Iowa: appena cominciata, la corsa è già finita…

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Grande vittoria di Trump nel piccolo Iowa. Il Partito Repubblicano è ai suoi piedi

Lunedì notte, quando in Italia era quasi l’alba del martedì, la corsa alla Casa Bianca s’è, come da tradizione, ufficialmente aperta nelle gelide profondità nello Stato dell’Iowa – 25 gradi sottozero, meno 40 tenendo conto del “windchill effect”, l’effetto vento – con l’avvio della lunga stagione delle primarie. O, per meglio dire, s’è ufficiosamente aperta e subito s’è richiusa – o semi-richiusa, nel senso che alla parola “fine” non manca, ormai, che un ultimo giro di chiave – la campagna per la nomination di quello che, in tempi non lontanissimi ma ormai irrecuperabili, fu il Partito Repubblicano, o Grand Old Party (GOP). E che oggi a tutti gli effetti è – come dal voto dell’Iowa con didascalica chiarezza confermato – il partito di Donald Trump.  Il tutto nell’inquietante cornice di elezioni presidenziali – quelle del prossimo novembre – che si preannunciamo come le più scontate e, insieme, come le più paradossalmente incerte e pericolose della storia degli Stati Uniti d’America.

Un’occhiata ai risultati per dare a quanto sopra un’inequivocabile dimensione matematico-politica. Come largamente previsto dai sondaggi della vigilia, Donald Trump ha vinto in scioltezza, accumulando il 51 per cento dei voti, contro il 21 per cento ottenuto dal governatore della Florida Ron DeSantis ed il 19 per cento di Nikki Haley, già governatrice del South Carolina e, per un paio d’anni, ambasciatore all’Onu durante il quadriennio trumpiano. Neppure sommando tutti i propri voti – da loro peraltro conquistati impallinandosi l’un l’altra nell’arruffatissima e, in definitiva, piuttosto patetica ricerca d’un secondo posto che li mantenesse in corsa – DeSantis e Haley avrebbero potuto superare, o anche soltanto avvicinare, il vincitore. Né a tanto sarebbero comunque arrivati avessero potuto arbitrariamente appropriarsi d’almeno una fetta dell’8 per cento scarso conseguito alle loro spalle da Vivek Ramaswamy, il pittoresco businessman dell’Ohio che, ieri, a votazione conclusa, s’è infine ritirato dalla corsa, umilmente consegnando a Trump, in una vera e propria cerimonia di vassallaggio, il suo non esattamente impetuoso margine di consenso. Mai nessun aspirante presidenziale repubblicano aveva, prima di ieri, conquistato l’Iowa con tanto ampio margine. E, soprattutto, mai nessuno l’aveva fatto esclusivamente sospinto, oltre la logica ed i confini della politica tradizionale, dal culto – ridicolo e al tempo stesso feroce – della propria personalità. “It’s the Trump Party”, è il partito di Trump, recitava lunedì notte, quando lo spoglio dei voti non era vecchio che d’una mezzoretta, la pagina web del Los Angeles Times…

In termini puramente statistici, le primarie, anzi, i “caucuses”, le assemblee elettorali, dell’Iowa appaiono – e davvero sono – pressoché irrilevanti per due fondamentali ragioni. In primis, per la loro molto classicamente “diretta” – ma altrettanto ridicolmente obsoleta – natura “assembleare”. Tanto obsoleta che il Partito Democratico l’ha ormai abbandonata a vantaggio di più moderne e logiche forme di suffragio, riprogrammando le proprie primarie nel gran calderone del “super-Tuesday (il “super-martedì” elettorale, in cui, ai primi d marzo, votano una ventina di Stati).  E, in secondo luogo, per l’infima rappresentatività demografico-etnico-politica dello Stato. In Iowa – in un’ormai molto distorta reminiscenza di quella che fu l’originale democrazia rurale jeffersoniana – gli elettori (nel caso specifico quelli registrati come repubblicani) votano recandosi in locali all’uopo attrezzati, nei 1.657 “precincts” disseminati in ciascuna delle 99 contee dello Stato. E qui, ascoltati i discorsi dei candidati (o di chi li rappresenta localmente) esprime infine il suo voto (oggi su apposite schede, un tempo per alzata di mano). Prevedibilmente il numero di persone coinvolte nel processo, non è che una minuscola parte dei potenziali elettori (lunedì al voto non ha preso parte che il 12 per cento dei repubblicani registrati nell’Iowa, per un totale di circa 118mila anime, molte meno, probabilmente anche a causa del freddo polare, delle 180mila del 2020 e delle oltre 200mila del 2016).

Il più bianco e più religioso degli Stati

L’importanza del voto in Iowa è tuttavia sempre stata – a prescindere da queste numeriche ristrettezze – soprattutto di natura psicologica. E questo non solo, com’è ovvio, in virtù del primato temporale che garantisce ai risultati dei “caucuses” un’assai chiassosa, seppur effimera, attenzione dei media, ma anche grazie al fatto che, essendo l’Iowa uno degli Stati con più rilevante presenza evangelica, quei risultati sono per più d’una buona ragione considerati una molto valida cartina di tornasole degli orientamenti dell’elettorato, diciamo così, cristiano-militante. Raramente – l’ultima volta è accaduto nel 2000 con George W. Bush – il candidato che ha vinto nell’Iowa ha poi conquistato la nomination repubblicana. Nel 2008 la vittoria era toccata a Mike Huckabee, governatore dell’Arkansas e pastore evangelico, presto scomparso dalla contesa. Nel 2012 – era stata la volta di Rick Santorum (un cognome un programma), poi rapidamente finito nel dimenticatoio della Storia. Nel 2016 a vincere era invece stato il texano-cubano Ted Cruz, il cui trionfo Donald Trump, per l’occasione arrivato terzo, d’acchito aveva – in un primo sostanzioso assaggio di quello che sarebbe poi diventato un permanente connotato del suo far politica – denunciato come frutto d’una frode contro di lui ordita.

Quest’anno l’Iowa era, per molte ragioni, il primo e determinante test per valutare quanto concrete fossero le possibilità che – nella sua parte ancora non totalmente trumpizzata – l’establishment repubblicano riuscisse a vittoriosamente esprimere candidati capaci di capovolgere il corso degli eventi, invertendo o, almeno, rallentando la trumpiana deriva che sta distruggendo il partito di Abraham Lincoln Vale a dire: in grado di disputare con qualche chance di successo a Donald Trump la nomination presidenziale. O, ancor meglio – volendo riprendere l’implorante appello d’un editoriale del Wall Street Journal pubblicato all’indomani della debacle delle ultime “elezioni di metà mandato” – capace di stabilire quante, alla prova delle urne, fossero le concrete possibilità d’arrivare al duello finale (presumibilmente con Joe Biden) con un candidato diverso dall’unico – Trump per l’appunto – che i democratici fossero “sicuri di battere”.

Queste erano le premesse. E (quasi) senza scampo – anzi mortalmente gelida come la notte elettorale dello Iowa – è stata la risposta giunta delle 1.657 assemblee elettorali. Ron DeSantis aveva preparato questo appuntamento con cura, forte dell’ampio margine con cui in Florida – Stato storicamente “in bilico” – aveva quattro anni fa conquistato la poltrona di governatore. E forte soprattutto – o, almeno, così lui pensava – d’una politica che, senza rinnegare in alcun modo Trump, Trump aveva cercato di scavalcare a destra, soprattutto in materia di guerra contro quello che, nel gergo della reazione (e non solo la più estrema), va da tempo sotto il nebbioso e tenebroso nome di “wokeism”.  Ossia, contro l’indistinto, magmatico e distruttivo vortice di perdizione che, rimestato da marxisti, liberals, antifa, ebrei, omosessuali, e pervertiti d’ogni oggi genere, va inghiottendo tutti i valori – Dio, Patria, famiglia – che hanno fatto grande l’America. Più ancora: contro il male assoluto che oggi va corrompendo soprattutto le menti più deboli, quelle dei bambini, costretti dalle più scellerate politiche “liberal” ad odiare la propria razza (la bianca, ovviamente) e, persino, a rinnegare il proprio sesso.

DeSantis addio

La politica di Ron DeSantis in Florida è, negli ultimi due anni, con lo sguardo costantemente rivolto alla Casa Bianca, passata come un censorio rullo compressore per tutte le scuole dello Stato, proibendo libri e chiudendo biblioteche, in una frenetica campagna purificatrice tesa a cancellare da ogni curriculum scolastico, pubblico o privato, ogni riferimento all’omosessualità, all’aborto, al sesso in genere, o alle ingiustizie, al razzismo che ha permeato di sé una democrazia nata in un sistema economico marcato dalla “peculiare istituzione” della schiavitù. Ed in questa battaglia non aveva, “Meatball Ron” (“Ron Polpetta” come lo chiama Trump, con ovvio e sprezzante riferimento alle sue origini italiane) risparmiato nulla, addirittura impelagandosi, con savonaroliani accenti, in una clamorosa baruffa con una delle più riconoscibili icone americane: Mikey Mouse, accusato d’avere espresso una negativa opinione – ovviamente attraverso i dirigenti della Disney Corporation, proprietaria del celeberrimo e frequentatissimo DisneyWorld di Orlando, una delle più floride industrie del “Sunshine State” – in merito ad una delle più celebrate (dalla destra) leggi promulgate da DeSantis: quella che, nota sotto il nome di “Don’t say gay”, proibisce, per l’appunto,  l’uso del termine gay in qualunque programma scolastico.

Per Ron De Santis era fondamentale uscire dal voto dello Iowa se non da assoluto vincitore, quantomeno con una percentuale di voti che lo ponesse “at a striking distance’, ad una colmabile distanza da Trump. E per questo parevano – almeno fino a un paio di mesi fa – esistere tutte le condizioni. Ron DeSantis godeva del pieno appoggio tanto dell’establishment politico repubblicano, rappresentato dal governatore dello Stato, Kim Reynolds, quanto – cosa ancor più importante – delle gerarchie religiose, rappresentante dal più prestigioso dei pastori evangelici del luogo, Bob Vander Plaats.

Si calcola che negli ultimi mesi, a fronte d’un Donald Trump protagonista di alcune spettacolari ma piuttosto fugaci apparizioni nello Stato, Ron De Santis e Nikki Haley – che di DeSantis è una versione più moderata, o più moderatamente (ipocritamente?) affine al Partito Repubblicano che fu – abbiano battuto una dopo l’altra tutte le 99 contee dello Iowa, spendendo in propaganda elettorale (direttamente o attraverso vari comitati) una cifra di quasi 150 milioni di dollari. In pratica, 1.500 dollari per ciascuno dei voti espressi nella notte di lunedì.

Tutto è stato però inutile. I repubblicani dello Iowa, i buoni cristiani del più evangelico e bianco degli Stati, hanno, senza possibili equivoci, fatto sapere al resto d’America ed al mondo che il loro uomo – un uomo dal Signore direttamente inviato – è lui e soltanto lui: Donald J. Trump. Non avrai altro “nominee” al di fuori di me, verrebbe da dire mutuando il grottesco linguaggio para-evangelico che da tempo e con blasfema allegria, caratterizza la campagna di Trump per la (ri)conquista della Casa Bianca.

Trump, il candidato di Dio

Nulla, meglio della ripetitiva cronaca dei (non molti, ma elettoralmente molto efficaci) comizi tenuti in loco da Trump nell’ultima settimana, aiuta a spiegare il vero significato del voto dello Iowa. Comizi tutti regolarmente aperti da un video (opera d’uno sconosciuto autore, ma subito adottato, dopo la pubblicazione su TruthSocial, dalla campagna trumpista) il cui titolo – “So God made Trump”, per questo il Signore ha creato Trump – già è, di per sé, un tenebrosamente grottesco, ma chiarissimo programma. “Il giorno 14 di giugno del 1946 (data di nascita di Donald n.d.r.) – recita con molto ieratica solennità la voce narrante – il Signore guardò dall’alto dei Cieli il mondo che voleva trasformare in paradiso e disse: ho bisogno di qualcuno che di questo mondo si prenda cura… E fu così che il Signore regalò al mondo Donald Trump….”. Dopodiché, esauriti i quasi tre minuti di proiezione lungo i quali si illustrano tutte le divine missioni dal Padreterno affidate a Trump, è lo stesso “regalo di Dio” a prendere la parola illustrando i termini della sua prossima, biblica vendetta contro chi ha tradito lui e che, per questo  – “io e soltanto io posso evitare una guerra nucleare” – minaccia anche di distruggere il mondo.

Quella che il candidato che “Dio ha creato” ha nelle ultime settimane illustrato comizio dopo comizio, è una messianica, implacabile battaglia contro chi, quattro anni fa, lo ha derubato d’una vittoria che fu “a landslide”, a valanga, contro “gli stupidi che governano un mondo corrotto”, contro i “giudici marxisti’, la “sinistra radicale”, i “pazzi”, i “parassiti” responsabili – ai danni suoi e d’un America derubata, per questo, della sua grandezza – d’innumerevoli “cacce alle streghe”, di reiterate “frodi elettorali”,  di “false accuse”, di “falsi processi”, “false notizie”…La sua inevitabile vittoria il prossimo novembre ha fatto a suon d’insulti sapere l’unto dal Signore, non sarà un semplice trionfo elettorale. Sarà, a tutti gli effetti, un Giorno del Giudizio. E tra i sondaggi che, condotti a latere del processo elettorale in Iowa, meglio danno oggi il senso dell’inequivoco rapporto tra Trump ed i suoi elettori, due ne risaltano con agghiacciante chiarezza. I due terzi e passa dei repubblicani che hanno votato lunedì ritengono che le elezioni del 2020 siano state rubate. E nelle medesime proporzioni sono pienamente d’accordo con il più marcatamente “hitleriano” degli anatemi da Trump lanciati e ripetuti nelle ultime settimane tra gli applausi: quello, esemplarmente razzista e xenofobo, secondo il quale gli immigrati “avvelenano il sangue della Nazione”.

Alcuni analisti politici ancora non considerano del tutto chiusa la corsa alla nomination repubblicana. E se DeSantis è ormai ritenuto praticamente furi gioco, una vittoria – o anche soltanto una buona performance – di Nikki Haley nelle molto prossime primarie del New Hampshire (dove gode dell’ “endorsement” del governatore John Sununu) potrebbe ancora cambiare l’inerzia delle primarie. Tutto è naturalmente possibile. Ma una cosa è certa. Donald Trump è arrivato all’appuntamento del voto in Iowa ed all’apertura della stagione delle primarie dopo quattro anni di malgoverno da presidente vissuti, due processi di impeachment, oltre 40.000 menzogne accertate, innumerevoli testimonianze di crassa ignoranza, incompetenza e psichica instabilità, più  un assalto al Congresso, 91 imputazioni criminali potenzialmente punibili con oltre mezzo millennio di carcere e, dulcis in fundo, con una lunga serie di debacle elettorali repubblicane a lui dovute (la vittoria di Biden nel 2020, i due “midterm” del 2018 e del 2022 e una lunga serie di contese locali per senato e Camera). Ed è – ormai con tutta evidenza – non malgrado questi precedenti, ma grazie ad essi che Trump è – tra i repubblicani del molto pio Stato dell’Iowa e, con ogni probabilità, anche dell’intera America repubblicana – diventato imbattibile. Anzi: è per questo che, lui stesso ed in forma messianica, è infine diventato, in una sorta d’allegorica, kafkiana metamorfosi, il Partito Repubblicano.

Comunque finiscano le cose a novembre, è con questa raccapricciante verità che l’America ed il mondo dovranno, negli anni a venire e con conseguenze ancora tutte da misurare, fare i debiti conti.

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