Lo scorso giovedì 2 maggio, in quasi perfetta coincidenza con il 54esimo anniversario dell’irruzione della National Guard nella University of Kent, in Ohio, la polizia di New York ha, per la seconda volta in una settimana, violentemente sgomberato la Hamilton Hall, cuore pulsante della Columbia University, nell’Upper West Side di Manhattan. Il tutto mentre analoghe battaglie campali scandivano, con scontri, feriti e migliaia di arresti, la vita di pressoché ogni centro accademico degli Stati Uniti d’America, immancabilmente rievocando antichi fantasmi.
Quali fantasmi? Quello, ovviamente, del ’68 e degli anni che seguirono, tutti marcati – fino al tragico epilogo della mattanza di Kent – dalle grandi mobilitazioni contro la guerra in Vietnam. Ed anche, in un’inedita e contradditoria mescolanza, quelli – molto meno consuetudinari ma, date le circostanze, ancor più calzanti ed attuali – dell’antisemitismo e del Maccartismo. Ovvero: dell’ultramillenario odio verso l’ebreo e, insieme, della spietata caccia alle streghe che, nel nome della lotta al comunismo, nella prima metà degli anni ’50 investì, senza eccezioni, tutte le istituzioni culturali della più antica democrazia del mondo deturpandone uno dei più intoccabili principi: “the Free Speech”, la libertà di espressione.
Due sono i concatenati eventi alla base di questi spettrali e paralleli ritorni: l’imponente (ed imprevista) ondata di proteste pro-Palestina provocata, nei più importanti centri accademici Usa, dalla feroce ed indiscriminata ritorsione israeliana contro Gaza ed Hamas (più di 35.000 morti, in tutt’altro che piccola parte bambini, stando ai dati diffusi a fine aprile dalle autorità sanitarie di Gaza); e la denuncia del montante antisemitismo (in non pochi casi assolutamente autentico e provato, ma più spesso solo artatamente presunto) che, a detta dei denuncianti, queste proteste non solo accompagna, ma inevitabilmente e compiutamente definisce, regolarmente sfociando, in cortei e tendopoli, nonché in aggressioni verbali e fisiche, in una classica caccia all’ebreo alimentata, ancora una volta, da un’aperta e reiterata apologia di genocidio.
“From the river to the sea”, dal fiume (il Giordano che scorre dal monte Hermon fino al Mar Morto attraversando le Alture di Golan) al mare (il Mediterraneo, ovviamente): questo è lo slogan che, sempre secondo i denuncianti, nitidamente riflette una programmata, ineludibile volontà di sterminio. Se il fine è il nuovo Stato “libero” dei palestinesi a gran voce reclamato dai manifestanti, e se tale Stato deve occupare tutte le terre che separano il Giordano dal mare, il mezzo – questa è la logica della denuncia – non può essere che uno: il massacro di tutti gli ebrei che oggi vivono in quel tratto di mondo. Con il pogrom dello scorso 7 di ottobre, gli uomini di Hamas già hanno, di questa chiamata ad un nuovo Olocausto, servito una sorta di sadico antipasto. E quanti oggi – dimenticando come e perché sia cominciato l’attacco a Gaza – vanno manifestando a favore del popolo palestinese altro in realtà non fanno che esporre e propagandare il resto del menù.
Stanno davvero così le cose? Davvero – come da queste accuse si deduce – gli atenei Usa sono diventati centri di propaganda antisemita, luoghi che gli studenti ebrei possono frequentare solo a proprio rischio e pericolo? Davvero l’imponente movimento pro-Palestina che scuote le università non è che l’ultima e letale rigenerazione dell’antico cancro dell’antisemitismo, l’invocazione d’un nuovo genocidio? Oppure – come sostengono i manifestanti e quelli che con i manifestanti simpatizzano – questa denuncia non è che il volutamente nebbioso prodotto d’una arbitraria identificazione tra antisionismo e antisemitismo? Anzi, peggio: non è che un goffo tentativo di nascondere dietro le sacre memorie del “vero” Olocausto e dietro le millantate paure d’una sua molto ipotetica replica “a venire”, la tangibile realtà d’un autentico e misurabile genocidio: quello, per l’appunto, quotidianamente e ferocemente in corso, contro i palestinesi, nella striscia di Gaza? “From the river to the sea”, è oggi, contendono gli studenti delle tendopoli e dei cortei, non un invito allo sterminio degli ebrei, ma al contrario la fotografia di un presente che “dal fiume al mare”, vede gli ebrei vivere in uno Stato che da tempo è il “loro” Stato. E che tale è diventato perché da lì sono stati violentemente cacciati i palestinesi che da decine di secoli lo abitavano.
Dunque, che cosa sta davvero accadendo nei campus statunitensi? Quale tra i tre fantasmi in queste ore evocati – quello dell’antisemitismo, quello del ’68 e quello del maccartismo – meglio riflette la realtà dei fatti? Tutti e tre e nessuno dei tre, verrebbe da rispondere. Agli inizi dell’anno l’ADL (Anti Defamation League) organizzazione il cui scopo è, per l’appunto, quello di monitorare i livelli di antisemitismo in America, ha rilevato un assai inquietante aumento del 340 per cento in episodi d’ostilità nei confronti di ebrei, percentuale che tuttavia si riduce ad un molto più contenuto, ma tutt’altro che rassicurante, 65 per cento, laddove il fenomeno si presenta in forma “pura”. Vale a dire: nei casi in cui totalmente (o, almeno, prevalentemente) prescinde da una critica alla politica del governo israeliano. E di certo in questi giorni di protesta non sono mancati, tra i manifestanti, aperti ed angoscianti attestati di simpatia nei confronti di Hamas e dei suoi metodi da macelleria fondamentalista.
Quanto al ’68 ed al maccartismo, d’altre ed a loro modo più semplici ed immediate cose erano fatti, nonostante indiscutibili affinità, quei “precedenti”. Essere pro o contro la guerra in Vietnam rifletteva scelte radicali, ma nella sostanza assolutamente chiare. Chiare e, per gli studenti, anche molto diretta, personale, visto che molti di loro concretamente rischiavano di esser chiamati alle armi combattere, uccidendo ed essendo uccisi, quella guerra ingiusta. E di certo chiare, nella loro antidemocratica aberrazione, erano un decennio e passa prima state anche le ragioni che, sullo sfondo della Guerra Fredda, avevano spinto il famigerato House on Un-American Activities Committee a frugare nella vita di molti cittadini alla ricerca di “tracce di rosso”.
Un territorio fangoso e informe
La questione palestinese è invece un territorio fangoso ed informe. Lo è da molto prima che, nel settembre del 1917, la famosa “Dichiarazione di Balfour” (da Lord Arthur Balfour, ai tempi ministro degli esteri del governo di Lloyd George) con una lettera a Lionel Walter Rothschild informalmente garantisse al movimento sionista internazionale il pieno appoggio dell’impero britannico – che governava la Palestina per mandato del Trattato di Versailles – alla creazione di una “national home”, una casa nazionale per il popolo ebreo in territori che, “dal fiume al mare”, erano allora per quasi il 95 per cento abitati da arabi palestinesi. E già nel 1919 – negli anni in cui ancora sognava la creazione d’una League of Nations, di una Società delle Nazioni in grado di garantire, dopo la carneficina della Prima Guerra Mondiale, una pace stabile in mondo “safe for democracy”, sicuro per la democrazia – il presidente Usa Woodrow Wilson aveva inviato in Medio Oriente una speciale commissione, passata alla Storia come la King-Crane Commission, per valutare sul campo le possibili conseguenze della creazione, in Palestina, di uno “Stato degli ebrei”. E profeticamente chiare erano state le conclusioni di quella missione diplomatica.
Henry Churchill King, president dell’Oberlin College, and Charles R. Crane, un uomo d’affari con personali interessi ed una larga esperienza nel Medio Oriente (ed anche un notorio antisemita, il che espose la commissione agli attacchi del sionismo internazionale), sottolinearono come una pratica attuazione della promessa contenuta nella Dichiarazione di Balfour avrebbe inevitabilmente creato una “irrisolvibile situazione di permanente instabilità e violenza” nell’intera regione, suggerendo in alternativa la creazione di un unico stato federale, democratico e multinazionale nell’area che si estende tra Siria, Giordania, Palestina e Libano. Uno Stato capace, per la sua diversità, di assorbire anche – attraverso una immigrazione molto più limitata di quella che era nelle aspirazioni del movimento sionista – l’agognato ritorno alla Terra Promessa del popolo ebreo.
Come siano poi andate le cose lo si può leggere in tutti i libri di Storia: il Congresso Usa respinse la legge che decretava l’ingresso degli Stati Uniti nella Società delle Nazioni. Il sogno di Woodrow Wilson sbanì nel nulla e, dal nulla, fallimento dopo fallimento, accompagnò il mondo verso una nuova ed ancor più sanguinario conflitto mondiale. Le conclusioni della King-Krane Commission – peraltro rese pubbliche soltanto nel 1922 – finirono dimenticate in qualche cassetto. Nel 1948 lo “Stato degli ebrei” vide la luce accompagnato – lontano dal Medio Oriente – dai comprensibili applausi d’un mondo nel quale ancor vive ed orripilanti erano le immagini dell’Olocausto. Ma con noi è da allora rimasta la “irrisolvibile situazione di “instabilità e violenza” dalla Commissione pronosticata, la realtà d’un vero e proprio campo minato lungo il quale impossibile è camminar dritto – il bene da un lato ed il male dall’altro – senza il rischio, ad ogni passo, di saltare per aria. Ed in aria, lungo questo accidentatissimo cammino, sono di fatto nelle ultime settimane saltate – con sismiche conseguenze per l’intero sistema accademico americano – le teste dei “magnifici rettori” (o rettrici, nel caso specifico) di due delle più magnifiche istituzioni accademiche americane: Harvard e la University of Pennsylvania. Come e perché?
Per rispondere compiutamente a questa domanda e per cogliere appieno, tra grida sguaiate ed assordanti silenzi, l’intreccio di contraddizioni, ipocrisie, paradossi, mezze verità, comode mitologie e falsità storiche a tutto tondo che fanno da controcanto alle proteste studentesche, vale la pena fare un piccolo salto all’indietro, partendo da un episodio solo apparentemente minore – o aneddotico come si usa dire – accaduto nella House of Representatives alla fine dello scorso ottobre, quando ancor fresca era la memoria dei raid omicida di Hamas ed appena era cominciato l’attacco israeliano contro Gaza.
Fu in quei giorni che l’onorevole Marjorie Taylor Green – di certo la più loquace, potente, prepotente e visibile rappresentante della più estrema, eversiva e da tempo dominante ala trumpiana del Partito Repubblicano – a gran voce reclamò una “esemplare punizione” per la deputata democratica del Michigan Rashida Tlaib – prima palestino-americana ad occupare un seggio della Camera dei Rappresentanti – a suo dire protagonista di “manifeste attività antisemite”, frutto d’altrettanto manifeste simpatie per “organizzazioni terroriste” (leggi: Hamas).
Ovvia domanda: che cosa, nel caso specifico, aveva fatto la Tlaib per meritarsi l’esemplare castigo censorio reclamato, con l’indignato assenso di pressoché tutta la bancata del G.O.P., dalla Taylor Green? Aveva, la deputata del Michigan, manifestato la sua solidarietà con gruppi di ebrei antisionisti (avete letto bene: ebrei antisionisti, categoria non solo esistente, ma anche tutt’altro che eccentrica o marginale) che nella Rotunda di Capitol Hill (il grande spazio circolare che separa la Camera dal Senato) manifestavano contro l’invasione della striscia di Gaza, prospettando quella che considerano l’unica possibile soluzione della “questione palestinese”: la creazione d’un unico Stato che non sia più, come reclamato dal sionismo, lo “Stato degli ebrei”, ma – “from the river to the sea” – lo stato di tutti, ebrei, arabi, e di qualsivoglia altra origine capaci infine di vivere insieme, in pace e in democrazia. Cittadini con eguali diritti, incluso, per i palestinesi, quello di tornare nelle terre dalle quali erano stati a suo tempo espulsi con una prolungata, metodica e violenta operazione di “pulizia etnica”. Tutte cose, queste, che sono l’esatto opposto d’un genocidio. Di ogni genocidio: quello che, a detta dei sionisti, sarebbe insito nel grido di “dal fiume al mare”. E quello che, a detta di altri, in questi giorni va profilandosi – come il tragico finale d’una storia cominciata molti anni addietro – tra le macerie di Gaza.
Ridicole utopie? Sogni che nascondono secondi e turpi fini? Antisemitismo mascherato come, con prevedibile sfrontatezza, sostengono i difensori dello “Stato degli ebrei”? Ciascuno può scegliere la risposta che crede. Ma quale che sia il giudizio sulla manifestazione dei giovani ebrei antisionisti e sulla solidarietà a loro espressa da Tashida Tlaib – da anni abituale bersaglio di accuse di antisemitismo – se si vuole davvero afferrare il valore esemplare, rivelatore della vicenda occorre dare un’occhiata al pulpito da cui erano piovute le accuse. Marjorie Taylor Greene è, infatti, la stessa Marjorie Taylor Green che un anno e passa prima, mentre nel cuore d’una torrida estate colossali incendi andavano devastando le foreste secolari della California, aveva regalato al mondo una sua brillante ed insindacabile teoria in merito alle “vere” cause del disastro. Colpa del cambio climatico? Neanche parlarne. Per la Taylor Greene, come per Trump e per tutti i trumpiani, il “global warming” non è – ipse dixit – che un “hoax”, una burla messa in circolazione dai cinesi per infilarlo in quel posto all’Occidente. No. A causare gli incendi erano in realtà stati “raggi laser” sparati da droni manovrati indovinate da chi? Si, dagli ebrei, quelli veri, classicamente dipinti – con tanto di naso adunco e con tutte le altre inequivocabili, repellenti e distintive caratteristiche fisico-morali che li contraddistinguono – dal più tradizionale e bieco antisemitismo.
I “raggi laser” di Marjorie Taylor Greene
Possibile? Possibilissimo, anzi, certo. Per Marjorie Taylor Greene e per una parte grande del partito di Trump – un tempo noto come Repubblicano o, addirittura, come il partito di Abraham Lincoln – gli ebrei restano quelli che il cancro antico dell’antisemitismo sempre ha considerato fossero: irredimibili deicidi, avide e sataniche creature intente a conquistare il mondo. Non fu forse proprio Donald Trump a definire “good people”, brava gente, i neonazisti che, nell’agosto del 2017, insieme ad altre formazioni della “supremazia bianca” sfilarono per le vie di Charlottesville, in Virginia, innalzando cartelli che recitavano “Jews are Satan’s children”, gli ebrei sono figli di Satana e, soprattutto, “Jews will not replace us”, gli ebrei non ci rimpiazzeranno. O se si preferisce, volendo riassumere in un po’ più estesi termini una delle più tipiche teorie cospirative antisemite, quella della “sostituzione etnica” ormai patrimonio di tutta la destra autoritaria occidentale, compresa quella italiana oggi al governo: gli ebrei non riusciranno, subdolamente manovrando nell’ombra il fenomeno della immigrazione dei “dannati della Terra”, come a suo tempo li chiamò Frantz Fanon, a stravolgere la natura bianca e cristiana degli Stati Uniti d’America.
E se mai qualcuno dovesse nutrir dubbi su quanto sopra, bene farebbe a considerare quanto più recentemente accaduto – ancora una volta con grande protagonista Marjorie Taylor Greene – giusto a ridosso del primo violento sgombero della Colombia University. È stato infatti proprio in quelle caldissime ore che Mike Johnson, fresco Speaker repubblicano della House of Representatives, ha presentato una legge – l’Antisemitism Awareness Act – che di fatto criminalizza ogni manifestazione di antisemitismo (quello DOC e quello spesso solo strumentalmente presunto dell’antisionismo). Sua ovvia intenzione – coronata da un prevedibile successo considerate le molto contrastanti opinioni con cui i democratici seguono la “insurrezione” nei campus e, più in generale, la vicenda mediorientale – era quella di dividere il Partito Democratico. E così è stato. La legge è stata infine approvata per 320 voti contro 91. E molti dei voti contrari sono, come previsto e prevedibile, venuti proprio dai banchi del PD.
Importante dettaglio. A guidare il gruppo dei democratici contrari alla legge, è stato Jerry Nadler, il più stagionato e qualificato dei non pochi ebrei eletti alla Camera, in qualità di rappresentante di quello che è forse il più ebreo dei distretti elettorali dell’intera nazione: l’Upper West Side di Manhattan, il medesimo dove si erge la Columbia University. Il tutto sulla base d’una molto contundente e, ovviamente, per nulla antisemita argomentazione. La legge in questione – ha spiegato Nadler nell’annunciare il suo voto contrario – si basa sulla definizione di antisemitismo resa pubblica nel 2016 dalla IHRA, International Holocaust Remebrance Alliance. E fu proprio l’uomo che di questa definizione fu il principale autore, Kenneth Stern – ha sottolineato Nadler – a raccomandare a suo tempo di non trasformarla in legge. Perché? Perché, se usata in malafede – e la malafede di Mike Johnson era più che evidente – può facilmente diventare, a discapito della democrazia, un’arma contro la libertà di espressione.
Quello che Johnson non aveva previsto è, tuttavia, che quasi un terzo di quei voti contrari venisse dal suo stesso partito, sorretto, senza veli né filtri, da motivazioni assai meno nobili. Anzi, con motivazioni inequivocabilmente e classicamente antisemite. Quel che quel consistente gruppo di repubblicani – tutti appartenenti alla più inflessibile alla trumpiana e ancora una volta guidati da Marjorie Taylor Greene – reclamavano era il loro diritto di definire “deicida” (ed in quanto tali da Dio maledetto) il popolo ebreo. “Quello che fa questa legge – ha dichiarato Marc Gaetz, trumpiano antemarcia della Florida annunciando il suo indignatissimo voto contrario – è in realtà dichiarare illegali i quattro Vangeli”.
Perché vale la pena rammentare tutto questo? Perché in ultima analisi proprio questo – quello d’un paradossale, ma fraterno incontro tra il più rigido sionismo ed il più classico antisemitismo, oggi esaltato o, comunque, senza problemi accettato dal Partito Repubblicano, suoi membri ebrei compresi – è lo scenario nel quale si è dipanata e continua a dipanarsi la crisi del sistema accademico americano. Ed anche di quello che il sistema accademico americano sempre ha considerato uno dei suoi beni più sacri: il “free speech”. Per l’appunto, la libertà d’espressione.
Gli “hearings” della Camera: una tragicommedia in due atti
S’è trattato di una tragedia (o tragicommedia) in due atti. Tanti quante sono stati, nel mese d’aprile, gli “hearings”, le speciali udienze convocate da un apposito comitato della House of Representaives (oggi guidata da un molto risicata ma molto solidamente “trumpiana” maggioranza) per valutare il problema della crescita, dai convocanti definita “esponenziale”, dell’antisemitismo nelle università in rivolta. Grande protagonista del primo atto era stata – come tutte le cronache hanno riportato – Elise Stefanik, deputata repubblicana dello Stato di New York, trumpiana di ferro ed ai primi posti nella lista dei possibili vice di Donald Trump nella prossima corsa alla Casa Bianca. Da lei è arrivata la domanda chiave che ha segnato il destino di Claudine Gay, presidente dell’Università di Harvard, e di Liz Magill, presidente della University of Pennsylvania.
“Considerate l’invocazione del genocidio degli ebrei una violazione del codice di condotta delle università che dirigete?”. Questa era stata la domanda. E questa – “it depends on the context”, dipende dal contesto – era stata, pateticamente timida e, almeno al primo ascolto, surrealmente burocratica, la risposta delle due presidentesse. Surrealmente burocratica perché impossibile è capire, in assenza di ulteriori chiarimenti, da quale “contesto” possa mai dipendere il ripudio d’un genocidio. E al tempo stesso timida perché, presumibilmente per quieto vivere, quella risposta aveva, per l’appunto, rinunciato a definire un contesto che davvero esisteva e che, se opportunamente rivelato, avrebbe sottolineato come la domanda della Stefanik, apparentemente semplice e diretta, si basasse in realtà, con molto disonesti accenti, su un falso presupposto: quello secondo il quale ogni richiamo ad un’unica Palestina “dal fiume al mare” – richiamo che peraltro sempre fu, storicamente, patrimonio del sionismo radicale – necessariamente comporta un genocidio degli ebrei. E, ancor più, quello che vede in ogni rifiuto del sionismo o, addirittura in ogni ripudio della politica del governo israeliano, quali che siano i suoi crimini, una genocida manifestazione di antisemitismo.
Pochi giorni dopo quella udienza congressuale le teste di Claudine Gay e di Liz Magill sono miseramente cadute, mozzate sulla pubblica piazza mediatica dalla ghigliottina delle polemiche. Ed è con la un’assoluta volontà d’evitare il medesimo destino che lo scorso 17 di aprile, nel secondo atto della tragicommedia, la più alta autorità della Columbia University di New York, Nemat Shafik, ha affrontato le forche caudine dell’antisemitismo pro-sionista dei repubblicani della House of Representatives. Nessun tentennamento, nessun “contesto”, nessun condizionale nel suo caso. Nemat Shafik si è limitata, lasciandosi trascinare dalla corrente, a rispondere con molto perentori e sobri “sì”, “certamente”, “senza dubbio”, “no”, “in nessun caso”, alle domande che le venivano rivolte. Ed è passata indenne attraverso momenti che, molto più che il maccartismo, evocavano, in chiave di farsa, le più tenebrose memorie della Santa Inquisizione.
“Vuoi davvero che la Columbia University sia maledetta da Dio?”
Ecco, tanto per gradire, un esempio. Rick Allen, un repubblicano della Georgia, ha chiesto a Shafik se ricordasse quel che s’afferma in Genesi 12:3. E, ascoltata la risposta negativa dell’interrogata, ha quindi recitato a memoria quel capitolo dell’Antico Testamento (che, secondo lui, ha poi trovato conferma nei Vangeli). “Questo era il patto che Dio fece con Abramo, e quel patto era molto chiaro: ‘Se benedici Israele io ti benedirò, se maledirai Israele io ti maledirò…”. Tu credi a queste parole? ha quindi continuato Allen con ieratica solennità. “Vuoi davvero che la Columbia University sia maledetta da Dio?”
“Decisamente no”, è stata l’immediata risposta della Shafik che, presumibilmente, ha fatto qualche sforzo per rimaner seria. Ed il giorno dopo, tornata a New York e molto più per mantener la poltrona che per evitare la maledizione di Dio, ha – cosa raramente avvenuta nella storia dell’ateneo – chiamato la polizia perché sgombrasse la tendopoli allestita dai protestanti all’ingresso dell’università, nell’Upper West Side di Manhattan.
Il risultato? L’immediato allargamento della protesta, non solo alla Columbia – dove l’accampamento smontato dalla polizia è stato immediatamente ricostruito e poi di nuovo sgomberato in quella che si preannunciava come una lunga guerra di logoramento – ma, in pratica, a tutte le università del paese, in quella che è ormai da tutti considerata la più grande mobilitazione studentesca del XXI secolo. Con quali significati e con quali conseguenze? I rapporti dall’interno del movimento sono – per quanto inevitabilmente zigzaganti lungo il “campo minato” sopra descritto – relativamente chiari. E raccontano, accanto a storie di derive fondamentaliste e di atteggiamenti compiutamente e, talora, violentemente antisemiti, di una ampia presenza anche di giovani ebrei nelle manifestazioni e nelle “zone liberate” dove s’innalzano le tendopoli. Ebrei che non nascondono, ma al contrario ostentano la propria ebraicità in contrapposizione al prevalente antisemitismo sionista che reclama la fine d’ogni protesta.
L’antisemitismo pro-sionista, un fenomeno tutt’altro che nuovo
Non è in realtà un fenomeno nuovo l’antisemitismo sionista. Ed anzi vanta, tra le altre cose, antiche e religiose radici nella convinzione che il trionfo d’Israele sia, per volontà divina, la condizione per la seconda venuta di Cristo, evento, questo, che porrebbe gli ebrei di fronte ad una non particolarmente piacevole prospettiva: convertirsi o sparire dalla faccia della terra. Questa volta il fenomeno presenta però, tra le sue cause, un lato laicamente nuovo e che si preannuncia come politicamente durevole: l’affinità politica tra l’estrema destra – storicamente il più fertile terreno dell’antisemitismo – e quella del governo israeliano di Benjamin “Bibi” Netanyahu, il reciproco riconoscersi, non solo in chiave antislamica, in una comune idea di nazionalismo autoritario (qualcuno lo chiama fascismo) a base etnico religiosa.
È, questa apparentemente innaturale ma in realtà naturalissima e quasi spontanea alleanza, il fatale approdo di una lunga storia – quella del sionismo – marcata da molte nobili intenzioni maturate sullo sfondo d’una millenaria persecuzione infine sfociata nell’Olocausto, il più tragico ed emblematico genocidio della storia dell’umanità; e nel contempo da una insuperabile contraddizione di fondo: la pretesa di creare, con motivazioni in ultima analisi religiose, uno “Stato degli ebrei” – che di una maggioranza ebrea vitalmente necessitava – dove gli ebrei non erano, all’inizio della Storia, che una esigua minoranza. Tanto nella versione laborista e pacifista di Chaim Azriel Weizman, quanto in quella militarista (la più politicamente realista per molti aspetti) di Ze’ez Jabotinsky, il sionismo aveva come inevitabile presupposto, dichiarato o meno che fosse, la de-arabizzazione della Palestina. E de-arabizzazione è stata, nella forma di una prolungata, spietata operazione di pulizia etnica che dal ‘48 non ha mai cessato, su entrambi i lati della barricata, di partorire mostri. Gli ultimi: quello che il 7 di ottobre, manovrato da Hamas, in un raid terrorista in territorio israeliano ha trucidato donne e bambini in quanto ebrei. E quello che oggi, in un prolungamento della pulizia etnica di cui sopra sta, sta radendo al suolo la striscia di Gaza.
Una democrazia senza costituzione
Da sempre – e con ben più d’una buona ragione – Israele si vanta d’essere l’unica democrazia del Medio Oriente, un’isola assediata da dittature militari o religiose. Unica in tutti i sensi. In quello, soprattutto, d’essere la sola democrazia liberale priva di una Costituzione. O meglio: una democrazia condannata all’impossibilità di definire se stessa, perché definendosi – e definendosi a base etnico-religiosa – si negherebbe come democrazia.
È in questo nebuloso sfondo – o, per riprendere le parole della King-Krane Commissione, sullo sfondo di questa “irrisolvibile situazione di instabilità e violenza” che si va consumando la strage di Gaza. E ed è su questo stesso sfondo che si muove anche, tar mille contraddizioni, il movimento che oggi scuote le università. Spolverata e ridotta all’osso, tuttavia, la ribellione studentesca, come già nel ’68, non è in fondo che questo: un nuovo momento di lotta per la democrazia e per la libertà d’espressione. Una richiesta di giustizia e di pace per la Palestina e per il mondo intero, un salutare ritorno dell’utopia, la marcia verso un futuro che non vedi e che non sai come raggiungere, ma che almeno, nel nome della vita e contro la morte, ti aiuta a camminare. Non resta che sperare che questa marcia possa durare. E che magari – sebbene per questo occorra forzare oltre ogni limite l’ottimismo della volontà – riesca persino a vincere.