Licenza di delinquere per un presidente delinquente

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My name is Trump, Donald Trump. Che cosa accadrà il prossimo novembre non è, ovviamente, dato sapere, ma già è un fatto che, giovedì scorso, al termine del primo dibattito televisivo tra i due pretendenti alla Casa Bianca, pressoché tutti – tanto quelli che, spento il televisore, si sono felicemente addormentati, quanto quelli che, inorriditi, non hanno potuto chiuder occhio – si sono coricati con la netta sensazione che, in virtù della patetica performance del candidato democratico e presidente in carica, Joe Biden, Donald J. Trump avesse compiuto un probabilmente decisivo passo verso la vittoria. Ed a questa quasi-certezza un’altra – e senza quasi – se ne è aggiunta ieri grazie ad una apparentemente interlocutoria, ma a tutti gli effetti storica (nel senso di storicamente mostruosa) sentenza della Corte Suprema.

Quale certezza? Questa: dovesse davvero vincere, Donald Trump potrebbe tranquillamente aprire il suo discorso inaugurale, dal culmine della scalinata di Capitol Hill, riadattando a sé stesso la notissima formula di presentazione di James Bond, il più celebre degli agenti segreti cinematografici. E questo per la semplice ragione che, giusto ieri, quando ancora l’America per bene non aveva asciugato le sue lacrime per gli esiti del dibattito, la Corte ha stabilito, per sei voti contro tre, che il presidente ha, come lo 007 partorito dalla fantasia di Ian Fleming, piena “licenza d’uccidere” o, ancor più correttamente, piena facoltà di commettere qualsivoglia atto che in – chiamiamole così – normali circostanze, la legge considererebbe assolutamente criminale. Il tutto con una sola previa condizione: che quell’atto sia stato dal presidente compiuto “ufficialmente”. Ovvero: nell’ambito delle attribuzioni e dei poteri riconosciutigli dalla Costituzione. In questo caso, afferma la sentenza vergata dal Chief Justice John Roberts – e ripudiata con veementi accenti dai tre giudici “liberal” della Corte – l’autorità presidenziale è “conclusive and preclusive”, definitiva e preclusiva, unica, insindacabile.

Assassinare si può, purché “ufficialmente”

Un esempio, per meglio capire. Se il presidente in carica manda ad assassinare un avversario politico – come, per dire, fece Benito Mussolini con Giacomo Matteotti – potrebbe esser processato e condannato nel caso avesse, all’uopo, usato una banda di sicari prezzolati. Ma sarebbe del tutto immune, il presidente, avesse al contrario, facendo uso dei suoi poteri di commander in chief delle forze armate riconosciutigli dalla Costituzione, commissionato il delitto alle squadre speciali della Marina (quelle, per intenderci, che nel lontano 2011 liquidarono Osama Bin Laden nel villaggio di Abbottabad nel Pakistan). O, ancora, risulterebbe ingiudicabile dovesse ordinare all’aviazione di bombardare la casa della vittima prescelta. In questo caso la sua immunità sarebbe assoluta. O potrebbe essere infranta solo da una condanna a seguito d’un processo d’impeachment. Eventualità, questa, assai remota, essendo necessaria, per tale condanna, una maggioranza dei tre quarti dei senatori, pressoché irraggiungibile considerato che il presidente controlla – in forma di culto personale, nel caso di Trump – più o meno la metà dei senatori.

Una sentenza aberrante? Sicuramente, se considerata fuori contesto. Assolutamente normale, invece, se valutata – come va valutata – alla luce di quella che è la storia di questa Corte Suprema e del “new normal”, della nuova normalità politica prodotta o, più correttamente, rivelata dai quattro anni di presidenza Trump e dalla trasformazione del Partito Repubblicano in, per l’appunto, il culto di Trump. Questa storia StrisciaRossa l’ha già a più riprese raccontata, ma vale la pena di succintamente riassumerla.

Una corte fraudolentemente modellata

La ferrea maggioranza conservatrice (6 a 3) dell’attuale Corte Suprema è stata fraudolentemente modellata negli ultimi otto anni, a misura dell’America più reazionaria e bigotta, grazie ai trucchi da baraccone con i quali, quello che fu per molti anni il presidente repubblicano del Senato, Mitch McConnell, prima impedì a Barack Obama, violando ogni regola procedurale e di pura decenza, di sostituire il giudice Antonin Scalia, deceduto agli albori del 2012, per spianare poi la strada, in analoghe circostanze, alle tre nomine succedutesi nel quadriennio trumpiano. Questa è la Corte Suprema che ha regalato all’America la cancellazione della famosa sentenza Roe vs. Wade che, da 70 anni, garantiva il diritto all’interruzione della maternità. E questa è Corte Suprema che, chiamata a dirigere il traffico nell’intricatissimo incrociarsi di questioni giuridico-politico-etiche che fanno da corollario alla corsa presidenziale, con sfrontata faziosità sta accompagnando per mano Donald Trump verso la Casa Bianca. Come? Prima bloccando, a richiesta dell’imputato, il più importante dei processi criminali che lo riguardano: quello per l’assalto al Congresso del 6 gennaio. Ed ora rispondendo di fatto con un perentorio “sì” alla richiesta di immunità che, a suo tempo avanzata dal collegio di difesa trumpiano, era stata con sdegno respinta – come, per l’appunto, aberrante – da una Corte d’Appello.

La sentenza di ieri non è ovviamente (ancora) una piena assoluzione. Ma è un decisivo rinvio, un prolungamento dei tempi processuali che, ormai con assoluta certezza, impedirà lo svolgersi di un pubblico dibattimento prima delle elezioni di novembre. Meglio: che lo impedirà del tutto, com’è ovvio, dovesse Donald Trump vincere, secondo pronostici, la corsa presidenziale. Ora tutti gli atti tornano alla base acciocché l’accusa li rielabori per dimostrare come e perché i reati imputati a Trump a ridosso e nel corso degli eventi del 6 gennaio del 2021 – vale a dire: la convocazione di una manifestazione di protesta, gli aperti inviti alla violenza, la denuncia di inesistenti brogli e la nomina fraudolenta di falsi candidati per impedire il costituzionale trapasso dei poteri ad un presidente legittimamente eletto – siano stati commessi al di fuori della ufficialità presidenziale. E qui, si presume, si aprirà un confronto a base di tecnicismi giuridici che potrebbe durare mesi. O non durare affatto.

Giustizia rimandata, giustizia negata

Justice delayed, justice denied. Giustizia rimandata, giustizia negata, recita infatti un antico detto. E non è davvero necessario essere raffinati analisti politici per capire come, in questo caso ad esser negata potrebbe, con estrema probabilità, essere non solo la Giustizia, ma la stessa democrazia. Una volta riconquistata la Casa Bianca, Donald Trump non perdonerà sé stesso. Non lo farà perché il perdono o, in questo caso, l’auto-perdono comporta comunque un previo riconoscimento della colpa. Più semplicemente ordinerà al nuovo Attorney General, da lui selezionato tra i suoi pasdaran, d’annullare, in barba alla presunta autonomia dell’ufficio, tutti i processi che, forti di quasi 90 imputazioni criminali, lo riguardano.

Ed è qui che, cancellata qualsivoglia prospettiva di giustizia, si aprirà la stagione della “retribution”. Vendetta, tremenda vendetta, come cantava il Rigoletto. Trump, pur senza cantare, lo ha detto e ripetuto in decine di comizi e di interviste. Non ci sarà pietà per i suoi nemici. Loro hanno usato la giustizia contro di me, io la userò contro di loro. E sebbene si tratti di uno sbruffone, anzi, proprio perché si tratta di uno sbruffone, è davvero il caso di prenderlo sul serio. Trump si muove, parla e pensa come un dittatore. Respira come un dittatore, puzza come un dittatore. Ha persino ufficialmente dichiarato (e ridichiarato con toni che lui definisce “sarcastici”, ma che suonano come inequivocabili e molto mafiose minacce) che un dittatore sarà, sia pure soltanto per il giorno, il primo della sua presidenza, quanto gli basta per “regolare i conti”. E per regolarli, grazie alla sentenza della Corte Suprema, con “licenza di uccidere”.

Non resta che un’arma: quella dell’indignazione

È questo un inesorabile destino? È davvero, la “più antica democrazia del mondo” condannata a scivolare lungo questo melmoso pendio? Parrebbe di sì, guardando i sondaggi e ripensando al triste, spettrale spettacolo dell’ultimo dibattito presidenziale. Qualcuno però ricorda come proprio un’altra “storica” sentenza, quella già citata dell’abolizione della Roe vs. Wade, sia stata, solo un anno e mezzo fa, forse la principale causa della mezza disfatta subita dai repubblicani nelle elezioni di metà mandato. Letta quella sentenza, l’America – quella delle donne in particolare – aveva visto la profondità e l’oscurità dell’abisso e s’era ritratta con orrore.

Potrà accadere di nuovo di fronte al baratro di una nuova presidenza Trump con licenza d’uccidere? Sperarlo non costa nulla, anche se il pessimismo della ragione davanti a sé non scorge, in queste ore, altro che tenebre.

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