“No Going Back”, non si torna indietro. Questo è il titolo del libro che Kristi Noem, governatrice (o governatore, fate voi) del South Dakota, ha appena terminato di scrivere e che, a giorni, sarà disponibile nelle librerie, cartacee ed elettroniche, di tutti gli Stati Uniti. Appartenendo l’opera ad uno dei più tediosi, abbietti e sgradevoli generi letterari – quello delle autobiografie politiche con vista ad elezioni o, nel caso specifico, con vista ad una possibile nomina a vice di Donald Trump nell’ormai prossima corsa alla Casa Bianca – una cosa si può con certezza ed in assoluta tranquillità anticipare: il nome di Kristi Noem non apparirà nella lista degli aspiranti al prossimo Nobel per la Letteratura.
Eppure il libro – essendo alcuni dei suoi più significativi passaggi stati vistosamente anticipati da diversi media – non solo già ha suscitato un incontenibile scalpore, ma ha anche con forza e lugubre trasparenza segnalato un vero e proprio cambio d’epoca o, se si preferisce, un molto trumpiano (e decisamente cagnesco) salto qualità nel campo della propaganda politica (lato di destra). Volendo riassumere in poche righe una fenomenologia storica di estrema complessità, questo si può dire: ci fu un tempo in cui i cani (e talora anche i gatti) regolarmente entravano in quelle squallidamente autocensorie autobiografie da positivi protagonisti, adorabili creature che, dagli autori effettivamente ed ostentatamente adorate, servivano a mettere in risalto – che cosa di brutto potrà mai combinare un tizio che tanto teneramente descrive il suo figlioccio peloso? – la profonda umanità di questi ultimi. Ed a testimonianza di questa tendenza esiste, com’è noto, una produzione letteraria in grado d’occupare l’intera biblioteca d’Alessandria.
Millie, la English Springer Spaniel che i Bush – padre e figlio, quarantunesimo e quarantatreesimo presidente degli Usa – adorarono al punto da regalarle il nome di famiglia (si chiamava, da pedigree, Mildred Kerr Bush) divenne, sul finire degli anni ’80, un vero e proprio bestseller grazie alla penna della First Lady, Barbara Bush, popolarissima moglie di George H. Bush. Ed i proverbiali fiumi d’inchiostro sono con melensa regolarità corsi anche su tutti gli altri “first pets”, i vari animali domestici presidenziali che, negli ultimi decenni, hanno calpestato – e presumibilmente anche da par loro innaffiato – l’erba del Rose Garden della Casa Bianca. Hillary Clinton dedicò libri tanto a Socks, il gatto di casa, quanto a Buddy, il labrador che Bill si regalò rammentando una celebre frase di Harry Truman: “Se vuoi un amico a Washington, procurati un cane”.
E, spingendosi qualche anno addietro, impossibile è non ricordare come Richard Nixon – allora soltanto senatore della California, ma già vice di Ike Eisenhower nella corsa alla Casa Bianca – nascose le sue magagne dietro la dolce immagine di Checkers, un cucciolo di Cocker Spaniel. La storia è, in estrema sintesi, questa. Sul finire del 1952, Nixon finì sotto accusa per avere illegalmente accettato “regali” da molto sospette fonti. E si difese raccontando – in un discorso entrato nella Storia come “The Checkers Speech” – come tra quei regali vi fosse appunto un cucciolo Cocker (Checkers) del quale i suoi bambini s’erano d’acchito innamorati. Mi confesso colpevole, signori della corte. Ma avreste, voi, mai avuto il coraggio di strappare quel tenero cagnolino dalle braccia dei vostri bambini per restituirlo al mittente? Per la cronaca: grazie a Checkers Nixon la fece franca.
Tornando all’oggi ed alla governatrice del South Dakota. Perché tanto scalpore ha suscitato il suo libro? E perché segna un – molto trumpiano – cambio d’epoca? Semplice. Perché Cricket, il cane in questione, anzi, la cagnetta, una Wirehaired Pointer di 13 mesi, nella storia entra non come oggetto d’umano e amorevole affetto o, vedi il caso di Nixon, come un’ancora di salvezza, ma come un cadavere. Più esattamente, come una morta ammazzata. E ammazzata, con un colpo di pistola, dalla medesima Kristi Noem. O meglio: “giustiziata” per una serie imperdonabili delitti: esser troppo vivace, aver inseguito ed accoppato un paio di polli e – orrore! – aver rovinato alla padrona una battuta di caccia. Cricket, scrive Kristi, “era come impazzita, scoppiava di felicità inseguendo tutti quegli uccelli e comportandosi come se quello fosse il giorno più bello della sua vita… Ho odiato quel cane…”.
L’ha odiato e l’ha ammazzato. Come? Sparandogli un colpo di pistola dopo averlo portato in una cava di ghiaia nei dintorni. Il libro non dice se, come si usa in questi casi, l’abbia prima obbligata a scavarsi la fossa. Ma certo è che, se l’ha fatto, Cricket quella fossa l’ha scavata, prima di morire, con la stessa fiduciosa allegria con la quale aveva inseguito “tutti quegli uccelli” durante la battuta caccia il cui fallimento era stato la sua condanna. Né fu, Cricket, l’unica creatura condannata alla pena capitale dalla governatrice del South Dakota, La stessa sorte sarebbe infatti toccata poco più tardi a una capretta la cui terribile colpa era, nientemeno, quella di… puzzare come una capra. “Aveva un odore disgustoso, rancido”, ha scritto la governatrice. Diverso peccato, uguale sentenza e stesso metodo d’esecuzione. Un colpo alla nuca, nella cava di ghiaia…
Grande, prevedibilmente, è stato lo scandalo tra gli animalisti e tra tutti quelli che mai abbiano avuto o tuttora abbiano un cane o un gatto (più di metà della popolazione americana stando a dati della American Veterinary Medical Association). E non pochi sono gli analisti convinti che, con il racconto del suo canicidio (per non dir della capretta), Kristi – che in queste ora va arrampicandosi sugli specchi nel tentativo dare un “volto umano” alle sue imprese nella cava di ghiaia – si sia giocata ogni possibilità d’esser prescelta da Trump come vice.
Sarà così? Non è detto. Con tutta evidenza, Kristi ha raccontato la storia di Cricket, non per masochismo, ma nella convinzione di dare di se stessa un’immagine che, di questi tempi, nel Partito Repubblicano e in tutta la destra, va molto di moda: quella d’una donna molto mascolinamente e rusticamente capace di prendere, pistola alla mano e senza che le tremi il polso – quando ci vuole ci vuole, che diamine! – le decisioni più difficili e dolorose. C’è da sparare a un cane troppo vivace? Lo si fa senza tante storie. Una capra puzza come una capra? Un viaggetto alla cava di ghiaia e ciao. “I veri leader uccidono” aveva del resto sentenziato, solo un paio di mesi fa, al termine d’una intervista genuflessa con un assassino di provata esperienza, Vladimir Putin, uno dei grandi cantori della destra trumpiana, il giornalista Tucker Carlson. Oppositori e cuccioli per me pari sono. Un colpo e via. Del resto lo stesso Trump, primo presidente a non avere alcun “pet”, non ha mai fatto mistero della sua cinofobia. “Dog”, per lui, è soltanto un insulto. Ed un insulto che usa con grande generosità.
Si vedrà. Questo, nell’attesa, è però lecito sperare. Che là dove si trova ora – nei verdi pascoli del cielo, libera d’inseguire pennuti e di rivivere per l’eternità que “giorno più felice della sua vita” che le costò la vita – Cricket sia in grado di vedere e sentire quel che, sulla Terra, si va dicendo della sua storia. Ed anche, se mai accadrà, di godersi la caduta in disgrazia di chi l’ha uccisa. Qualcuno la chiama giustizia divina….