Trump balla, Kamala non decolla, la democrazia tracolla

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Musica, maestro! Non mancano ormai, negli Stati Uniti d’America, che una ventina di giorni al voto del 5 novembre. E davvero difficile – letteralmente difficile – è trovare parole che efficacemente raccontino questo finale di campagna. Anche perché proprio così, senza parole o, meglio, in musica e soltanto in musica, uno dei due concorrenti in lizza, Donald J. Trump, già 45esimo presidente degli USA ed in piena corsa per diventare il 47esimo, sembra aver deciso di rivolgersi all’elettorato.

È accaduto lunedì scorso in quel di Oaks, una non particolarmente ridente cittadina situata nella Contea di Montgomery, in Pennsylvania, nella prima periferia di Philadelphia. Vale a dire: nel dolente cuore di quello che, a detta di tutti gli analisti, è forse il più decisivo tra i cosiddetti “battleground States”, gli Stati “in bilico” nei quali, in virtù dell’assurda aritmetica dei collegi elettorali, si deciderà tra meno di tre settimane una contesa che, imprevedibile ed illeggibile, viene unanimemente definita “a coin in the air”, una moneta nell’aria. È stato qui, nel più incandescente punto del campo di battaglia, che la campagna repubblicana ha “strategicamente” convocato una classica “Town Hall”, una di quelle manifestazioni durante le quali il candidato spiega sé stesso, o finge di spiegare sé stesso, rispondendo alle domande di potenziali elettori che, in realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, altro non sono che seguaci di provatissima fede. O addirittura, come nel caso di Trump, membri veneranti d’un culto messianico.

The Weave, sconclusionato “intreccio” della retorica trumpiana

E giusto questo – una simulazione di contraddittorio – è in effetti stata, per un decina, o giù di lì, di minuti, questo elettorale confronto. Tutto tranquillo, tutto normale, almeno per gli standard delle manifestazioni trumpiane. Domande religiosamente ossequienti, risposte “alla Trump”, divaganti, autocelebrative e perlopiù insensate. Sproloqui che i consulenti di campagna di Trump hanno negli ultimi tempi ribattezzato “the Weave”, l’intreccio, la tessitura, cercando di far passare quella che è l’ovvia testimonianza d’uno stato di confusione mentale per un molto spontaneo e brillante stile oratorio.

Di questo molto peculiare “intreccio”, alimentato da un paio di domandine facili facili, la Town Hall è in effetti vissuta, fino a quando, al termine d’una breve interruzione dovuta al malessere d’uno degli spettatori, svenuto nel calore del Greater Philadelphia Expo Center, Donald Trump non ha di repente deciso, con perentorie parole – le ultime che il pubblico di Oaks avrebbe ascoltato – ch’era giunto il momento di cambiar musica. Anzi: di passare alla musica. “Let’s make it into a music“, trasformiamolo in una musica, ha comandato l’ex e forse prossimo presidente nell’inglese sintatticamente sgangherato che, da sempre, è una sorta di trademark della sua retorica. “Basta con le domande. A chi interessano le domande? Ascoltiamo la musica”.

E, da quel momento in avanti, musica è stata. Musica e soltanto musica. Musica per un presidente che ballicchiava e ancheggiava con la grazia di un orso ubriaco, accompagnato con molto perplesso ossequio – o, più probabilmente, in un malcelato stato di panico – dagli organizzatori della manifestazione. Chi aveva pensato che la cosa si sarebbe risolta con un paio di canzoncine suonate giusto per allentare la tensione d’una emergenza medica, s’era, infatti, sbagliato di grosso.

Per quaranta minuti filati, canzone dopo canzone, nella torrida sala dell’Expo Center non c’è stato altro. Un “altro”, va detto, molto variato e, a tratti – oscurando, ovviamente, le goffe coreografie trumpiane – persino elegante. Da Andrea Boccelli e Sarah Brightman in “It’s Time to Say Goodbye” – titolo, questo, che i più maliziosi tra gli anti-trumpisti hanno subito, con molto prematuro ottimismo, interpretato come rivolta alla speranza di riconquistare la Casa Bianca – a “Rich Man North of Richmond” considerato un classico del MAGA-country, dal “Nothing Compares 2 you” di Sinéad O’Connor , all’ “Hallelujah” di Leonard Cohen, dal “Dixie” di Elvis Presley, al Luciano Pavarotti di “Nessun dorma” (quest’ultimo su esplicita e molto insistita richiesta di Trump). E va aggiunto che, tra un “YMCA” dei Village People (una sorta di inno gay per misteriose ragioni scelto come colonna sonora della molto maschia campagna elettorale di Trump) ed una sequela altri allegri motivetti, c’è stato spazio persino, e con tanto di “bis”, per le angeliche armonie dell’Ave Maria di Schubert.

In presenza di Kristi, l’ammazza-cuccioli

Presentatrice della serata era, per l’occasione, la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, a suo tempo nella “short list” degli aspiranti alla vicepresidenza, assurta agli onori della cronaca mesi fa per il macabro orgoglio col quale, nella sua autobiografia, aveva raccontato come avesse senza esitazioni “giustiziato” a fucilate, in una cava di ghiaia prossima alla sua abitazione, prima un cucciolo di bracco tedesco responsabile di “indisciplina” e, quindi, sorda agli inviti alla misericordia lanciati dalla sua stessa inorridita figliola, una capretta rea d’una ancor più imperdonabile colpa: puzzare, per l’appunto, come una capra. Invano, nonostante questi precedenti di molto virile (trumpianamente virile) determinazione, la Noem ha prima cercato di riportare lo spettacolo nel suo originale alveo e, quindi, constatata l’impossibilità della missione, di chiudere la Town Hall ringraziando e congedando gli astanti. Trump, sovrano e messia, ha voluto godersi (e far godere ai suoi fedeli) la festa fino all’ultima nota. E così è stato.

Il giorno dopo Steven Cheung, capo della campagna elettorale di Donald Trump, ha cercato – con un sottinteso, ma piuttosto chiaro riferimento al precedente evangelico delle nozze di Cana – di presentare l’accaduto come l’ennesima e luminosa prova della genialità politica di Donald Trump, capace di miracolosamente trasformare nel prelibato vino d’una “lovefest”, una festa d’amore, quella che, per eccesso d’amore, era diventata una emergenza medica. “L’eccitazione (per la presenza del messia n.d.r.) era tale – ha scritto Cheung in un comunicato stampa – che la gente aveva cominciato a svenire. Così Trump è passato alla musica”. Hallelujah!

Non molti, fuori dal circolo del MAGA-cult, hanno però bevuto quel vino o, più esattamente, ballato al suono di quella musica. Fox News – catena televisiva di proprietà dei Murdoch e storico megafono della destra più reazionaria – ha steso il più classico dei veli pietosi sulla manifestazione. E molti altri media, hanno interpretato l’improvvisato concertino di Oaks, con Trump nelle inedite vesti di DJ, per quello che in effetti era: l’ennesima prova del deterioramento delle condizioni mentali del settantottenne ex presidente ballerino. Di questo deterioramento – più esattamente, della progressiva trasformazione della retorica trumpiana, già originalmente squinternata, in una sorta di caricatura di sé stessa – già si erano notati i sintomi in quello che, subito dopo l’attentato di Butler, doveva essere, con Donald Trump nelle vesti di messia-martire, l’apogeo della battaglia per la riconquista della Casa Bianca. Ovvero: nel discorso d’accettazione al termine della Convention repubblicana di Milwaukee, da Trump trasformato – dopo una decina di minuti di disciplinata lettura dal teleprompter – nell’anti-climax d’una sorta d’errabondo, noioso ed interminabile (93 minuti, un record storico) minestrone di parole.

Dal minestrone di parole, alla musica senza parole

Dal minestrone di parole, alla musica senza parole. Il tutto per ottenere, cambiato l’ordine dei fattori ed a conferma d’una più globale fenomenologia, il medesimo risultato, Perché così stanno le cose. In questa battaglia per la Casa Bianca negli ultimi mesi tutto è andato cambiando, talora anche in termini drammatici. E tutto è nel contempo restato – gattopardescamente verrebbe da dire – uguale a sé stesso. La corsa era “too close to call”, troppo incerta per qualsivoglia previsione, a fine giugno, prima che il problema della vecchiezza di Joe Biden esplodesse in diretta TV durante un disastroso dibattito col rivale. E “too close to call” era rimasta – a dispetto degli entusiasmi repubblicani e della disperazione dei democratici – dopo quel catastrofico (per Joe Biden) evento. Né i responsi dei sondaggi erano sostanzialmente cambiati dopo che l’attentato di Butler, un chiaro segnale della volontà di Dio secondo i sacerdoti del culto, aveva regalato alla propaganda trumpiana un ulteriore e sfavillante slogan (“fight, fight, fight”, lotta, lotta, lotta) con tanto di santino aggregato (l’immagine del volto insanguinato e del pugno levato di Donald Trump mentre i suoi bodyguard lo allontanavano dal palco).

Cambio di scena. Più o meno discretamente sospinto dal Gotha democratico, il 21 di luglio Joe Biden aveva infine deciso, seppur con riluttanza, di abbandonare una battaglia che, ben oltre le cifre di sondaggi che, ancora, restavano “too close to call”, sembrava ormai scivolare verso una inevitabile sconfitta. Ed al centro della ribalta era calata Kamala Harris. Un’ombra – perché questo era fin a quel momento stata la vicepresidente – che, di primo acchito, altro non sembrava proiettare che un gigantesco punto di domanda. La risposta? A dispetto di molte previsioni, un repentino cambio della inerzia della corsa e dei contrapposti umori politici. Grande entusiasmo nelle fila democratiche e depressione acuta tra i repubblicani, inizialmente conviti che, di Kamala, da loro considerata una Biden in miniatura, avrebbero fatto un sol boccone. Pie illusioni. Adesso, contrariamente alle attese, era sull’opposta sponda che brillava il sol dell’avvenire. Ed erano loro a dover gestire, in casa propria, come un nonnetto fuori controllo, il vecchio rimbambito della storia.

Tutto dentro il “margine d’errore”

Tutto s’era, nel giro di poche settimane, rivoltato come un guanto frettolosamente sfilato. Tutto era cambiato. E tutto, ancor oggi, continua a cambiare. Tutto tranne i numeri dei sondaggi. Kamala ha, dopo il ritiro di Joe Biden, richiamato folle ed applausi. E la Convention di Chicago è a tutti gli effetti stata, a metà agosto, una sorta di inno alla gioia. Tutto, mentre tutto cambiava, è però implacabilmente restato dentro quel nulla statistico che i sondaggisti chiamano “margine d’errore”. Parità, sostanziale fifty-fifty, tanto a livello nazionale quanto – quel che più conta nella illogica logica dei collegi elettorali – nei cosiddetti “battleground States”. A conti fatti, tre su cinquanta: Wisconsin, Michigan e, soprattutto, Pennsylvania. Con Kamala Harris appena davanti e con un Donald Trump negli ultimi giorni protagonista, soprattutto là dove più vale, di una mini-rimonta. Ed il tutto a fronte di sondaggi sulla cui esattezza neppure gli stessi sondaggisti – scottati da un decennio di brutte figure e consapevoli delle crescenti difficoltà di captare, a destra come a sinistra, i veri umori dell’elettorato – sono disposti a scommettere.

Le cronache di questa campagna elettorale ormai prossima al traguardo continuano a regalarci fatti e misfatti, novità, cambi di rotta. Kamala Harris ha, in questi ultimi due mesi, più o meno bene fatto il suo. Ha cercato – oltre la “gioia” della Convenzione di Chicago e perlopiù spostandosi a destra, soprattutto in materia di immigrazione – di definire sé stessa. E giusto ieri non ha esitato, in una dimostrazione di forte carattere, ad affrontare il lupo nella sua tana. In concreto: si è senza rete esibita in una intervista in quel di Fox News, dalla quale è, grazie anche all’intervistatore, uscita piuttosto bene. Non perché Bret Baier, il giornalista incaricato, l’abbia trattata in guanti bianchi, ma per la ragione opposta. Tanto volgarmente ovvia è stata, lungo tutta l’intervista, la sua intenzione di distruggere l’intervistata con toni iper-aggressivi, continue interruzioni e capziosissime domande, che il fatto d’esser giunta al termine di queste forche caudine con qualche livido, ma ancora “alive and well”, viva, in buona salute e dopo aver marcato diversi punti a suo vantaggio, può esser da lei tranquillamente considerato un successo. Chiamatela, se vi aggrada, una vittoriosa prova del fuoco. Superata la quale, tuttavia, Kamala resta quello che era il giorno del ritiro di Joe Biden. Un punto di domanda, un’indefinita sensazione perduta, tra destra e sinistra, in una sorta di terra di nessuna. Un’incognita. Presidenziale, ma pur sempre un’incognita.

Analfabetismo economico

E Trump? Da lui, nel frattempo, soltanto conferme. Al di là delle sue performance musicali, comizio dopo comizio, Town Hall dopo Town Hall, l’ex presidente e messianico candidato repubblicano ha continuato a regalare discorsi sconnessi e, nella sconnessione, anche importanti verità. Solo qualche giorno fa, una sua pubblica intervista con John Micklethwait, direttore di Bloomberg News, di fronte alla molto sofisticata platea del prestigioso Economic Club di Chicago, si è risolta in una imbarazzante (e molto prolungata) testimonianza di vero e proprio analfabetismo economico. Per oltre mezz’ora, nonostante i reiterati inviti dell’intervistatore, Trump non è stato in grado di spiegare in termini appena accettabili come e perché l’epicentro del suo programma economico – un generalizzato e forte aumento di tutte le tariffe doganali destinato a “fare di nuovo grande l’America” – potesse all’atto pratico non tradursi, come insegnano tutti i manuali di economia, in un aumento dei prezzi al consumatore e in una più alta inflazione.

E non molto meglio sono andate, per lui, le cose sul piano più strettamente politico. Ultima perla d’una lunga serie: la sua reiterata promessa di far diretto uso delle forze armate – quelle di cui sarà, nelle vesti di presidente, Commander in Chief – contro “the enemy within”, il nemico interno. Subito premurandosi di precisare, a scanso d’equivoci, mentre i suoi consulenti di campagna s’arrabattavano per mettere una toppa, chi in effetti fosse questo nemico interno. A chi si riferiva, Donald Trump? Alle più violente frange dei cosiddetti “antifa”, che vanno rompendo vetrine e bruciando automobili durante le manifestazioni di protesta (cosa, questa, che sarebbe comunque stata una bestemmia, considerato che la proibizione dell’uso delle forze armate per problemi di ordine pubblico è da sempre uno dei pilastri della democrazia USA)? Macché. I traditori della Patria contro cui l’ex e forse prossimo presidente si propone di lanciare l’esercito una volta tornato presidente, sono in realtà Adam Schiff, moderatissimo senatore democratico della California – colpevole d’avere a suo tempo denunciato le affinità elettive tra l’ex-presidente e Vladimir Putin – e, naturalmente, Nancy Pelosi, la molto combattiva ex-speaker democratica della House of Representatives che, nei quattro anni della sua presidenza, gli dette molto filo da torcere. Schiff, Pelosi e, in sostanza, tutti quelli che a lui s’oppongono.

Soltanto la boutade d’un ciarlatano, o la credibile minaccia d’un possibile presidente al quale una recentissima sentenza della Corte Suprema ha garantito “totale impunità”?

“Un fascista a tutto tondo”

La risposta è arrivata, nei giorni scorsi, da personaggi che del candidato repubblicano hanno una molto diretta e vivida conoscenza. Mark Espen, che di Trump fu segretario alla Difesa, ha invitato tutti, in una intervista su The Hill, a “prendere molto sul serio le parole di Donald Trump”, rivelando come l’idea di usare le forze armate contro i suoi nemici politici sia, in realtà, un vecchio e molto rivelatore pallino dell’ex presidente. E il generale Mark Milley che, regnante Trump fu Chairman dello Stato Maggiore Congiunto delle Forze Armate, non ha sua volta esitato, in una intervista che è parte dell’ultimo libro di Bob Woodward, vecchia gloria del Watergate, a definire Trump “a fascist to the core”, un fascista a tutto tondo.

A questo punto solo si può prender atto – o tornare a prendere atto – d’una semplice verità. Al di là della truce comicità del suo esibirsi, in parole o in musica, ed al di là degli esiti del prossimo voto, Donald Trump è ormai una costante della realtà politica Americana, è il sintomo e non la causa di una epocale crisi della democrazia che, a tutti gli effetti, trascende la corsa presidenziale. Come Frankenstein, il trumpismo è, in realtà, un mostro creato dall’assemblaggio tra antichi morbi – il razzismo, la xenofobia, il fanatismo religioso, tutti alimentati dalle miserie della deindustrializzazione e d’una globalizzazione fuori controllo – e le ambizioni di un tecno-capitalismo (quello degli Elon Musk, oggi gran sostenitore, a parole e a danaro, di Trump, e quello di Peter Thiel, fondatore di PayPal e gran finanziatore della carriera politica di JD Vance) desideroso di “farsi Stato”, liberandosi del fastidioso fardello della democrazia.

Tutto questo considerato, non resta che sperare che l’America ed il mondo non debbano, dopo il prossimo 5 novembre, sperimentare in carne viva questa perdurante verità.  Con un “fascista a tutto tondo” saldamente istallato – e questa volta senza filtri – nella bianca magione di 1600 Pennsylvania Avenue, Washington D.C..

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