Non manca mai, ogniqualvolta Donald J. Trump e la Storia (quella con la”S” maiuscola) più o meno tragicamente s’incontrino, una pennellata di ridicolo, un qualche farsesco bagliore, uno strafalcione, un tocco di grottesco che, a suo modo – per quanto in ultima analisi insignificante – costituisca anche una sorta di firma, una “prova d’autore” o, più semplicemente, una classica “trumpata” che, per così dire, rassicura sull’assoluta, genuina autenticità del tutto.
A fare Storia è stata ieri, nel caso specifico, l’incriminazione di Donald J. Trump, primizia assoluta nel corso del (quasi) quarto di millennio trascorso dal glorioso giorno della Dichiarazione d’Indipendenza. Mai prima di ieri un presidente, o ex-presidente era stato messo sotto accusa per reati, diciamo così, “da codice penale”. Ed uno solo, era fin qui finito – peraltro appena per qualche ora – agli arresti. Accadde, rammentano gli annali, nel 1872, quando un agente di polizia mise le manette ai polsi di Ulysses Grant, allora al terzo anno del suo primo mandato, per aver violato, con la sua carrozza a cavalli, i limiti legali di velocità nell’attraversare l’incrocio tra M Street e la 13esima Strada in quel di Washington D.C. .
E questa è la “pennellata” di cui sopra. Nel denunciare, in un susseguirsi di fiammeggianti invettive, l’ingiustizia e la persecuzione di cui si dice vittima, Donald Trump è riuscito a piazzare, giusto in apertura, una cantonata che, non fosse la sua personale storia (in minuscolo in questo caso) ricolma di analoghi svarioni e sgrammaticature – e non fosse, quella medesima cantonata, stata piazzata, in MAIUSCOLO, alla testa di quello che voleva essere un documento da tramandare ai posteri – avrebbe potuto tranquillamente esser archiviato come un banale errore di battitura. “These Thugs and Radical Left Monsters – ha scritto Trump in TruthSocial, il suo personale Twitter – have just INDICATED the 45th President of the United States of America”. Questi teppisti e mostri della sinistra radicale hanno appena INDICATO il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Laddove, ovviamente INDICATED (indicato) sta per INDICTED (incriminato).
Bazzecole? Sicuramente. Ma anche, nella loro trumpiana ridicolaggine, una testimonianza di continuità – Trump è ancora Trump – che vale la pena rimarcare. Quelle che invece – pur essendo anch’esse, per molti aspetti, un segno di tragica continuità – bazzecole non sono affatto sono le ancor imprevedibili (ma quasi certamente negative) conseguenze di questa storica “prima volta”. Che cosa accadrà adesso?
Intanto una considerazione. Donald Trump è stato incriminato ieri per quello che, in assoluto, è il più veniale, controverso e legalmente opinabile dei molti crimini che, in almeno una dozzina di casi, gli vengono imputati. Ovvero: per i 130.000 dollari che, sul finire delle primarie repubblicane del 2016, pagò sottobanco per comprare il silenzio di Stormy Daniels, al secolo Stephanie Clifford, una porno-star con la quale aveva anni prima avuto (circostanza che lui nega) una relazione extraconiugale. Assai lineare sul piano della cronaca – politica o rosa che sia – il caso appare al contrario, sul piano giuridico, contorto ed opinabile in ciascuno dei suoi numerosi tornanti. Tutto ruota, in sostanza, attorno alla legalità, o presunta illegalità, delle vie seguite per pagare quei 130.000 fatidici dollari; e, soprattutto, attorno al modo in cui questa spesa è stata legalmente (o illegalmente) dichiarata. Tutta materia assai volatile. Tanto che non pochi – vedi l’editoriale di oggi sul Washington Post – sembrano convinti che la ‘leggerezza” delle imputazioni possa ora, da un lato, esser di detrimento per gli altri e ben più pesanti conti (tra gli altri: l’assalto “golpista” al Congresso del 6 gennaio 2021, il tentativo di frode in Georgia, l’appropriamento doloso di documenti top-secret) che l’ex presidente e nuovo candidato alla presidenza ancora ha da pagare; e, dall’altro, possa alimentare il “vittimismo sovversivo” con cui Donald Trump si appresta a lanciare, anzi, già ha da alcuni mesi lanciato, la sua campagna presidenziale. E, con il vittimismo, anche il dominio che, in veste di culto personale, Trump continua ad esercitare sul Partito Repubblicano.
Come dimostrato dai molto deludenti risultati delle elezioni di metà mandato, Trump è una zavorra, anzi, è “la” zavorra che, politicamente, moralmente ed elettoralmente, trascina a fondo il Partito Repubblicano. Ma liberarsene è impossibile, perché la zavorra è ormai il Partito. Trump è certo un dente cariato, un “per-dente” verrebbe da dire. Ma è anche un dente non estraibile, perché, se estratto, provocherebbe la morte per emorragia del paziente. Con l’ “indicazione”, o con incriminazione o, ancor meglio, col “martirio” di Donald J. Trump, cadono definitivamente, in casa repubblicana, le – peraltro già flebilissime – speranze di trovare, dopo la sconfitta del 2020 ed i pessimi risultati delle elezioni di metà mandato, un candidato alternativo all’ex presidente. “Davvero il G.O.P. vuole nominare l’unico suo uomo che i democratici sono sicuri di battere nel novembre del 2024?”. Questo, quasi implorante, si era chiesto in un editoriale il Wall Street Journal, paludata punta di diamante dell’impero mediatico di Rupert Murdoch, quando, pochi giorni dopo la batosta del “midterm” Trump aveva presentato – in chiave di personale “vendetta” rispetto al “furto” del 2020 – la sua ri-candidatura presidenza.
La risposta – come testimoniato dall’universale ed indignatissima reazione di tutto il Partito all’incriminazione – è un sonoro ed irreversibile “si”. Trump, un Trump ancor più tenebrosamente immedesimato nel culto di se stesso, un Trump che, in termini sempre più apertamente sovversivi ed apocalittici (“Solo io posso salvare il mondo dalla terza guerra mondiale” ha detto di recente in uno dei suoi comizi”), sarà, nelle vesti di martire e di vendicatore, il candidato repubblicano alla presidenza nel novembre del 2024.
Con quali conseguenze per la democrazia, in America e nel mondo, è tutto da vedere.