“Libertad Avanza”. Muore la democrazia

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In una dettagliata – e a tratti molto complessa – analisi scritta per Anfibia, la sociologa argentina Micaela Cuesta, indaga sulle ragioni profonde e, ancor più, sulle inevitabili conseguenze della irresistibile ascesa di Javier Milei e del suo movimento “La Libertad Avanza”.

Ecco quel che scrive Micaela Cuesta:

Affascinati dal risultato inaspettato delle PASO, gli analisti più vari si sono lanciati alla ricerca di interpretazioni: la gente è arrabbiata, dieci anni di stagnazione, l’eccesso di Tik-Tok e l’imprudenza di adolescenti disorientati, la polarizzazione e la spaccatura, l’inflazione, la tiepidezza nelle decisioni, la pandemia, l’insicurezza, la corruzione, la stanchezza. Altri, con minor vocazione interpretativa, hanno colto l’occasione per fare il proprio gioco: la società ha detto “basta” al peronismo, alla corruzione, al “lavoro dello Stato” (per pudore a dire “al lavoro dei diritti umani”). Una più piccola pattuglia di analisti ha abbracciato il cinismo, ironizzando su un governo che oltre agli esperti della scuola austriaca abbia spazio – seguendo alcune delle più pittoresche manie “mileiane” – per medium specializzati nella comunicazione con anime di animali, e per acconciature rare. Un’ultima porzione si è infine timorosamente messa in disparte, limitandosi ad osservare come vadano festeggiando gli elettori del leone (tutto un segno delle leggi della giungla che si anticipano e con cui non pochi fantasticano).

Di fronte alla perplessità, la sociologia cerca di stare in piedi e di offrire un quadro per leggere ciò che succede. Calibrare i tempi della società con quelli propri della politica, rendere visibili i suoi sfasamenti, sovrapposizioni, disaccordi, ritmi differenziali, è stato il suo compito ed è la nostra sfida in questa congiuntura. Le primarie (aperte, simultanee e obbligatorie, le PASO, per l’appunto definiscono molto, ma non tutto. Per fortuna. Esercitiamoci in una rapida retrospettiva.

La linea che separa “noi”, la gente, da “loro”, la “casta”

“L’altra crepa”: verso la fine del 2021 abbiamo realizzato una serie di focus group nell’ambito del Laboratorio di Studi sulla democrazia e sull’autoritarismo che annunciavano ciò che oggi avallano le PASO: la disputa politica, la “crepa” mediatica chiamata polarizzazione, non si gioca più nel campo dei partiti politici tradizionali. La linea di demarcazione si è spostata per demarcare un “loro” che nomina i politici tutti, da un “noi” che designa “la gente” che a volte viene percepita come i suoi “ostaggi”, da altri come i suoi “giocattoli”. In questo Milei ha cominciato a profilarsi come colui che, appartenendo ad un altro mondo, era capace di inscrivere una differenza nella superficie del “sempre uguale” dei politici (dei partiti politici tradizionali). Era Milei, sì, ma avrebbe potuto essere chiunque altro a presentarsi come un outsider: il posto era lì molto prima del suo arrivo. Questo spazio vuoto si è aperto nella società prima che apparisse l’elemento politico che la colmasse. Quale parte di responsabilità ricade sulla stessa classe politica e sulla militanza? Sicuramente una molto significativa: inquietudini corporative di entrambe le parti, dispute interne, automatismi, scogli comunicativi, assenza di carisma, decisioni sbagliate, eccesso di realismo, mancanze notevoli nella comunicazione con i suoi aderenti. Una militanza o un volontariato, a seconda dei casi, lontano dalla costruzione più quotidiana, rivolto al pragmatismo e al tatticismo politico, non ha nemmeno collaborato per colmare quella distanza che va crescendo da tempo.

La pandemia: la rassegnazione indotta dall’esperienza della pandemia ha contribuito a preparare il terreno per l’annunciato spostamento della politica. Qui bisogna stare attenti. In una prima fase la popolazione ha accompagnato e si è rifugiata nelle misure preventive annunciate dal governo; in un secondo tempo (non lineare) queste misure hanno portato con sé una serie di traumi ai quali è necessario porre rimedio: una fragilità/vulnerabilità soggettiva che entrava in contraddizione con il mandato di autosufficienza dell’ideologia neoliberale; una dipendenza dalle politiche e dai servizi dello Stato che si confrontava con la dichiarazione della sua indipendenza sostenuta negli ultimi decenni; la necessità di soggetti che svolgessero i compiti di cura e l’esaurimento che ne ha prodotto l’assenza che ha ridotto in non poche situazioni di crisi e violenza intrafamiliare; un rallentamento dell’economia che si distanzia da un’accelerazione digitale inedita (con un reddito finanziario speculativo mai visto prima per i proprietari di internet). Si è verificato un risparmio indotto, laddove possibile, che spiega la circolazione di denaro sul mercato appena terminata l’ASPO ma anche una recessione -chiusura di attività, cessazione di attività- seguito da molteplici riconversioni che esacerbano l’esistente plurioccupazione e iperattività. Questo confronto con i limiti non si è tradotto in una riflessione critica sulle varie istanze dell’interdipendenza che ci costituiscono e sostengono le nostre pratiche. Piuttosto, la frustrazione che ha prodotto il confronto con il limite -chiamato rapporto sociale, divisione sociale del lavoro, nella sociologia classica- è diventato un cumulo di stanchezza e rabbia contro coloro che hanno preso le misure che hanno portato a questa delusione: i politici.

La logica suicida dei “vincitori” e dei “vinti”

Il potere della finzione e la precarietà repressa: le storie possono sempre essere raccontate nella loro versione lunga e nella loro versione breve. Per ovvie ragioni scegliamo la breve. Il neoliberismo che funziona come talismano di fronte a qualsiasi dilemma, può scomporsi in elementi ideologici più o meno discreti. Il più importante è forse l’interpellanza di individui (e di istituzioni) in quanto soggetti intraprendenti, cioè capitali umani che investono in se stessi per ottenere rendimenti corrispondenti a quella visione d’investimento; soggetti (privati e statali) regolati da una logica di concorrenza in cui devono esistere vincitori e vinti; un gioco contrassegnato dall’esigenza etico-morale di abilità individuali in cui ogni “concorrente sleale” è condannato, cioè chiunque riceva un supporto (aiuto, sussidio, piano, protezione); una moralizzazione, poi, di coloro che perdono: essi sono colpevoli (e responsabili) della loro incapacità, della loro mancanza di entusiasmo, della loro immaginazione impoverita, della loro pigrizia o difficoltà a sognare e pensare in grande; colpevoli della loro spesa suntuaria o mancanza di austerità. Una irresistibile disposizione al castigo di chi non può valersi per se stesso come ciascuno fa, forgia comunità e demarca appartenenze: siamo quelli che “ci rompiamo il culo” da soli, senza l’aiuto di nessuno, e ci sono gli “altri” dipendenti e spregevoli per la stessa condizione di dipendenza.

La precarizzazione generalizzata innescata dalla pregnanza di questi discorsi imprenditoriali si fonde con una tradizione narratrice vernacolare che, pur incoraggiando ideali di libertà, legittima lo smantellamento dei diritti e delle istituzioni di protezione sociale. Non c’è niente di originale. Apparteniamo al mondo nelle sue diverse versioni (l’esistenza di quel fenomeno variegato che è il peronismo non garantisce un’anomalia eterna). Quando alla fine abbiamo creduto di poter fare tutto ciò che desideravamo, ci siamo impelagati in molteplici lavori, non solo perché uno non bastava più, ma anche perché il deterioramento delle istituzioni statali obbligava a ricorrere a servizi privati. A quel tempo ogni evasione era giustificata e ogni iniziativa fiscale veniva percepita come un’azione confiscatoria, abusiva, violenta. In questo contesto la sicurezza poteva essere letta solo in termini “securitari” (punitivi) e non più sociali, e la giustizia è passata da “sociale” (redistributiva, egualitaria) a “per mano propria”.

Prima di rompersi, uno che si rompe tutto sembra essere l’attuale traduzione politica delle sofferenze soggettive orfane di narrative emancipatorie e di interpretazioni sociologiche consone. Le condizioni di possibilità ideologiche, economiche sociali, per l’emergenza di Milei vengono da lontano e hanno lasciato segni sul cammino: la più stridente e oggi rieditata nella sua versione peggiore è il “che se ne vadano tutti” del 2001. Uno slogan riformulato in uno scenario trasformato.

Il “ruggito” è quello della democrazia che va in frantumi

Il suono del ruggito non è del Leone ma quello del frantumarsi di un sistema democratico radicato in una società capitalista che funziona con il carburante di quell’ideologia neoliberale partorita dalla dittatura e inoculata da governi più o meno democratici che, con difficoltà, lo seguirono. Attraversa una società di maggioranze di lavoratori informali non riconosciuti, di precariati qualificati e non qualificati con alti redditi esauriti, di ricercatori pauperizzati preoccupati di rimanere in una carriera che ha dimenticato l’obiettivo, di stati disincantati e/o burocratizzati ansiosamente alla ricerca di linea politica, di insegnanti che combattono una battaglia impari di fronte alla presenza schiacciante di nuove tecnologie, di giornalisti professionisti disperati di fronte a informatori in rete che catturano l’attenzione del loro pubblico malnutrito, di giovani frammentati intrappolati in bolle epistemiche, di indebitati colpiti da livelli inediti di inflazione. Li abbiamo incrociati tutti, cercando di non romperci quando salteranno i frammenti della cui minaccia saranno al sicuro i pochi di sempre.

Se qualcosa di quanto detto qui intorno alla neoliberalizzazione della vita può spiegare il tramonto della sociologia stessa, forse anche la sua bellezza può essere ravvivata nella sua rovina: il sapere della determinazione storico-sociale degli individui, l’efficacia del peso delle ideologie, il desiderio di distinzione e la ricerca di status che motiva l’azione, la domanda di giustificazione della disuguaglianza e del merito, l’esistenza di asimmetrie di potere e di denaro, la forza della credenza e la produttività del mito, i rapporti di dominio e le crisi di legittimità, la moralizzazione delle azioni sociali e delle realtà di sfruttamento, alienazione e violenza. Da tempo osserviamo il declino di questa voce nella sfera pubblica. Forse questo breve esercizio servirà per cercare di risuscitarla.

Leggi l’articolo originale, in spagnolo, su Anfibia

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