Il prossimo 20 gennaio Donald J. Trump, lo stesso Donald J. Trump che quattro anni fa si rifiutò di lasciare pacificamente la Casa Bianca, alla Casa Bianca tornerà, vinte le elezioni dello scorso 5 novembre, da assoluto e stavolta “pacifico” trionfatore. L’uomo che il 6 gennaio del 2021 aveva inflitto alla democrazia americana la più inedita e sanguinosa delle ferite lanciando i suoi seguaci contro Capitol Hill, ha ora riconquistato col voto, quello che, contro il voto – vale a dire: negando con la frode e con la violenza il risultato delle urne – aveva invano tentato di tenersi quattro anni fa. Un uomo la cui avversione o, meglio, la cui estraneità alla democrazia, è ormai da quasi un decennio – e in rossiniano crescendo -sotto gli occhi di tutti, ha ora democraticamente conquistato, anzi, riconquistato la guida del Paese.
Non era scontato che questo avvenisse. Ma scontato era che, anche qualora Kamala Harris fosse – come dalla lettura dei sondaggi pareva possibile – riuscita a prevalere d’un soffio, i risultati elettorali avrebbero comunque riflesso o, peggio, sancito la realtà di una non transitoria, epocale crisi della democrazia americana.
In termini strettamente numerici, Trump ha vinto di misura. Cifre alla mano, molto lontana, infatti, la sua vittoria appare – considerando solo gli anni del dopoguerra – dalle valanghe (landslides) che, a suo tempo, accompagnarono i “cappotti” di Lyndon Johnson su Barry Goldwater (1964), di Richard Nixon su George McGovern (1972) e di Ronald Reagan su Walter Mondale (1984). Più ancora: persino se messa a confronto con il più immediato e diretto precedente – la vittoria su di lui riportata da Joe Biden quattro anni fa – molto modesta appare, sul piano aritmetico, la “rivincita” di Donald Trump. E questo a dispetto del fatto che proprio il suo ritorno in quel di 1600 Pennsylvania Avenue ha oggi, a strettissimo giro di posta, di quella vittoria dimostrato l’intrinseca fragilità. Nel novembre del 2020, Joe Biden aveva conquistato la Casa Bianca vincendo il voto popolare con un vantaggio di sette milioni di suffragi (con 51,7 per cento del totale nazionale e con 4,5 punti di vantaggio sull’avversario). E, nell’obsoleta ed astrusa logica del Collegi Elettorali, aveva conquistato il 57 per cento dei “grandi elettori”, grazie a 150.000 voti di vantaggio in quattro Stati: Michigan, Pennsylvania, Wisconsin e Georgia. Gli stessi Stati (Georgia esclusa) che, nel 2016 avevano garantito, per poco più di 80.000 voti, la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton (la quale, è utile ricordarlo, aveva vinto il voto popolare con un vantaggio di 3 milioni di voti).
Lo scorso 5 novembre Trump ha conquistato il 58 per cento dei grandi elettori, grazie a un modesto spostamento di voti (233.000, poco più dello 0,1 per cento del totale) ancora una volta in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Grazie alla balcanizzata, patetica arretratezza del sistema elettorale Usa, al momento di scrivere quest’articolo, tre settimane e passa dopo la chiusura delle urne, ancora si andavano, qua e là, contando gli ultimi scampoli di voti. Ma ormai scontato era che la percentuale complessiva di quello che Trump si è affrettato a qualificare come “un trionfo mai visto prima”, a livello planetario, fosse destinato a non superare la soglia del 50 per cento, con un finale vantaggio sulla Harris tra l’1 e il 2 per cento. Quasi tutti, prima di questa “vittoria senza precedenti”, avevano numericamente fatto meglio, o molto meglio di lui. Bush padre nell’88, Bill Clinton nel ’92 e nel ’96, George W. Bush nel 2004 e Barak Obama nel 2008 e 2012.
Ed anche altri numeri, non strettamente legati alle elezioni, raccontano un’analoga storia. Prima del voto, i sondaggi registravano, per Donald Trump, indici di gradimento di poco superiori al 42 per cento. Subito dopo la sua trionfale vittoria, questi indici sono faticosamente saliti al 44 per cento. Il tutto a conferma di un’altra – e, in questo caso, anche politica – verità statistica. Donald Trump è, da quando questi numeri vengono calcolati, l’unico presidente che, in termini di popolarità, mai è riuscito a raggiungere la magica soglia di cui sopra. Quella, per l’appunto, del 50 per cento. Al di sotto di questa linea fatale era infatti rimasto – ondeggiando tra il 37 e 45 per cento – lungo tutti i suoi quattro anni di presidenza. Lì – in questi non propriamente luminosi spazi – ancor oggi si trova, mentre con piglio ormai decisamente “imperiale” va celebrando la riconquista della Casa Bianca. E lì sembra destinato a restare nei giorni che verranno.
Una vittoria “piccola”, ma devastante
E tuttavia, striminzita come dalle cifre è raccontata – e a dispetto della perdurante impopolarità del vincitore o, paradossalmente, proprio in virtù della sua perdurante impopolarità – la vittoria di Donald appare, per le sue conseguenze politiche e storiche (epocali, per l’appunto) assolutamente devastante. Le “valanghe” delle passate elezioni segnalavano, infatti, sismici spostamenti – “realignments” vengono definiti nel politicese made in USA – tra forze politiche che comunque, sia pur da molto distanti posizioni e con molte e molto premonitrici zone d’ombra, ancora si riconoscevano in comuni valori democratici. Questa volta invece – e poco importa per quanto – ha vinto l’antidemocrazia. Ed ha – poco importa quel che dicono i numeri – vinto in tutti i sensi: politico, sociale, etico. La vittoria di Donald Trump è il punto d’arrivo di un lungo processo, l’esplodere d’una epidemia il cui virus sempre è circolato, più o meno dormiente, nelle vene della “democrazia più antica del mondo”. È una malattia antica, ora diventata cronica. E non solo: questa vittoria in realtà rappresenta molto di più – e di molto peggio – d’un semplice prevalere dell’antidemocrazia. Rappresenta la sua normalizzazione, la sanzione del suo status di permanenza. Per la prima volta – peggio, per la seconda, ignorando le lezioni della prima – l’America ha eletto (di nuovo: poco importa per quale margine) un presidente non democratico. O più esattamente – volendo ribadire le inequivocabili parole spese dal generale Mark Milley, capo degli Stati Maggiori Congiunti ai tempi della prima presidenza Trump – ha eletto alla Casa Bianca “a fascist to the core”, un fascista nel più profondo dell’anima. Come e perché?
Le regole d’ogni buon romanzo giallo ci insegnano che per cogliere appieno le ragioni ed i meccanismi d’un crimine occorre sempre tornare su luogo del delitto. O, nel caso di questa statisticamente mingherlina, ma storicamente plumbea tornata elettorale, nel punto in cui meglio si possono identificare i resti non ancora cadaverici, ma certo agonizzanti della democrazia americana, il luogo dove è stata scritta la pagina di cronaca che meglio può raccontarci, ribaltando la logica della famosa favola, quanto brutta – la più brutta del reame, o della storia patria – sia, per la democrazia americana e non solo americana, l’ultima vittoria di Donald Trump.
Nel corso d’una campagna elettorale vissuta in bilico tra il messianesimo del messaggio (solo io posso salvare l’America e il mondo dalla distruzione) e la divagante demenzialità della sua retorica (quella che lui stesso, orgogliosamente sfidando il ridicolo, ha definito “the weave”, la tessitura, ovvero, l’intreccio che nel nulla contiene il tutto), Donald Trump ci ha regalato una molto ampia possibilità di scelta. Ma è probabilmente nella cittadina di Springfield, nella contea di Clark, nello Stato dell’Ohio, che meglio si può cogliere il senso delle cose, la tenebrosa profondità della crisi di identità e di valori di cui la vittoria di Trump e del trumpismo – vale a dire, di Trump oltre Tramp – è l’espressione ultima.
È stato infatti a Springfield che, sul finire della campagna, è nata – e probabilmente vivrà in eterno, tramandata dagli annali come perdurante esempio di indecenza politica – la più “bestiale” delle molte false notizie messe in circolazione durante la campagna presidenziale. Bestiale nel più letterale dei sensi, visto che proprio di cani e di gatti, nonché di anatre, raccontava. A metterla in circolazione era stato, per primo, J.D. Vance. running-mate di Donald Trump e senatore dell’Ohio, secondo il quale, stando ad angosciate denunce dei suoi elettori, una turpe e barbarica pratica andava sconvolgendo l’un tempo placida e ordinata vita della cittadina. Immigrati haitiani (tutti neri, nerissimi, anzi, peggio, tutti provenienti, parole di Trump, da uno “shithole country”, un paese del buco del culo ) andavano sequestrando e divorando, presumibilmente ancor vivi, i cani ed i gatti di proprietà della bianca popolazione indigena. E, non contenti, la medesima sorte avevano riservato alle anatre che, prima del loro arrivo in città, liberamente e allegramente andavano nuotando nel laghetto del parco locale.
La notizia era falsa. Tanto palesemente e grossolanamente falsa da sgonfiarsi – e sgonfiarsi nel ridicolo – nel giro d’un paio d’ore. Nessun sequestro di cani, gatti o anatre. Nessun atto di cannibalismo contro i poveri animali. Tutto era nato dalla denuncia di una signora che, spaventata per la scomparsa del suo cagnolino – quasi subito ritrovato libero e scodinzolante – aveva per qualche ragione (pregiudizio razziale?) ipotizzato un rapimento a fini, chiamiamoli così, alimentari. Quella che J.D. Vance aveva con tanto affettata indignazione diffuso era, semplicemente, una menzogna. Ma come tutte le menzogne – anche le più volgarmente strumentali, come nel caso – aveva una sua base reale. Springfield era (è) davvero un luogo di molto intensa e rapida immigrazione, quasi per intero composta da haitiani. In tutto 12 o 15mila anime aggiuntesi, nel giro d’una manciata d’anni, ad una cittadina di poco più di 70mila abitanti. Di fatto, una città – “altra” e “diversa” – dentro la vecchia città. Più che abbastanza per scombussolare, in un ovvio shock culturale e sociale, panorami e abitudini, mettendo sotto pressione tutte le pubbliche strutture: scuole, ospedali, traffico, servizi d’ogni genere.
Come e perché gli haitiani sono arrivati a Springfield
Che l’arrivo degli haitiani abbia, in quel di Springfield, prodotto una crisi è un dato di fatto. Ma non è affatto stato, quell’arrivo (o quella barbarica “invasione”, volendo usare le parole di Vance), il prodotto di una crisi. È stato, all’opposto, la conseguenza di una rinascita. O, più concretamente, di un molto repentino “boom” economico. Breve riassunto della storia. Springfield è, ormai da molti decenni – diciamo da quando, regnante Reagan e all’ombra d’una incalzante globalizzazione dell’economia mondiale, si è avviato il processo di deindustrializzazione del Midwest – parte integrante di quella che va, da allora, sotto il nome di “rust belt”. Ovvero: la cintura della ruggine, ossidata e scheletrica come le fabbriche che, una dopo l’altra, hanno chiuso i battenti, impoverita e alienata, derubata della sua storica identità “blue collar”, operaia. Grazie a una politica di incentivi economici praticata dalla locale Camera del Commercio e, ancor più, in virtù dei sussidi decretati dalle politiche economiche del governo Biden – sì, dalle tanto deprecate politiche economiche del governo Biden, quelle che stando alla più diffusa delle attuali narrazioni ha suscitato la furia castigatrice di classe media e lavoratori – una serie di nuove attività manifatturiere e, ancor più, di servizi hanno, negli ultimissimi anni, riacceso una luce che sembrava essersi spenta per sempre.
È in questo quadro o, se si preferisce, sotto questa luce che gli haitiani sono – nella stragrande maggioranza in forma assolutamente legale, con visto temporaneo per rifugiati – arrivati a Springfield. Tutti, o quasi, reclutati da agenzie specializzate e destinati a coprire posti di lavoro che, indispensabili per non tornare nelle tenebre, sarebbero altrimenti rimasti vacanti.
A rivelare questa semplice verità avevano immediatamente provveduto, in non equivocabili termini, tanto il governatore dell’Ohio, Mike DeWine, quanto il sindaco di Springfield, Rob Rue. Entrambi repubblicani ed entrambi concordi su due essenziali punti. Il primo: nel definire “garbage”, spazzatura, le voci riguardanti i sequestri, con pasto allegato, di cani, gatti ed affini. E, secondo punto, nel reclamare la fine d’una campagna di frottole – quella, per l’appunto, innescata dalla “sdegnata” denuncia di J.D. Vance – che andava creando ulteriori e pericolose tensioni in una comunità già immersa in un difficile processo di integrazione. Nelle ore e nei giorni che a quella denuncia erano seguiti, molte scuole, specie quelle più frequentate dai figli degli haitiani, avevano dovuto chiudere i battenti per minacce di attentati. Ed un clima di paura s’era impadronito di quella cittadina improvvisamente finita, a causa d’una menzogna, sotto i riflettori di tutte le cronache politiche. “Gli immigrati – aveva perentoriamente dichiarato Rob Rue – sono brava gente, gente benvenuta, che lavora e che si va integrando nel tessuto sociale della città. Nessuno di loro mangia cani o gatti. E nessun pericolo corrono le anatre che popolano i nostri parchi”. Basta con le menzogne.
Storia finita (e finita, com’è giusto, nel ridicolo)? Macché, storia appena cominciata. Perché una settimana più tardi – quando nessun dubbio, ormai, poteva sussistere sull’assoluta, grottesca falsità del racconto – la notizia era stata ripresa, con molto ostentata enfasi, da Donald Trump nel bel mezzo del suo dibattito televisivo con Kamala Harris. Il tutto, ovviamente, a terrificante conferma dei distruttivi effetti d’una immigrazione, anzi, di una aliena invasione di “stupratori, assassini, delinquenti e malati mentali “. Tutti, senza eccezioni, inviati negli Usa, con il complice consenso dell’Amministrazione Biden, svuotando le carceri e i manicomi dei paesi d’origine e con il dichiarato obiettivo di “avvelenare il sangue della Nazione”.
La menzogna come prova di amor patrio
Questo aveva detto Trump, di fronte ai milioni di americani sintonizzati su quello che sarebbe poi stato l’unico dibattito presidenziale prima del voto. E questo Donald Trump e J.D. Vance hanno fino al giorno del voto continuato a ripetere, non solo indifferenti al ridicolo e alle smentite, ma pronti anche ad esibire come una medaglia all’onor patrio, l’indecenza del proprio mentire. Come assai bene, nel bel mezzo della sceneggiata, s’è premurato di spiegare J.D. Vance, l’uomo che di quella storia di cani e gatti poteva vantare (e di fatto apertamente vantava) la paternità. Se per denunciare le sofferenze che l’immigrazione causa alla popolazione dell’Ohio e in tutta la Nazione, fosse necessario continuare a riferire storie che risultano poi solo parzialmente vere – aveva con piccatissimi toni precisato il prossimo vicepresidente in una intervista televisiva – questo lui avrebbe eroicamente continuato a fare nel nome, non solo dell’interesse nazionale, ma anche della libertà di parola oggi tanto gravemente minacciata dalla censura della dominante ed elitaria cultura “woke”. Mentire è un sacro diritto sancito dalla Costituzione, anzi, è la vera base della libertà di espressione. Denunciare la menzogna è, invece, censura, oscurantismo. Anche di queste cose è fatto il trumpismo.
Non solo per cani e gatti Springfield era, nel corso della campagna elettorale, assurta agli onori della cronaca per poi restare, con esemplari fattezze, nella storia di queste “epocali” elezioni presidenziali. Un paio di settimane prima che J.D. Vance diffondesse la frottola degli haitiani “pet-eaters”, un auto – guidata da un haitiano poi risultato senza patente – s’era scontrata con uno scuola-bus carico di bambini, uno dei quali era per questo deceduto. E subito la sua morte era stata – sempre da J.D. Vance – denunciata come ennesima prova della vocazione omicida, non solo degli haitiani, ma – come sopra – di tutti i “delinquenti assassini e malati di mente” che, protetti dal governo, violano in massa le frontiere della Nazione. “A Springfield – aveva dichiarato l’uomo da Trump prescelto come suo vice – un bambino è stato assassinato da un individuo che a Springfield non avrebbe dovuto esserci”. E che invece a Springfield c’era, grazie alla nefasta politica di frontiere aperte – un vero e proprio tradimento della Patria – praticata dalla coppia Biden-Harris.
Springfield come specchio dell’America tutta, metaforica rappresentazione della tragedia d’un Paese che, come Donald Trump è andato ossessivamente ripetendo nei lampi di luce (o di tenebre) che a tratti accendono il sempre più senilmente brumoso divagare delle sue “tessiture”, si trova ormai, nella sua interezza, in uno “stato di occupazione” che ormai reclama, impone, una vera e propria “guerra di liberazione”. Springfield come territorio da rivendicare, da riconquistare nel nome di Dio e d’un America che vuole, di nuovo, ritornare grande. Grande e bianca. Era su questa base, sull’onda dell’indignazione per la morte di quel bambino, che la falsa notizia dei cani e dei gatti (per non dir delle papere) aveva navigato prima (per poche ore) come clamorosa rivelazione, e poi (appena effettuate le prime verifiche) come la più sfacciata delle fake news. Ed era stato qui, in questa Springfield che Nahtan Clark, il padre del bambino morto (Aiden era il suo nome) aveva infine preso la parola.
“Mio figlio – aveva detto Nathan nel corso d’una pubblica riunione della Springfield City Commission – non è stato assassinato. Mio figlio, nostro figlio, è stato accidentalmente ucciso in un incidente stradale da un immigrato haitiano. Ed è una vergogna che oggi il suo nome venga usato per seminare rancore e separazione”. Se Trump o Vance vogliono continuare “a vomitare odio contro gli immigrati o raccontar balle a proposito di mangiatori di cani e gatti – aveva aggiunto Nathan – facciano pure, e si assumano la responsabilità delle loro menzogne. Ma non si premettano di farlo nel nome di Aiden Clark, di Springfield, Ohio…”.
Dalla menzogna all’infamia
Trump e Vance (davvero il caso di segnalarlo?) si sono permessi. Lo hanno fatto ripetutamente e, facendolo, hanno con assoluta e molto trumpiana naturalezza varcato – impunemente, anzi, vittoriosamente varcato – il confine che separa una semplice menzogna da una menzogna con infamia. La vera fine – la vera, amarissima lezione, se vogliamo – della “emblematica” storia dei cani e dei gatti di Springfield è infatti proprio questa. Trump e Vance hanno vinto. Hanno vinto sul piano nazionale. E hanno vinto anche là dove, impietosamente denudate dalle parole di un padre che aveva perso un figlio, più nitide erano emerse, con la didascalica chiarezza d’un foglio di istruzioni per l’uso, o, peggio, con la tragicomica forza d’una caricatura, tutte le componenti filosofiche ed umane del trumpismo: la sua amoralità, la sua ipocrisia, la sua basilare indecenza, la sua arroganza, l’odio al servizio del razzismo e della xenofobia. I numeri ci dicono, infatti, che nella Contea di Clark – quella che ha in Springfield il suo più grande centro abitato – Donald Trump è prevalso con il 64,2 per cento dei voti. Il 3,1 per cento in più rispetto a quattro anni fa, e il 2 per cento in più rispetto al 2016. Poca roba, pallottoliere alla mano. Poca, ma politicamente ingigantita proprio dalla menzogna e dall’infamia di chi ha vinto. A Springfield, Ohio, Donald Trump ha, al di là dei numeri, vinto contro tutto e contro tutti. Ridicolo compreso. Ha vinto a dispetto della propria impopolarità. Ed ha vinto, tornando al perentorio giudizio del generale Mark Milley, esibendo senza riserve la sua “anima fascista”.
Dopo quattro anni di presidenza chiusi con il più grave attacco al sistema democratico e dopo una campagna lungo la quale, ad ogni passo, è tornato a mostrare la sua sempre più senilmente sgangherata vocazione autoritaria, Trump è giunto a quest’ultimo appuntamento elettorale più forte – e forte d’una forza stabile, destinata a durare – di quanto fosse nel 2016, e nel 2020. Più forte e infine vincente. Com’è stato possibile?
L’analisi del voto ci rivela due verità. La prima delle quali è, molto più che una rivelazione, una conferma. Trump e il trumpismo hanno vinto perché sono l’ormai irreversibile punto di arrivo della mutazione genetica di una metà del molto rigidamente bipolare sistema politico americano. Ovvero: del Partito Repubblicano. Quello che nacque 170 anni fa come partito di Abraham Lincoln (e dell’opposizione alla istituzione della schiavitù) e si è oggi trasfigurato nel partito del culto di Donald Trump, un molto melmoso miscuglio di fondamentalismo messianico, nazionalismo cristiano, nativismo, complottismo nostalgico. Di fatto il punto di convergenza e di consolidamento antidemocratico di correnti – o controcorrenti – che hanno, fin dalla sua nascita, accompagnato la storia degli Stati Uniti d’America.
Nata su basi egualitarie e illuministe, ma alimentata da un’economia in parte sostanziale basata sulla schiavitù – quella che i padri fondatori eufemisticamente chiamarono “la peculiare istituzione” – la “più antica democrazia del mondo” sempre si è trascinata appresso, in una irrisolta dialettica, il proprio contrario, una sempre presente scia di razzismo e xenofobia, aperta al fanatismo religioso e strutturalmente antidemocratica. È, quella di questo “contrario”, una storia lunga, continuata e, per buona parte, istituzionale. Come istituzionale fu, alle origini, lo schiavismo. E come istituzionali furono, in seguito, la segregazione razziale negli Stati del Sud e le molte leggi “anti-stranieri” che, nel corso d’un quarto e passa di millennio, hanno scandito la Storia di quello che nella sua parte migliore, e non senza molte buone ragioni, ama definire sé stesso “un paese di immigrati”. Non fu forse proprio Adolf Hitler a tessere, nel suo “Mein Kampf”, sperticate lodi per il Johnson-Reed Act del 1924 (per la cronaca: ufficialmente abolito solo nel 1965, regnante Lyndon Johnson, come risposta alla battaglia per i diritti civili) che su basi apertamente razziste ed eugenetiche – evitare “the mixing of races”, la mescolanza di razze era il suo scopo dichiarato – stabiliva “quote” tese a drasticamente limitare l’immigrazione dal Sud e dall’Est Europa (o, volendo ricorrere all’elegante gergo trumpista oggi vittorioso nelle urne: dagli “shithole countries”, i paesi del buco del culo di quei tempi).
Molto lunga – lunga, per l’appunto, quanto l’intera esistenza degli Stati Uniti d’America – è la storia di questa trasfigurazione. E molte sono le tappe per la quale è passata. Dal nativismo anticattolico del “Know Nothing Party” della metà del 19 secolo, al Ku Klux Klan, dalle simpatie fasciste dell’American Legion e di altre “patriottiche” organizzazioni negli anni ’20 e ‘30, alle due successive ondate del “Red Scare”, dal maccartismo alla John Birch Society, fino ad arrivare alla “southern strategy” di Richard Nixon, fino al Tea Party e, per l’appunto, al culto di Trump. O, come qualcuno l’ha definito, al fascismo senza fascisti. Anzi: senza fascista, con ovvio riferimento a quello che, del movimento, è il Grande e messianico Leader.
Trump non è fascista. Fascista è il trumpismo
Donald Trump non è un fascista – sostiene questa scuola di pensiero – perché nessuna filosofia o idea politica, nessun modello di vita, nobile o aberrante che sia, può sopravvivere in uno spazio per intero occupato dall’ipertrofico (ed inevitabilmente ridicolo) ego del soggetto in questione. Per Donald Trump tutto comincia e tutto finisce con Donald Trump, tutto si consuma e svanisce in questo totale vuoto intellettuale. Donald Trump è, da qualunque punto di vista lo si osservi – politico, ideologico, culturale o etico – soltanto una narcisistica tabula rasa, un habitat celebrale all’interno del quale solo Donald Trump può respirare e tirare a campare. E proprio per questo – opina, in termini solo apparentemente illogici, questa teoria del trumpismo – Donald Trump è un fascista. O meglio: è proprio per questo che il movimento semi-religioso che a lui fa riferimento è fascista. Perché è in questo spazio vuoto, e grazie al vuoto, che, lungo percorsi tutt’altro che facili da ricostruire, hanno potuto negli ultimi otto anni aggregarsi, in forma di culto personale, correnti di pensiero, antiche paure, nuove ambizioni, risentimenti, tossine politiche e veleni ideologici – la xenofobia, il razzismo, il fanatismo religioso , per l’appunto – che, da sempre, come contraltare ai principi di eguaglianza che l’hanno fondata – “We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal…” – scorrono nelle vene d’America. Riassumendo: Trump non è, almeno originalmente, un fascista. Non può esserlo. Ma fascista è di certo il trumpismo.
Quale che sia la soluzione del rebus – vale a dire: quale che sia la corretta analisi delle ragioni per le quali una tanto mediocre e per molti aspetti grottesca figura è diventata, non solo punto di riferimento, ma anche un oggetto di culto e d’un culto fascisteggiante – un fatto è certo: il trumpismo è un elemento fisso, durevole della politica americana. E, votato da una maggioranza degli americani, è anche, dallo scorso 5 di novembre, una forma di potere democraticamente stabilito. Come e perché – e qui viene la seconda verità che i risultati elettorali hanno, sia pur in molto più contradditori e nebulosi termini, definito – tanti americani, di fatto una maggioranza, hanno votato per un personaggio che, al di fuori del tempio, nessuno ama? Più esattamente: come ha potuto quello che resta, a tutti gli effetti, il più impopolare presidente della storia degli Stati Uniti d’America (almeno da quando la impopolarità viene statisticamente misurata) tornare da trionfatore, grazie al voto, alla Casa Bianca?
Dalle urne escono due, non uniche, ma fondamentali e largamente prevalenti ragioni: l’immigrazione e l’economia, l’una all’altra connesse da un acuto desiderio di cambiamento. In sostanza: pur non amando Trump – i cui indici di gradimento restano, è bene ripeterlo, ben al di sotto del 50 per cento – molti, seguendo una tendenza post-pandemia pressoché universale, l’hanno votato, in primo luogo perché non era al governo. E, in secondo luogo, perché, per quanto sgradevole fosse ai loro occhi e alle loro orecchie, lo ritenevano meglio attrezzato per risolvere i problemi della immigrazione e di una economia percepita – a dispetto di dati dagli economisti accolti con applausi – come in pessimo stato. Molto diversa, evidentemente, è la realtà che si vive nei corridoi dei supermercati o alle pompe di benzina, rispetto a quella misurata negli “appositi uffici”.
Terza, non dichiarata, ma non per questo meno importante ragione: il divorzio di una rilevate parte dell’elettorato – rilevante e non strutturalmente trumpista – dalla democrazia. Solo così si può compiutamente spiegare il voto per Trump. Così e con il fatto che, paradossalmente – come molte inchieste rivelano – a vantaggio di Trump ha giocato il fatto di essere Trump. Ossia: il fatto d’essere universalmente e del tutto legittimamente considerato un patologico bugiardo. Pochi, in sostanza, sembrano credere che Trump davvero farà quel che dice di voler fare. Il che spiega perché, in questa tornata elettorale abbia guadagnato voti in praticamente tutti gli strati sociali ed etnici. Compresi quelli – i maschi latinos e afro-americani, in particolare – che più hanno ragione di identificarsi con le turbe di “stupratori, delinquenti e malati mentali” contro la cui “invasione” Trump si prepara, evidentemente non creduto, a lanciare una “guerra di liberazione”.
E qui viene la domanda di fondo. Quanto fascista sarà, ora, la politica del fascista Trump? O, mettendo da parte un aggettivo (fascista, per l’appunto) che può, in ultima analisi, risultare fuorviante: quante delle cose che Trump ha detto che farà diventeranno parte di una effettiva, palpabile politica? Davvero deporterà – cosa che molti esperti ritengono non solo crudele ed economicamente dannosa, ma anche praticamente impossibile – 15 milioni di immigranti illegali? O il tutto finirà come il famoso muro da Trump preconizzato nel 2016 – sì, quello che, doveva percorrere tutti i 3.000 e passa chilometri della frontiera Sud e la cui costruzione doveva esser pagata dal Messico – poi rimasto, per un 99 per cento una pura chimera? Davvero rimodellerà a sua immagine e somiglianza – come con molto giacobino piglio delineato nella sua “Agenda 47” o, ancor più in dettaglio, nel “Project 2025” della Heritage Foundation – quello che lui ed i suoi più prossimi “suggeritori politico-filosofici” amano chiamare il “deep State”, lo Stato profondo? O, più propriamente quelle che, in una democrazia, sono le neutrali strutture burocratiche che, a prescindere dal segno politico del potere esecutivo, garantiscono il funzionamento dello Stato?
Elon Musk, nominato “first buddy”, il primo compare
Un aspetto della molto magmatica e variopinta coalizione di forze che intorno a lui – al suo vuoto morale e politico – si è concentrata, spinge a credere che così sarà. Non solo per ragioni di personale vendetta, come da lui ripetutamente annunciato. O, ancor meno, per motivazioni ideologiche – nulla, già lo si è detto, è più estraneo a Trump della ideologia, quale che sia il suo colore –, ma per le più pratiche delle ragioni, quelle che, di norma, si misurano in danaro. Questo, almeno è quel che si deduce dalla grande ed eclatante visibilità che, specie nella parte finale della campagna elettorale di Trump, ha assunto Elon Musk, ultimo e molto appariscente prodotto del nuovo e più avanzato capitalismo tecnologico.
Musk – che secondo Forbes è oggi anche l’uomo più ricco del pianeta – non solo ha direttamente versato nelle casse della campagna di Trump un’enorme quantità di denaro – oltre cento milioni di dollari – ma ha anche di fatto condotto di persona, muovendo un piccolo esercito di propagandisti a libro paga (il suo libro paga), quello che va sotto il nome di “ground game” (il classico porta a porta) in tutti i cosiddetti “battleground States”, gli Stati in bilico. E questo non disdegnando metodi – tra gli altri una riffa giornaliera da un milione di dollari, da estrarre a sorte tra tutti coloro che, in quella medesima giornata, si erano, da lui invitati, registrati per votare, che hanno emanato, specie in Pennsylvania, un molto distinto profumo o, meglio, fetore di banane. Banane, ovviamente, nel senso della omonima e metaforica repubblica.
Così come di banane è andato (e va) sempre più profumando “X”, un tempo noto come Twitter, dal medesimo Musk acquistato due anni fa per 44 miliardi di dollari (cinque volte quello che, secondo Wall Street era il suo vero valore di mercato) e trasformato, nel nome di una “assolutista” difesa della libertà d’espressione, in uno strumento di propaganda trumpiana. È stato tra l’altro proprio attraverso “X” che Musk ha di persona provveduto, nell’ultima coda della campagna, a diffondere un’ampia serie di fake news in merito a inesistenti tentativi di frode elettorale. Giusto nel caso – tutt’altro che remoto stando alle previsioni della vigilia – che Kamala Harris fosse uscita, come Biden nel 2020, vincitrice dalle urne.
Da Trump nominato “first-buddy”, il primo compare, Elon Musk è stato in chiusura di campagna – ed ha continuato ad essere dopo il trionfo elettorale – una costante presenza al fianco del capo del culto. E da quest’ultimo ha ricevuto – insieme a Vivek Ramaswami, un altro manager tecnologico buttatosi in politica (ha partecipato senza successo alle primarie repubblicane) – l’informale incarico di riformare lo Stato. Obiettivo dichiarato: tagliare rami secchi e risparmiar danaro, recuperare produttività e efficienza, generare infine lo storico, indispensabile upgrade d’un software – così ha scritto uno dei più entusiasti sostenitori dell’impresa – la cui prima versione, la 1.0, risale all’anno 1776. Per questo, già oggi, mentre ancora è Joe Biden a sedere al “resolute desk” dell’Ufficio Ovale, Trump e il suo “primo compare” hanno annunciato la creazione di una nuova agenzia di governo: il DOGE, Department of Government Efficency.
Elon Musk non è un teorico. O, per meglio dire, non ha mai accompagnato le sue attività imprenditoriali, pur alimentate da magnificenti visioni di un futuro marcato da grandi avanzate tecnologiche e da conquiste spaziali, con la definizione d’una specifica ideologia. Cosa che invece, negli ultimi tre lustri, ha sistematicamente fatto, con meno appariscente ma assai concreta presenza, Peter Thiel, altro luminoso prodotto della Silicon Valley che, insieme a Musk, ha a suo tempo fondato PayPal, la grande ed oggi semi-monopolistica impresa di pagamenti on line. Peter Thiel aveva, già nel 2016, preso apertamente le parti di Donald Trump, da lui individuato come l’uomo del futuro. E, per analoghi motivi, negli ultimi anni ha anche lautamente finanziato la carriera di J.D. Vance. L’una e l’altra cosa nel nome di una precisa idea politica: quella della obsolescenza della democrazia, dell’ormai insanabile contraddizione tra il governo del popolo e quella che lui – in linea con il libertarismo capitalista, o capitalismo radicale o, nei casi più estremi, anarco-capitalismo – chiama “liberty”, libertà. Ovviamente identificata con la non interferenza statale sull’unico diritto – quello di proprietà – che davvero conta, perché è da lui che ogni altro diritto deriva.
La democrazia come ostacolo della libertà (dei miliardari)
Questo ha scritto Thiel nel suo “The education of a Libertarian” pubblicato nel 2009, libro nel quale apertamente ripudia ogni forma di suffragio universale – con una particolare avversione per il voto concesso alle donne –, di fatto propugnando la creazione d’una nuova e preilluministica aristocrazia tecnologico-imprenditoriale. In sostanza: la privatizzazione di ogni pubblica funzione. Il tutto nella più “rivoluzionaria” logica d’un capitalismo che, nella sua “fase estrema”, si fa finalmente Stato. Non più una persona un voto, come impone la democrazia, ma un’azione un voto, come in ogni “corporation” che si rispetti. Non sono idee nuove quelle di Thiel. Anzi: non sono che la conferma di quello che, alla luce della Storia, appare come il comune, inevitabile e molto triste destino di tutto il capitalismo radicale e anarco-libertario, da un lato nutrito da un semireligioso, misticamente tecnologico ed autoreferente culto del futuro, e, dall’altro, pronto ad incontrarsi, in un rapporto di affinità elettive, col più remoto e, spesso, oscurantista passato.
La storia è nota. Fu alla corte grondante sangue di Augusto Pinochet, in Cile, che i Chicago Boys di Milton Friedman, andarono, con il suo consenso, a sperimentare le idee del maestro. Cosa che, in parte, in una ostentata visita a Santiago, fece poi anche Friedrich von Hayek. David Friedman, figlio di Milton ed autore di “The Machinery of Freedom” considerato un classico dell’anarco-capitalismo, ha poi finito, saltando a piè pari illuminismo e umanesimo, per teoricamente individuare nel medioevo islandese – dove la legge veniva privatamente amministrata in ogni suo aspetto – la più pura fonte di ispirazione per l’avvenire del mondo. Murray Rothbard, l’economista ultralibertario al quale si deve l’invenzione del termine “anarco-capitalista”, nel 1992 ha terminato la sua parabola, dopo aver sposato ogni forma d’oscurantismo (da lui definito “paleolibertarismo”) tra le braccia del K u Klux Klan di David Duke…È attraverso il filtro di queste idee, che annunciano il sol dell’avvenire guardando alla notte dei tempi, che meglio si può capire il senso ultimo non solo del DOGE e del rapporto d’amorosi sensi tra Trump e Musk, ma anche quello, più complessivo, del voto del 5 novembre. O, se si preferisce, del fascismo – se così vogliamo chiamarlo – che da quel voto è scaturito. Specie se si considera che una rilevantissima parte delle imprese da Musk fondate e dirette – Tesla, SpaceX ed altre – dipendono per centinaia di miliardi di dollari, proprio dai sussidi e dalle commissioni dello Stato che devono riformare.
Ed è qui che, di nuovo, torna il sentore acre delle banane. O meglio, quello antico della più vieta, classica e – nonostante le futuristiche visioni di Musk – tradizionale corruzione. Forse non accadrà nulla. Forse hanno ragione quanti oggi scrivono che, il matrimonio tra Trump e Musk è destinato, per assoluta incompatibilità tra i due contrapposti, debordanti ego dei coniugi, destinato a fallire ancor prima dell’inizio della cerimonia di nozze (leggi: l’inizio del secondo mandato di Trump). A questo aggiungendo che, dovessero davvero prender sul serio l’incarico di snellire gli apparati di Stato, Musk e Ramaswami, dovrebbero per prima cosa abolire l’agenzia da loro creata e da non pochi stand-up comedian subito paragonata a “The Ministry of Silly Walking” il Ministero delle Camminate Idiote, a suo tempo reso famoso da uno sketch dei Monty Pyton. Resta comunque il fatto che l’immagine che di primo (ed anche di secondo, terzo e quarto) acchito il DOGE trasmette al mondo, è in realtà quella della più colossale – e, nella sua enormità, davvero “never seen before”, mai vista prima, come Trump ama dire d’ogni sua impresa – espressione di conflitto di interesse. Puzzano d’antico – un molto rancido antico – le capitalistiche “magnifiche sorti e progressive’”prospettate da Elon Musk.
E a loro modo disegnano anche, nella loro antichità, le linee di fondo d’una vera e radicale (contro)rivoluzione. Quelle che – da Lincoln a Trump, per l’appunto – segnano, in antidarwiniana involuzione, il passaggio da “the Government of the people, by the people and for the people”, il governo del popolo, per mezzo del popolo e per il popolo, dal buon Abraham propugnato nel suo storico “ Gettysburg Address, nel 1863, a “the Government of the billionaires, by the billionaires, for the billionaires”, il governo dei miliardari, per mezzo dei miliardari e per i miliardari, scaturito, sotto l’egida di Donald Trump, dal naturale incontro tra il capitalismo che ripudia la democrazia ed il fanatismo religioso, il terrapiattismo, il culto della personalità, l’autoritarismo mistico, il razzismo, la xenofobia e, in ultima analisi la ciarlataneria populista che del trumpismo sono, per così dire, la massa di manovra.
La domanda è: si può invertire il cammino? Quanto profonda, quanto definitiva è la ferita inflitta alla democrazia dai risultati dello scorso 5 novembre? In queste ore, prevedibilmente, molti sono gli indici puntati e poche sono le risposte. La colpa, si dice, è di un Partito Democratico che si è spostato troppo a sinistra, irretendosi nei meandri della politica “woke”, del “politically correct” e di quant’altro, identificandosi, infine, con le famose élite da ogni populismo ripudiate. La colpa, replicano altri, è, al contrario, di un Partito Democratico che si è spostato troppo a destra, regalando al populismo trumpista l’America “left behind”, impoverita e abbandonata a se stessa dalla deindustrializzazione del Paese. In entrambi i casi – spostatosi a sinistra o a destra – la colpa di un Partito Democratico che ha perso i contatti con la sua tradizionale base operaia. Colpa, ancora, di Joe Biden che, rimasto troppo a lungo in corsa a dispetto d’una sempre più ovvia senile presenza, ha costretto Kamala Harris ad una frettolosa – e infine perdente – rincorsa degli eventi. E colpa di un movimento progressista incapace di muoversi e di comunicare nei nuovi territori social….
Una flebile voce, una speranza….
Nel buio di queste ore, tra j’accuse e rese dei conti, non si riesce a intravvedere – tornati, di nuovo, sul luogo del delitto – che la luce di un inascoltato, e proprio per questo splendente, richiamo all’umana decenza. Quello che, nel più profondo della notte trumpista, a Springfield, Ohio, ha lanciato Nathan Clark in difesa della memoria del figlio e contro l’odio. Una voce flebile perduta nel frastuono dei festeggiamenti dei vincitori.
Non è molto. O forse è troppo, in questa America e in un mondo che sembra voler camminare all’indietro. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.