamentale domanda. Era o non era in buona fede Donald Trump, quando sosteneva che il voto che dava Biden come vincitore, era viziato da clamorose frodi? Dovesse uno solo dei 12 giurati – in Georgia, come a Washington – decidere che così è, il processo terminerebbe con un “hung jury”, un nulla di fatto. O in un tutto da rifare.
Su piano politico nessun dubbio dovrebbe invece – in una situazione, chiamiamola così, “normale” – aver diritto di cittadinanza. Perché delle due l’una. O Trump non è in buona fede – ovvero, sapeva perfettamente che le denunce di frode erano false, e lo sapeva perché lui stesso era il falsario – e in questo caso andrebbe condannato per aver tradito la Costituzione che aveva giurato di difendere. O è in buona fede e allora – costatata la sua incapacità di vedere una realtà a tutti visibile – verrebbe considerato troppo stupido per pretendere di governare il Paese. E proprio questo è il problema. L’America non è più, ai tempi di Trump, un paese normale.
Qualcuno potrebbe a questo punto legittimamente chiedersi per quale ragione, nel definire il “colore” di questa crisi – o meglio: il colore di questa “minaccia” alla democrazia – si debba optare per il “biondo-fragola” della capigliatura trumpiana. Vale a dire: per il più apparentemente marginale e pittoresco dei dettagli, o addirittura per qualcosa che, per usare un termine di moda, potrebbe venir classificato come una variante di “body shaming”, una sarcastica riproposizione di facil e crudeli ironie su fisici difetti di chi si vuol combattere. O, ancor più semplicemente, come il lato più comico d’una storia che, nella sua essenza, è invece una tragedia di storiche proporzioni.
La risposta è che precisamente questa – la comicità del dettaglio – è la ragione. Trump in questi anni non ha superato soltanto la prova della Quinta Strada. Non ha soltanto impunemente sparato – per 91 volte – contro la democrazia. Lo ha fatto superando, in ogni momento della sua storia di leader politico e di oggetto di culto, la prova più importante per ogni aspirante dittatore: quella del ridicolo. Dentro il culto – un culto che è ormai padrone del Partito Repubblicano – Trump può dire e fare di tutto, sicuro che ogni sua narcisistica fanfaronata, ogni sua frottola o volgarità venga riciclata ed esaltata. La foto del suo “mugshot” – quella dei capelli color biondo-fragola e della faccia inferocita, a suo modo un capolavoro d’involontaria comicità – è stata in questi giorni stampata su migliaia di t-shirt dallo stesso Trump e da lui venduta per un ricavo, valutato pochi giorni fa, di 7 milioni di dollari, diventando, per una parte d’America, una bandiera, un grido di battaglia. Parafrasando un vecchio aforisma che Ennio Flaiano a suo tempo dedicò all’Italia: negli Usa di oggi la situazione è grave. Molto grave. Ma non seria.
Troppo ridicolo per esser vero?
Ad ogni nuova imputazione Donald J. Trump, il molto poco serio leader dai capelli di fata, ha guadagnato nuovi consensi dentro il Partito Repubblicano. Ed è oggi strafavorito nella corsa alla nomination. Lo è al punto che il primo dibattito tra quelli che, in teoria, dovrebbero essere i suoi contendenti, (dibattito da Trump disertato con sprezzanti accenti) si è farsescamente ridotto – con un paio di insignificanti eccezioni – in una collettiva genuflessione di fronte al grande leader assente ed ingiustamente perseguitato. Trump appare senza rivali dentro il G.O.P.. E sebbene sia – a tutti gli effetti – il più auspicabile e battibile tra i possibili rivali di Joe Biden (anche lui, nonostante la sua impopolarità, pressoché sicuro candidato democratico), i sondaggi indicano oggi, per il novembre del prossimo anno, un testa a testa dagli imprevedibili esiti.
A qualcuno tutto questo potrebbe apparire “troppo ridicolo” per esser vero, troppo comico e bizzarro per tradursi in vittoria, in potere, troppo clownesco per affondare una democrazia. Questo qualcuno dovrebbe perdere qualche minuto per rivedersi uno soltanto dei discorsi che Benito Mussolini – il fondatore dell’Impero – tenne a suo tempo dal balcone di piazza Venezia. I pagliacci talora vincono. È già accaduto. Potrebbe accadere ancora. E dovesse, stavolta, accadere nel più ricco e potente paese del mondo….